Ogni cosa «in mostra» appare entro il gioco di specifiche modalità di potere e di esclusione, entro uno specifico regime d’enunciazione: un teatro di forze, una macchina regolativa e regolata di assegnazione di ruoli e codificazioni disciplinari quale è lo spazio istituzionale dell’esposizione.
Da Manifesta alla Fondazione Pinault, dal Beirut Art Center fino alle recenti biennali internazionali, possiamo davvero scorgere, secondo Scotini, un brand continuamente sottoposto al performante, o per meglio dire, alla produzione di quel lavoro immateriale di cui parla Maurizio Lazzarato: un flusso intento a produrre il contenuto informativo e culturale di una comodità; la biennale è un’impresa in cui la comunicazione stessa attorno si fa valore e produzione di un sintomo. Il curatore è un corporate agent, un cultural global player, che organizzerà la propria esposizione secondo il paradigma dello zoo, in modo da costituire la giusta “fisica” del pubblico. Già negli anni Sessanta Piero Gilardi anticipava quel che sarebbe accaduto a partire dagli anni Ottanta, ovvero come il welfare state, con il deficit finanziario delle gallerie, avrebbe poi ottenuto il controllo ideologico dell’arte: parliamo di produzione post-fordista e ci riferiamo allo sviluppo di un mercato che include proprietà culturali, intellettuali e biogenetiche che, in un contesto artistico, si consacreranno nella forma d’uso della biennalizzazione, della fiera, etc. Insomma, nel lavoro cerebrale, l’essere vivente, dice Andrea Fumagalli, contiene in sé entrambe le funzioni di capitale fisso e variabile, materiali di lavoro passato e lavoro vivo, nessuna separazione tra lavoro concreto e astratto. Nicolas Bourriaud ha parlato di proletariato dell’intelletto, di una produzione mentale che nell’arte si tradurrebbe in una volontà di incarnare l’economia immateriale di tali flussi, di dare un vero e corpo a questo immateriale. Si dice ‘produrre un’idea’, formalizzare è tradurre quest’idea in un’organizzazione che riproduce la stessa polemica che la genera: arte: teatro o fabbrica? Recuperare lo scarto della fabbrica, recuperare questa frontiera, è smantellare l’Edipo, integrare il subalterno e l’orrido. Ma come? Se il neoliberismo ha anche celebrato la fine dello spazio pubblico, allora esposizioni come Forms of Resistance di Charles Esche, possono realmente smantellare l’amnesia che la biennalizzazione produce, la schizoide oscillazione tra nostalgico passato e cancellazione di questo… Se così fosse, passeremmo dalla comfort zone al museo disperso, dal management culturale ai nuovi engagements, dalla nostalgia politica all’insorgenza urbana, dal bank system alle alternative economies. In Artecrazia (Derive Approdi, 2016), Scotini ci parla del tempo per visitare un vernissage come ulteriore tempo di lavoro, e della relazione e dello scambio previsti come norme e logiche di sfruttamento per uno spazio (quello dell’evento) che si ricicla nella sua accezione puramente post-fordista. Un modello di pubblico, quello che cerca la biennale, di fatto reazionario, neocoloniaista, esotico. L’idea stessa di spazio, nel capitalismo biocognitivo, si raggruppa in un virtuale che comunica e coopera in una gerarchia che col sapere comanda (nel senso proprio di capitale umano, ovvero: maggior produzione attraverso una maggiore istruzione); in un nomadismo, in un diverso tempo, in una flessibilità che si determina e che determina, nel suo limite, la precarietà come struttura molecolare, affettiva e contrattuale: la merce è nell’informazione, nell’emotività scambiata, il rapporto umano è forza lavoro, il passato è un archivio esperenziale per produrre futuro, esiste in quanto strato, in quanto sedimento, dice Fumagalli, in quanto contenitore.
Alberto Grifi, Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, 1976, fermo-immagine, courtesy Archivio Associazione culturale Alberto Grifi.
Alberto Grifi, Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, 1976, fermo-immagine, courtesy Archivio Associazione culturale Alberto Grifi
Valentina Dell’Aquila: Partirei dalla domanda che forse tu poni nel testo, ovvero: È possibile creare un’autonomia del lavoro artistico in un contesto museale governativo? Può un operato essere progressista in un contesto artistico dichiaratamente reazionario? Biennali, esposizioni, network (le cosiddette industrie creative o culturali), sono davvero monoliti che contrabbandano uno sterile attivismo autocompiaciuto e patologizzato?
