O mio corpo, fai di me sempre un uomo che si interroga!* di Roberta Garieri

Che ruolo occupa dunque la mostra nelle politiche di rappresentazione transculturale? Che ingranaggio si nasconde dietro questa presunta ospitalità dei paesi che detengono il potere di mettere in scena, di rappresentare? Quali contro-percorsi si potrebbero tracciare per sviluppare un pensiero estetico decolonizzato?

 

 

In storia, tutto inizia con il gesto di mettere da parte, di riunire, di trasformare così in “documenti” certi oggetti distribuiti diversamente – 1975, Michel De Certeau

La dimensione profonda della ricerca consiste in un’interrogazione costante, un fare e disfare concetti, opinioni e osservazioni che si susseguono e si sorpassano, un processo metamorfico che si insinua in posizionamenti sempre nuovi. Si tratta di un compromesso con la storia che non è mai manifesta o data per scontato. È vero, “la storia non è mai sicura”, ci svela Michel de Certeau e di conseguenza l’immagine che di essa persiste. Ci riferiamo, dunque, a un compromesso, che si palesa a un certo punto e in determinati contesti.

Nuove finzioni dall’America Latina

Scoprire è trovare, ma non sempre trovare è scoprire – 1961, Edmundo O’Gorman

Rappresentare è controllare i mezzi discorsivi che subordinano l’oggetto del sapere a un’economia concettuale dichiarata superiore – 1998, Nelly Richard

Viviamo spazi connessi gli uni agli altri, tanto che il mondo sembra essersi compresso in modo vertiginoso. Ma questa storia già la conosciamo. Insieme alle istituzioni e l’economia, si sono uniformizzate le idee e i modelli socio-culturali del comportamento e, così facendo, non si pensa più in termini di “territori”, al contrario ciò che aveva rappresentato quanto di più “specifico”, “proprio” è stato travolto da un ritmo sempre uguale che riproduce finzioni. La speranza per la quale, sottraendosi le distanze, i sogni e le speranze di molte popolazioni avrebbero acquisito una forma reale, più democratica, si è trasformata in palpabile illusione. Infatti, il crollo delle frontiere, così come la connettività, l’espandersi di flussi e scambi si sono rivelati cambiamenti che hanno dato forma a nuove gerarchie di potere simbolico, piuttosto che al tanto auspicato crollo delle gerarchie culturali. E il sistema dell’arte, spazializzandosi, si presenta come un esempio che richiede la nostra attenzione.

Brochure della mostra Cocido y crudo (14 dicembre 1994 – 6 marzo 1995), Museo Nacional Centro de arte Reina Sofía, Madrid.

La geografia artistica globale che, come geografia tematica, è diventata una caso di studio per comprendere le politiche di rappresentazione transculturale, mostra come al suo interno persiste ancora oggi una differenza coloniale nelle politiche di inclusione ed esclusione proprie al sistema internazionale dell’arte. Ciò significa che, nonostante la fine delle colonie e l’ingresso nella fase detta postcoloniale, l’eredità dell’oppressione di tanti popoli e culture, “un dio, un re, una lingua” (Moraña M., 1998), si percepisce ancora nella produzione d’immaginari e nelle forme che dominano il sapere. Nello specifico, l’arte latinoamericana (così come l’arte africana e l’arte asiatica) fa parte di quei discorsi artistici che, di recente, sono usciti dai loro limiti geografici, grazie all’attivazione del circuito di fiere e biennali. In passato, l’America Latina faceva parte di quelli che erano considerati territori periferici, vale a dire quei territori “rimasti fuori dalla cartografia del progresso modernizzatore” o fuori dal “modello predeterminato delle narrazioni euroamericane” (Mignolo, W., 2013). Per questo la critica latinoamericana indica come necessaria una riscrittura della propria storia dell’arte locale (iniziata negli anni ’60), al fine di recuperare un’autorità all’interno del discorso, ruolo che già da molto tempo il “centro” si è auto-conferito (funzione-centro[ii] = dominio della rappresentazione), mascherandosi dietro il consenso postmodernista dell’inclusione della differenza e della diversità culturale attraverso gli stereotipi[iii]. Tuttavia, anche alcune mostre globali realizzate a partire dal 1989, come la tanto citata Magicien de la Terre (Parigi, 1989) o Cocido y crudo (Madrid, 1994), hanno rappresentato un tentativo idealizzante di uscita dalle contraddizioni avanzate dalle retoriche postmoderne, tanto da mantenere ancora acceso il dibattito sul valore della messa in scena dell’alterità (le identità latinoamericane in questo contesto) nel mondo e, al contempo, sui rischi che le grandi opposizioni binarie create dalla globalizzazione potrebbero continuare a fomentare.