Marco Scotini: Walter Benjamin era stato chiaro già nel 1934. E, cioè, in un momento storico-politico che ha quasi tutti i caratteri del tempo che stiamo vivendo. Mai come ora la domanda urgente è: che tipo di controllo possono esercitare gli artisti (o i pubblici) sulle macchine espositive contemporanee? Come è possibile alimentare in senso innovativo la produzione di cose e segni senza pensare di trasformare l’apparato produttivo? Questo apparato adesso non è più quello della triade modernista, articolato in artista, gallerista e istituzione. La sua attuale complessità è data da un alto numero di soggetti e tecniche implicati nel sistema. Ma il suo vero dramma è l’arte quale ostaggio della finanziarizzazione. Questa sposta i criteri di valorizzazione totalmente all’esterno dei processi di scambio e produzione, basandosi sulla creazione sistematica di convenzioni, credenze collettive indotte, ecc. Tutto ciò ha trasformato l’artista nel modello del ‘capitale umano’: un modello che crea costitutivamente l’illusione di un soggetto liberato mentre risulta totalmente depotenziato da tutti questi fattori all’opera. Risulta incredibile come già Piero Gilardi nel ’68 avesse capito che un elemento apparentemente estraneo all’arte, come lo sgravio delle tasse nel contesto americano, avrebbe cambiato completamente il sistema. “Il welfare state con il piccolo deficit del business delle gallerie – scriveva – ottiene il controllo ideologico della potenzialità eversiva dell’arte d’avanguardia”. E aggiungeva: “Gli strumenti di questo controllo sono il finanziamento degli artisti, ma soprattutto la manipolazione dell’informazione artistica e l’inquadramento sociale degli artisti”. Mi pare che dagli anni ’80 in poi, tutto questo si sia compiutamente realizzato.
VDA: Il tuo testo esordisce con casi come quello di Manifesta, Fondazione Pinault, Beirut Art Center, biennali come Illuminazioni o per esempio riporta casi come quello del Whitney e dissidenze ad esso legate. Quando parli di biennalizzazione immagino tu riferisca all’idea di museo brandizzato come impresa creativa, termine davvero recente, che include un gran investimento europeo in tal senso e diffusosi endemicamente fino a campi di ricerca universitaria, fino ad aggredire ogni molecola della conoscenza e della relazione. Si discute con termini quali: incubatore, filiere.
MS: Il cosiddetto fenomeno della ‘biennalizzazione’ è quello che mi pare rappresenti meglio di ogni altro il sistema attuale dell’arte (e non solo di questa). Non si fa tanto riferimento al brand ma soprattutto alla presa sul tempo che la biennale, come tale, garantisce. Dopo la staticità del museo, dopo la fluidità della mostra temporanea, è la biennale a diventare l’ultima creazione nel campo. Di sicuro è una derivazione delle Esposizioni Internazionali della seconda metà dell’800 ma, di fatto, a seguito della Biennale di Venezia e dopo il crollo della Cortina di Ferro, le biennali si sono moltiplicate in tutto il mondo, fino a diventare il nostro format espositivo privilegiato del nostro tempo. Ma le biennali, prima di tutto, sono macchine estrattive di valore e di denaro che fissano sistemi di attese a cadenza regolare e le alimentano. Le biennali creano un alto numero di pubblici, sono il motore dell’industria del turismo, inaugurano una economia dell’evento. Diciamo che sono una macchina governamentale perfetta: con la promessa della novità o della creatività, promuovono condotte, livellano modi di vita e comportamento, catturano l’attenzione di due anni in due anni. Tutto questo nel libro l’ho chiamato “valore d’esposizione” e, cioè, una forma di produzione e monetarizzazione che non rientra né nel valore di uso né in quello di scambio.
Chto Delat/What is to be done?, Angry Sandwich People, 2005.
VDA: Quando hai avvertito il cambiamento, il passaggio da una forma di biennale, di museo come disposizione molecolare, a biennale come comfort-zone, società di servizi, macchina vivente (per citare Gastev e la performatività esemplare di un modello che rende il lavoratore stesso parte integrante del ciclo creativo di produzione) e zoo esotico? Come si destituisce il potere di un curatore come corporate agent?
MS: Diciamo che con l’inizio del 2000 qualcosa cambia e, tanto più cambia con il 2007-8, quando ci interfacciamo con la crisi finanziaria. Ecco, nel 2010 ho verificato questa cosa in prima persona all’interno di una manifestazione importante (o presunta tale) come Manifesta. Dunque, a partire da una occasione concreta. Molto del lavoro di smascheramento del sistema dell’arte che ho fatto in questi anni nasce in quella situazione. Dopo una lunga selezione, ero stato scelto per fare un progetto per la nona edizione della biennale per l’area fiamminga del Belgio. Gli altri invitati erano Sabine Folie e Cuauhtemoc Medina. Il sito prescelto era una miniera dismessa nell’area di Ghenk e il villaggio di operai che la circondava. Lavorando sugli archivi e con la collaborazione di Maurizio Lazzarato e Harun Farocki come advisors, abbiamo scoperto che Manifesta si sostituiva come impresa postfordista all’impresa fordista precedente. Dunque il nostro progetto intendeva muoversi dentro i processi produttivi e sui soggetti della produzione. Vedevano i nuovi operatori culturali o gli artisti come operai postfordisti. Naturamente Manifesta ha preferito avere come oggetto d’indagine la materia del carbone piuttosto che la questione operaia. Vorrei limitarmi a questo per non raccontare i livelli di giustificazione e le forme di degrado culturale con cui il board giustificava la scelta di lavorare sul materiale fossile piuttosto che sul capitale umano. Di fatto serviva per ritardare l’autocoscienza di un problema urgente e attuale. In realtà però un anno dopo le piazze di tutto il mondo si sarebbero riempite di precari occupanti e manifestanti, mentre la biennale non avrebbe fatto altro che registrare il proprio scacco culturale. L’idea di lavoro immateriale nella microfisica dell’evento espositivo ci ricorda la perfetta semplificazione fatta da Arvidsson, e cioè che non risiede in una manifestazione concreta, ma si annida nelle relazioni sociali o simboliche che determina. Il capitale sociale è la nostra rete relazionale che permette o meno cose: il lavoro è la vita stessa (aggiunge Negri)… e la vita è un network. La soluzione? Forse, scrive Terranova, sta nella definizione di un nuovo piano biopolitico controllato immanentemente che operi nella forza produttiva …
VDA: Ma, la storia del neoliberismo è davvero costruita sull’applicazione dello sviluppo tecno-scientifico della creative class? La produzione immateriale di una relazione che si fa economia come ha modificato il tempo stesso di una prestazione lavorativa?
MS: Sicuramente la creative class è al centro dell’economia dell’evento. Una economia che segna il cambiamento di regime delle politiche monetarie e l’entrata del linguaggio nei sistemi di produzione. In questo scenario non solo gli artisti ma anche i pubblici hanno perso i loro attributi tradizionali, per diventare il centro della strategia d’impresa e trasformare il proprio stile di consumo in produzione di valore e in modello di attività. Dentro questa economia i confini tra produzione e consumo sono difficili da tracciare perché il consumatore si rivela un attore tutt’altro che passivo nella filiera produttiva del capitalismo immateriale e cognitivo.
VDA: È curioso notare come la storia del cinema nasca coi Lumiere e Workers leaving the factory, creando così un prodotto artistico che non riesce e non può dimenticare la funzione del lavoro, insomma quel che vi si introduce è la connessione tra arte e lavoro, che indagherà molti anni dopo anche Farocki, ragionando sull’idea del tempo lavorativo (quello al di qua della fabbrica) e sul tempo libero (quello dei lavoratori che escono dalla fabbrica). Per Farocki lo spazio impiegato è uno spazio politico, che segna inesorabilmente la profezia di un tempo, quello del 24/7 capitalism, ovvero un tempo lavorativo dilatato costantemente, ovvero la cancellazione del confine tra lavoro e vita. Parli a tal proposito di economia dell’evento, ovverosia di come anche il tempo impiegato da un pubblico nel visitare una mostra, sia – per le relazioni che implica- un tempo lavorativo. Descrivi il gap per una militanza contemporanea che, al di là della mancanza di uno spazio di politicizzazione, è di fatto difficoltà di sguardo, naturale rifuggirsi della stessa disobbedienza, cambiamento del conflitto sociale. Vorrei sapere in che forma. (A tal proposito Negri al c17 ha proposto che il linguaggio del conflitto sociale si appropriasse della stessa forma semantica del capitale, e quindi che so, cominciare a parlare di impresa sociale…
MS: L’ultima parte del libro è dedicata al format dello schermo. Dopo aver trattato il format “biennale” sono passato a questo. Naturalmente al centro di questo capitolo c’è il tempo come materia prima di controllo ed estrazione del biocapitalismo. Non più lo spazio del modernismo ma il tempo del postfordismo, appunto. Il cinema è stato lo strumento che ha messo in forma tutto questo, è stato una grande anticipazione di quello che sarebbe successo. Non è un caso che tutti gli autori presi in considerazione in questo capito non fanno altro che smontare l’apparato cinematografico. C’è il contro-campo di Debord, il cinema moltiplicato di Grifi, il cinema-lavagna di Oliver Ressler, quello in rewind di Narkevicius, la soggettività mediatizzata di von Wedemeyer, ecc. Pensa che per Grifi è il cinema ci fa accettare che l’economia costringa la vita che viene filmata in una dimensione che è appunto quella consentita dal denaro. Attraverso il cinema il linguaggio della vita si trasforma in mono-linguaggio del denaro che, come tale, ha la pretesa di dare significato a tutta la vita trasformandola in merce. Mi sembra un’anticipazione straordinaria che quello che sarebbe stato l’uomo mediatizzato. Si tratta dunque di produrre e ricomporre temporalità eterogenee che si sottraggano costitutivamente a questo asservimento al denaro.