Ricardo Basbaum – sul, sur, south, diagramma Sitac VII, 2009, Città del Messico

Che ruolo occupa dunque la mostra nelle politiche di rappresentazione transculturale? Che ingranaggio si nasconde dietro questa presunta ospitalità dei paesi che detengono il potere di mettere in scena, di rappresentare? Quali contro-percorsi si potrebbero tracciare per sviluppare un pensiero estetico decolonizzato?

Queste e tante altre sono le domande, ancora prive di una risposta definitiva che alimentano la nostra constatazione secondo la quale siamo lontani dal costituire una comunità compatta e omogenea. Forse il mondo non è più rigidamente diviso tra “culture curatrici” e “culture curate” (Mosquera G., 1995), data la vivace e interessante produzione artistica e teorica radicata in molti paesi dell’America Latina. Pertanto, se l’ambizione è di plasmare un mondo in cui non esistono più separazioni di genere, etnia, classe, in cui le gerarchie di potere che manovrano la circolazione interculturale del sapere si orizzontalizzano, si potrebbe iniziare riconsiderando la politica del posizionamento di ciascuno di noi e quindi anche il ruolo del linguaggio, vale a dire la struttura che rende manifesto il nostro modo di pensare e concepire il mondo in cui viviamo. Si considerano fondamentali le due riflessioni proposte, soprattutto quando ci si ritrova a lavorare in ambienti accademici o extra-accademici. La ricerca, così come la produzione di mostre, quindi le figure del ricercatore e del curatore, hanno la responsabilità morale di diffondere e produrre una conoscenza che metta in discussione quanto argomentato fino ad ora e che dia priorità alla nozione di transnazionalità per dar vita ad una storia dell’arte non più verticale, ma orizzontale, polifonica e multidimensionale, affrancata dalla gerarchie geografiche, parafrasando Piotr Piotrowski in On the spatial Turn, or Horizontal Art History.

Da dove? Come? Quando? Per chi?

Viviamo in tempi di domande forti e risposte deboli – 2010, Boaventura de Sousa Santos

Se potessimo congelare la storia e replicare la geografia nella mappa, questa rappresentazione non coinciderebbe con qualcosa di effimero? – 1998, Fernando Coronil

Chi parla in questo spazio è una ragazza italiana, del Sud, che poi è andata altrove (come tanti fra noi), il che significa tante cose, ma non è in questo contesto che mi lascerò andare in discorsi sulle mie origini. Solo il fatto di riconoscermi e ritracciarmi, mi permette di individuare una posizione, di situarmi rispetto a quanto si è detto fino ad ora: essere consapevole che è necessario un lavoro di dislocamento, di messa in dubbio del sapere che ci è stato da sempre trasmesso, di quel sé universale della tradizione umanistica e illuminista, il cui corpo oggettivato (bianco, maschile e occidentale) considera la differenza come altro, improprio ed esterno.

Per esempio, la presa di coscienza contro l’eurocentrismo offre il vantaggio di una cartografia più giusta e più precisa delle nostre condizioni reali d’esistenza (…) La de-identificazione non è tradimento degli affetti primordiali, quanto piuttosto una specie di disobbedienza epistemologica che incoraggia la ricerca sistematica di una non-appartenenza radicale o relativa come posizionamento principale del soggetto (Braidotti, R., 2009, pp. 127-129).