Oliver Ressler, Politics thwarting the logic of rule, public space, 2005.
VDA: In Towards a Conceptual Militancy, Mike Watson delinea le principali strade in cui l’attivismo artistico italiano ha tentato di modificare le basi del potere locale negli ultimi anni a partire dal 2001 con l’Isola Art Center, nel 2003 con l’occupazione della Stecca degli Artigiani, e nel 2005 con la consacrazione degli attivisti dell’Isola dell’Arte come necessario comitato di quartiere in lotta, poi sgomberati nel 2007 per realizzare il piano di riqualificazione di Porta Nuova…
MS: Questa che tu citi è un’esperienza di cui ho fatto parte in maniera diretta e per anni. Al centro della nostra attività non c’era solo la ricerca di un’azione nello spazio pubblico in trasformazione, neppure solo il riconoscimento radicale del diritto alla città. C’era anche la necessità della formazione di contro-pubblici e cioè di figure che non vogliono più far parte del pubblico dell’arte, del pubblico dell’urbano, del pubblico della società ma vogliono essere promotori, attivatori, produttori dell’urbano, del sociale, ecc. Si è trattato di una maniera di esodo nei confronti del sistema. La domanda che ci ponevamo era come potesse l’arte operare ancora dentro la fine dello spazio pubblico, celebrata dal neoliberismo contemporaneo.
VDA: Parli in effetti di una disobbedienza civile che tenta di contrastare la legge, pur mantenendo una fedeltà ad essa come pratica costituente; poi di una disobbedienza sociale che investe più campi discorsivi e pratici e che, con la fine di una rappresentanza politica e una fine dell’idea di sciopero fordista, ad oggi tenta di agire secondo una lenta profanazione del meccanismo capitalista. Poi parli di un discorso politico autonomo, un nuovo ‘che fare’? Cosa intendi in maniera più specifica e fattuale quando dici: ‘spingersi più in là’?
MS: Che lo si voglia o no, siamo soggettività disobbedienti (che si impegnano e sottraggono allo stesso tempo, destituenti per costituzione). Se così non fosse non assisteremmo alla affermazione quotidiana e sempre più pervasiva di macchine di coazione all’obbedienza sempre più potenti e pervasive. Il progetto “Disobedience Archive” era già un tentativo di far sedimentare e cumulare queste forme antagoniste temporanee e ricorsive, che si fanno e si disfano continuamente, rimanendo sempre fuori però da una macroscala politica, da un modello maggioritario. Ma il problema che si pone ora è come trovare strategie che possano incidere in modo duraturo sulle forme di controllo e cattura; come esercitare rapporti di forza che possano colpire l’organizzazione del tempo sociale e quello dell’economia violenta e che siano all’altezza del precariato universale. Combattere il fascismo finanziario contemporaneo è molto più difficile che al tempo di Benjamin con cui abbiamo cominciato questa nostra conversazione.
Valentina Dell’Aquila vive e lavora a Milano. Si occupa di cinema sperimentale e insegna storia dell’arte. Ha scritto per Uzak,La Furia Umana,Juliet e lavorato presso la Sacher Film, l’Accademia di Belle Arti di Venezia, Ca’ Foscari.
Marco Scotini è il direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano. Dal 2004, è direttore del dipartimento di Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, Milano. Dal 2014 dirige il programma espositivo del PAV – Parco Arte Vivente di Torino. Tra i suoi progetti più recenti: “The Szechwan Tale: Theatre and History” alla prima Biennale di Anren (2017) e la seconda edizione della Biennale di Yinchuan (2018).
Diagramma di Cem Dinlenmiş per Disobedience Archive (The Park), a cura di Marco Scotini, SALT Beyoğlu, Istanbul,2014.
Ogni cosa «in mostra» appare entro il gioco di specifiche modalità di potere e di esclusione, entro uno specifico regime d’enunciazione: un teatro di forze, una macchina regolativa e regolata di assegnazione di ruoli e codificazioni disciplinari quale è lo spazio istituzionale dell’esposizione.
Da Manifesta alla Fondazione Pinault, dal Beirut Art Center fino alle recenti biennali internazionali, possiamo davvero scorgere, secondo Scotini, un brand continuamente sottoposto al performante, o per meglio dire, alla produzione di quel lavoro immateriale di cui parla Maurizio Lazzarato: un flusso intento a produrre il contenuto informativo e culturale di una comodità; la biennale è un’impresa in cui la comunicazione stessa attorno si fa valore e produzione di un sintomo. Il curatore è un corporate agent, un cultural global player, che organizzerà la propria esposizione secondo il paradigma dello zoo, in modo da costituire la giusta “fisica” del pubblico. Già negli anni Sessanta Piero Gilardi anticipava quel che sarebbe accaduto a partire dagli anni Ottanta, ovvero come il welfare state, con il deficit finanziario delle gallerie, avrebbe poi ottenuto il controllo ideologico dell’arte: parliamo di produzione post-fordista e ci riferiamo allo sviluppo di un mercato che include proprietà culturali, intellettuali e biogenetiche che, in un contesto artistico, si consacreranno nella forma d’uso della biennalizzazione, della fiera, etc. Insomma, nel lavoro cerebrale, l’essere vivente, dice Andrea Fumagalli, contiene in sé entrambe le funzioni di capitale fisso e variabile, materiali di lavoro passato e lavoro vivo, nessuna separazione tra lavoro concreto e astratto. Nicolas Bourriaud ha parlato di proletariato dell’intelletto, di una produzione mentale che nell’arte si tradurrebbe in una volontà di incarnare l’economia immateriale di tali flussi, di dare un vero e corpo a questo immateriale. Si dice ‘produrre un’idea’, formalizzare è tradurre quest’idea in un’organizzazione che riproduce la stessa polemica che la genera: arte: teatro o fabbrica? Recuperare lo scarto della fabbrica, recuperare questa frontiera, è smantellare l’Edipo, integrare il subalterno e l’orrido. Ma come? Se il neoliberismo ha anche celebrato la fine dello spazio pubblico, allora esposizioni come Forms of Resistance di Charles Esche, possono realmente smantellare l’amnesia che la biennalizzazione produce, la schizoide oscillazione tra nostalgico passato e cancellazione di questo… Se così fosse, passeremmo dalla comfort zone al museo disperso, dal management culturale ai nuovi engagements, dalla nostalgia politica all’insorgenza urbana, dal bank system alle alternative economies. In Artecrazia (Derive Approdi, 2016), Scotini ci parla del tempo per visitare un vernissage come ulteriore tempo di lavoro, e della relazione e dello scambio previsti come norme e logiche di sfruttamento per uno spazio (quello dell’evento) che si ricicla nella sua accezione puramente post-fordista. Un modello di pubblico, quello che cerca la biennale, di fatto reazionario, neocoloniaista, esotico. L’idea stessa di spazio, nel capitalismo biocognitivo, si raggruppa in un virtuale che comunica e coopera in una gerarchia che col sapere comanda (nel senso proprio di capitale umano, ovvero: maggior produzione attraverso una maggiore istruzione); in un nomadismo, in un diverso tempo, in una flessibilità che si determina e che determina, nel suo limite, la precarietà come struttura molecolare, affettiva e contrattuale: la merce è nell’informazione, nell’emotività scambiata, il rapporto umano è forza lavoro, il passato è un archivio esperenziale per produrre futuro, esiste in quanto strato, in quanto sedimento, dice Fumagalli, in quanto contenitore.
Alberto Grifi, Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, 1976, fermo-immagine, courtesy Archivio Associazione culturale Alberto Grifi.
Alberto Grifi, Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, 1976, fermo-immagine, courtesy Archivio Associazione culturale Alberto Grifi
Valentina Dell’Aquila: Partirei dalla domanda che forse tu poni nel testo, ovvero: È possibile creare un’autonomia del lavoro artistico in un contesto museale governativo? Può un operato essere progressista in un contesto artistico dichiaratamente reazionario? Biennali, esposizioni, network (le cosiddette industrie creative o culturali), sono davvero monoliti che contrabbandano uno sterile attivismo autocompiaciuto e patologizzato?