La politica del posizionamento[iv], del situarsi implica dunque un movimento constante del sé, fondato sulla percezione della differenza. In definitiva, una volta de-familiarizzatisi con queste categorie che hanno offuscato per secoli il modo in cui abbiamo osservato il mondo, dovrebbe essere intenzionale iniziare a percepire sé stesso come altro, intendendo il “come” nella sua accezione esplicativa e non comparativa, sé in quanto altro. L’alterità, in questo modo, sarebbe insita al processo di costruzione del sé, un sé che utilizza la differenza non come strumento per nuove appropriazioni culturali, ma nella prospettiva decoloniale:

Non è certo facile per gli intellettuali europei ammettere che si pensa anche fuori dall’Europa (…). La decolonialità non è un momento temporale, ma segna la coesistenza di opzioni in un procedere globale in cui non ci sono “post” tranne che per il pensiero regionale eurocentrico che riconosce come tempo universale il tempo euro-statunitense (Mignolo, W., 2013, p. 21).

Quello che propone il pensiero decoloniale è dunque un’apertura, un’emancipazione dal passato per immaginare il futuro e creare, in questo modo, una rottura dello status quo dominante. Pertanto, questo non significa dichiarare una crociata contro l’Occidente in nome di un’autoctonia latino-americanista, di culturalismi etnocentrici e di nazionalismi populisti. Non si tratta nemmeno di andare contro la scienza moderna né di promuovere un nuovo tipo di oscurantismo epistemico (Castro Gomez, 2007, p.90) piuttosto, quello che il programma di ricerca Modernità/Colonialità[v] suggerisce è di aderire a una sorta di nomadismo del pensiero, un pensiero che avanza secondo un processo di disapprensione e ri-apprensione, viaggiando tra passato, presente e futuro. Questa de-territorializzazione dei saperi e delle menti non può concretarsi se non ripensando contemporaneamente la politica del linguaggio, utilizzata per scrivere questa storia. Siamo in accordo con l’antropologo venezuelano Fernando Coronil quando afferma:

Nei discorsi quotidiani, come nei lavori accademici, termini come l’ “Ovest”, l’ “Occidente”, il “centro”, il “primo mondo”, l’ “Est”, l’ “Oriente”, la “periferia” e il “terzo mondo” sono usati per classificare e identificare  diverse aree geografiche. Anche se non sempre è chiaro a cosa si riferiscono questi termini, si utilizzano come se esistesse una realtà esterna e ben definita alla quale corrispondono o per lo meno hanno l’effetto di creare questa illusione (Coronil, F., 1998, p.123)

Aderire a queste teorie, che non presuppone un lavoro d’illustrazione delle stesse, quanto piuttosto un’immersione soggettiva al loro interno, una loro visualizzazione, ci permetterà di proporre dei lavori di ricerca su contesti geo-storici e geo-culturali diversi da quelli a cui apparteniamo, assumendo un punto di vista consapevole, non-imperialista e che intende sospendere la colonialità del potere, del sapere e dell’essere che ha la sua origine nel progetto della modernità occidentale.

 

Roberta Garieri è scrittrice e ricercatrice indipendente. Attualmente vive in Francia, tra Marsiglia e Rennes, dove svolge un dottorato di ricerca in Storia dell’Arte che propone una riscrittura della dimensione reale e simbolica dell’esilio artistico cileno durante la dittatura militare di Pinochet, su un livello che si situa in un contesto extra-accademico, i cui interessi ricadono sulle problematiche che derivano dai transfert culturali mondializzati in una direzione che privilegia una storia dell’arte connessa e che favorisce l’incrocio di elementi geografici lasciati spesso distanti. Collabora con alcune piattaforme d’arte contemporanea, hotpotatoes (It), Point Contemporain (Fr) e Tonic (Ch) e con Dos Mares, una residenza d’artista con base a Marsiglia.

Magiciens de la terre, Grande Halle, Parc de la Vilette, Parigi, 1989 © Centre Pompidou, Bibliothèque Kandinsky.