Marco Scotini: Walter Benjamin era stato chiaro già nel 1934. E, cioè, in un momento storico-politico che ha quasi tutti i caratteri del tempo che stiamo vivendo. Mai come ora la domanda urgente è: che tipo di controllo possono esercitare gli artisti (o i pubblici) sulle macchine espositive contemporanee? Come è possibile alimentare in senso innovativo la produzione di cose e segni senza pensare di trasformare l’apparato produttivo? Questo apparato adesso non è più quello della triade modernista, articolato in artista, gallerista e istituzione. La sua attuale complessità è data da un alto numero di soggetti e tecniche implicati nel sistema. Ma il suo vero dramma è l’arte quale ostaggio della finanziarizzazione. Questa sposta i criteri di valorizzazione totalmente all’esterno dei processi di scambio e produzione, basandosi sulla creazione sistematica di convenzioni, credenze collettive indotte, ecc. Tutto ciò ha trasformato l’artista nel modello del ‘capitale umano’: un modello che crea costitutivamente l’illusione di un soggetto liberato mentre risulta totalmente depotenziato da tutti questi fattori all’opera. Risulta incredibile come già Piero Gilardi nel ’68 avesse capito che un elemento apparentemente estraneo all’arte, come lo sgravio delle tasse nel contesto americano, avrebbe cambiato completamente il sistema. “Il welfare state con il piccolo deficit del business delle gallerie – scriveva – ottiene il controllo ideologico della potenzialità eversiva dell’arte d’avanguardia”. E aggiungeva: “Gli strumenti di questo controllo sono il finanziamento degli artisti, ma soprattutto la manipolazione dell’informazione artistica e l’inquadramento sociale degli artisti”. Mi pare che dagli anni ’80 in poi, tutto questo si sia compiutamente realizzato.
VDA: Il tuo testo esordisce con casi come quello di Manifesta, Fondazione Pinault, Beirut Art Center, biennali come Illuminazioni o per esempio riporta casi come quello del Whitney e dissidenze ad esso legate. Quando parli di biennalizzazione immagino tu riferisca all’idea di museo brandizzato come impresa creativa, termine davvero recente, che include un gran investimento europeo in tal senso e diffusosi endemicamente fino a campi di ricerca universitaria, fino ad aggredire ogni molecola della conoscenza e della relazione. Si discute con termini quali: incubatore, filiere.
MS: Il cosiddetto fenomeno della ‘biennalizzazione’ è quello che mi pare rappresenti meglio di ogni altro il sistema attuale dell’arte (e non solo di questa). Non si fa tanto riferimento al brand ma soprattutto alla presa sul tempo che la biennale, come tale, garantisce. Dopo la staticità del museo, dopo la fluidità della mostra temporanea, è la biennale a diventare l’ultima creazione nel campo. Di sicuro è una derivazione delle Esposizioni Internazionali della seconda metà dell’800 ma, di fatto, a seguito della Biennale di Venezia e dopo il crollo della Cortina di Ferro, le biennali si sono moltiplicate in tutto il mondo, fino a diventare il nostro format espositivo privilegiato del nostro tempo. Ma le biennali, prima di tutto, sono macchine estrattive di valore e di denaro che fissano sistemi di attese a cadenza regolare e le alimentano. Le biennali creano un alto numero di pubblici, sono il motore dell’industria del turismo, inaugurano una economia dell’evento. Diciamo che sono una macchina governamentale perfetta: con la promessa della novità o della creatività, promuovono condotte, livellano modi di vita e comportamento, catturano l’attenzione di due anni in due anni. Tutto questo nel libro l’ho chiamato “valore d’esposizione” e, cioè, una forma di produzione e monetarizzazione che non rientra né nel valore di uso né in quello di scambio.
Chto Delat/What is to be done?, Angry Sandwich People, 2005.
VDA: Quando hai avvertito il cambiamento, il passaggio da una forma di biennale, di museo come disposizione molecolare, a biennale come comfort-zone, società di servizi, macchina vivente (per citare Gastev e la performatività esemplare di un modello che rende il lavoratore stesso parte integrante del ciclo creativo di produzione) e zoo esotico? Come si destituisce il potere di un curatore come corporate agent?
MS: Diciamo che con l’inizio del 2000 qualcosa cambia e, tanto più cambia con il 2007-8, quando ci interfacciamo con la crisi finanziaria. Ecco, nel 2010 ho verificato questa cosa in prima persona all’interno di una manifestazione importante (o presunta tale) come Manifesta. Dunque, a partire da una occasione concreta. Molto del lavoro di smascheramento del sistema dell’arte che ho fatto in questi anni nasce in quella situazione. Dopo una lunga selezione, ero stato scelto per fare un progetto per la nona edizione della biennale per l’area fiamminga del Belgio. Gli altri invitati erano Sabine Folie e Cuauhtemoc Medina. Il sito prescelto era una miniera dismessa nell’area di Ghenk e il villaggio di operai che la circondava. Lavorando sugli archivi e con la collaborazione di Maurizio Lazzarato e Harun Farocki come advisors, abbiamo scoperto che Manifesta si sostituiva come impresa postfordista all’impresa fordista precedente. Dunque il nostro progetto intendeva muoversi dentro i processi produttivi e sui soggetti della produzione. Vedevano i nuovi operatori culturali o gli artisti come operai postfordisti. Naturamente Manifesta ha preferito avere come oggetto d’indagine la materia del carbone piuttosto che la questione operaia. Vorrei limitarmi a questo per non raccontare i livelli di giustificazione e le forme di degrado culturale con cui il board giustificava la scelta di lavorare sul materiale fossile piuttosto che sul capitale umano. Di fatto serviva per ritardare l’autocoscienza di un problema urgente e attuale. In realtà però un anno dopo le piazze di tutto il mondo si sarebbero riempite di precari occupanti e manifestanti, mentre la biennale non avrebbe fatto altro che registrare il proprio scacco culturale. L’idea di lavoro immateriale nella microfisica dell’evento espositivo ci ricorda la perfetta semplificazione fatta da Arvidsson, e cioè che non risiede in una manifestazione concreta, ma si annida nelle relazioni sociali o simboliche che determina. Il capitale sociale è la nostra rete relazionale che permette o meno cose: il lavoro è la vita stessa (aggiunge Negri)… e la vita è un network. La soluzione? Forse, scrive Terranova, sta nella definizione di un nuovo piano biopolitico controllato immanentemente che operi nella forza produttiva …
VDA: Ma, la storia del neoliberismo è davvero costruita sull’applicazione dello sviluppo tecno-scientifico della creative class? La produzione immateriale di una relazione che si fa economia come ha modificato il tempo stesso di una prestazione lavorativa?
MS: Sicuramente la creative class è al centro dell’economia dell’evento. Una economia che segna il cambiamento di regime delle politiche monetarie e l’entrata del linguaggio nei sistemi di produzione. In questo scenario non solo gli artisti ma anche i pubblici hanno perso i loro attributi tradizionali, per diventare il centro della strategia d’impresa e trasformare il proprio stile di consumo in produzione di valore e in modello di attività. Dentro questa economia i confini tra produzione e consumo sono difficili da tracciare perché il consumatore si rivela un attore tutt’altro che passivo nella filiera produttiva del capitalismo immateriale e cognitivo.
VDA: È curioso notare come la storia del cinema nasca coi Lumiere e Workers leaving the factory, creando così un prodotto artistico che non riesce e non può dimenticare la funzione del lavoro, insomma quel che vi si introduce è la connessione tra arte e lavoro, che indagherà molti anni dopo anche Farocki, ragionando sull’idea del tempo lavorativo (quello al di qua della fabbrica) e sul tempo libero (quello dei lavoratori che escono dalla fabbrica). Per Farocki lo spazio impiegato è uno spazio politico, che segna inesorabilmente la profezia di un tempo, quello del 24/7 capitalism, ovvero un tempo lavorativo dilatato costantemente, ovvero la cancellazione del confine tra lavoro e vita. Parli a tal proposito di economia dell’evento, ovverosia di come anche il tempo impiegato da un pubblico nel visitare una mostra, sia – per le relazioni che implica- un tempo lavorativo. Descrivi il gap per una militanza contemporanea che, al di là della mancanza di uno spazio di politicizzazione, è di fatto difficoltà di sguardo, naturale rifuggirsi della stessa disobbedienza, cambiamento del conflitto sociale. Vorrei sapere in che forma. (A tal proposito Negri al c17 ha proposto che il linguaggio del conflitto sociale si appropriasse della stessa forma semantica del capitale, e quindi che so, cominciare a parlare di impresa sociale…
MS: L’ultima parte del libro è dedicata al format dello schermo. Dopo aver trattato il format “biennale” sono passato a questo. Naturalmente al centro di questo capitolo c’è il tempo come materia prima di controllo ed estrazione del biocapitalismo. Non più lo spazio del modernismo ma il tempo del postfordismo, appunto. Il cinema è stato lo strumento che ha messo in forma tutto questo, è stato una grande anticipazione di quello che sarebbe successo. Non è un caso che tutti gli autori presi in considerazione in questo capito non fanno altro che smontare l’apparato cinematografico. C’è il contro-campo di Debord, il cinema moltiplicato di Grifi, il cinema-lavagna di Oliver Ressler, quello in rewind di Narkevicius, la soggettività mediatizzata di von Wedemeyer, ecc. Pensa che per Grifi è il cinema ci fa accettare che l’economia costringa la vita che viene filmata in una dimensione che è appunto quella consentita dal denaro. Attraverso il cinema il linguaggio della vita si trasforma in mono-linguaggio del denaro che, come tale, ha la pretesa di dare significato a tutta la vita trasformandola in merce. Mi sembra un’anticipazione straordinaria che quello che sarebbe stato l’uomo mediatizzato. Si tratta dunque di produrre e ricomporre temporalità eterogenee che si sottraggano costitutivamente a questo asservimento al denaro.