Bibliografia

Braidotti, R., 2009, La philosophie…là où on ne l’attend pas, Larousse.

Coronil, F., Más allá del occidentalismo: Hacia categorías geohistóricas no imperialistas in Castro-Gómez, S., Mendieta, E.,1998, Teorías sin disciplina, (latinoamericanismo, poscolonialidad y globalización en debate), México: Miguel Ángel Porrúa.

Castro-Gómez, S., Decolonizar la universidad. La hybris del punto cero y el diálogo de saberes in Castro-Gómez, S., Grosfoguel, R., 2007, El giro decolonial. Reflexiones para una diversidad epistémica más allá del capitalismo global, Siglo del Hombre Editores; Universidad Central, Instituto de Estudios Sociales Contemporáneos y Pontificia Universidad Javeriana, Instituto Pensar, Bogotá.

De Certeau, M., 1975, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris.

Fanon, F., 2015, Peau noire, masques blancs, Points, Paris.

Mignolo, W., 2013, L’idea di America Latina. Geostoria di una teoria decoloniale, Mimesis, Milano.

Moraña, M, El boom del subalterno in Castro-Gómez, S., Mendieta, E.,1998, Teorías sin disciplina, (latinoamericanismo, poscolonialidad y globalización en debate), México: Miguel Ángel Porrúa.

Mosquera, G., 1995, Poder y curaduría intercultural in Trans. Arts, Cultures, Media, n° 1.

Piotrowski, P., Du tournant spatial ou une histoire horizontale de l’art in Quirós, K., Imhoff, A., Géo-esthétique,B42, Parc Saint –Léger, L’ESACM, LE peuple qui manque, ENSA Dijon.

Richard, N., 1994, La puesta en escena internacional del arte latinoamericano: montaje representación. In Visiones comparativas: XVII Coloquio Internacional de Historia del Arte, 1011-1016. Mexico City: Universidad Nacional Autónoma de México, Instituto de Investigaciones Estéticas.

Rich, A., 1984, Notes toward a politics of location, Women, Feminist Identity and Society in the 1980 – First Summer School of Critical Semiotics, Utrecht.

 

[i] Così si conclude l’opera di Frantz Fanon Pelle nera, maschere bianche

[ii] Richard, N.,1994, La puesta en escena internacional del arte latinoamericano: montaje representación. In Visiones comparativas: XVII Coloquio Internacional de Historia del Arte, 1011-1016. Mexico City: Universidad Nacional Autónoma de México, Instituto de Investigaciones Estéticas.

[iii] Si fa riferimento al testo di Mari Carmen Ramírez , Beyond “The Fantastic”: Framing Identity in U. S. Exhibitions of Latin American Art, in si avanza una critica su tre mostre realizzate negli Stati Uniti negli anni ’80 e che riflette sulla rappresentazione dell’arte latinoamericana e latina come l’ “altro fantastico”. Le mostre in questione sono: Art of the Fantastic: Latin America, 1920-1987 (1987), Images of Mexico: The Contribution of Mexico to Twentieth-Century Art (1988) e Hispanic art in the United States: Thirty Contemporary Painters and Sculptors (1988).

[iv]Notes toward a politics of location è il discorso di Adrienne Rich presentato durante la conferenza Women, Feminist Identity and Society in the 1980 tenutasi nel 1984 presso il First Summer School of Critical Semiotics a Utrecht.

[v] Si tratta di un gruppo di ricerca eterogeneo e pluridisciplinario, composto da: il filosofo argentino Enrique Dussel, il sociologo peruviano Aníbal Quijano, il semiotico e teorico argentino-americano Walter D. Mignolo, il filosofo colombiano Santiago Castro-Gómez, la semiotica argentina Zulma Palermo, l’antropologo colombiano Arturo Escobar, il sociologo venezuelano Edgardo Lander, l’antropologo venezuelano Fernando Coronil, il filosofo Nelson Maldonado-Torres, il sociologo portoricano Ramón Grosfoguel, la linguista americana Catherine Walsh et la linguista tedesca Freya Schiwy.