Oliver Ressler, Politics thwarting the logic of rule, public space, 2005.
VDA: In Towards a Conceptual Militancy, Mike Watson delinea le principali strade in cui l’attivismo artistico italiano ha tentato di modificare le basi del potere locale negli ultimi anni a partire dal 2001 con l’Isola Art Center, nel 2003 con l’occupazione della Stecca degli Artigiani, e nel 2005 con la consacrazione degli attivisti dell’Isola dell’Arte come necessario comitato di quartiere in lotta, poi sgomberati nel 2007 per realizzare il piano di riqualificazione di Porta Nuova…
MS: Questa che tu citi è un’esperienza di cui ho fatto parte in maniera diretta e per anni. Al centro della nostra attività non c’era solo la ricerca di un’azione nello spazio pubblico in trasformazione, neppure solo il riconoscimento radicale del diritto alla città. C’era anche la necessità della formazione di contro-pubblici e cioè di figure che non vogliono più far parte del pubblico dell’arte, del pubblico dell’urbano, del pubblico della società ma vogliono essere promotori, attivatori, produttori dell’urbano, del sociale, ecc. Si è trattato di una maniera di esodo nei confronti del sistema. La domanda che ci ponevamo era come potesse l’arte operare ancora dentro la fine dello spazio pubblico, celebrata dal neoliberismo contemporaneo.
VDA: Parli in effetti di una disobbedienza civile che tenta di contrastare la legge, pur mantenendo una fedeltà ad essa come pratica costituente; poi di una disobbedienza sociale che investe più campi discorsivi e pratici e che, con la fine di una rappresentanza politica e una fine dell’idea di sciopero fordista, ad oggi tenta di agire secondo una lenta profanazione del meccanismo capitalista. Poi parli di un discorso politico autonomo, un nuovo ‘che fare’? Cosa intendi in maniera più specifica e fattuale quando dici: ‘spingersi più in là’?
MS: Che lo si voglia o no, siamo soggettività disobbedienti (che si impegnano e sottraggono allo stesso tempo, destituenti per costituzione). Se così non fosse non assisteremmo alla affermazione quotidiana e sempre più pervasiva di macchine di coazione all’obbedienza sempre più potenti e pervasive. Il progetto “Disobedience Archive” era già un tentativo di far sedimentare e cumulare queste forme antagoniste temporanee e ricorsive, che si fanno e si disfano continuamente, rimanendo sempre fuori però da una macroscala politica, da un modello maggioritario. Ma il problema che si pone ora è come trovare strategie che possano incidere in modo duraturo sulle forme di controllo e cattura; come esercitare rapporti di forza che possano colpire l’organizzazione del tempo sociale e quello dell’economia violenta e che siano all’altezza del precariato universale. Combattere il fascismo finanziario contemporaneo è molto più difficile che al tempo di Benjamin con cui abbiamo cominciato questa nostra conversazione.
Valentina Dell’Aquila vive e lavora a Milano. Si occupa di cinema sperimentale e insegna storia dell’arte. Ha scritto per Uzak,La Furia Umana,Juliet e lavorato presso la Sacher Film, l’Accademia di Belle Arti di Venezia, Ca’ Foscari.
Marco Scotini è il direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano. Dal 2004, è direttore del dipartimento di Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, Milano. Dal 2014 dirige il programma espositivo del PAV – Parco Arte Vivente di Torino. Tra i suoi progetti più recenti: “The Szechwan Tale: Theatre and History” alla prima Biennale di Anren (2017) e la seconda edizione della Biennale di Yinchuan (2018).
Diagramma di Cem Dinlenmiş per Disobedience Archive (The Park), a cura di Marco Scotini, SALT Beyoğlu, Istanbul,2014.