The Exhibition and the Display, di Martin Beck

Che cosa significa esposizione? E cosa indica il display che, nel campo dell’arte, è costantemente confuso con l’esposizione e il processo dell’exhibition-making? A quale scopo e logiche rispondono le fenomenologie del mostrare? Ma soprattutto quale potere esercita il display su ruoli e funzioni dell’atto espositivo, e come condiziona il significato e la ricezione dell’opera stessa?

 

Quando discutiamo di “esposizione”, presumo che molti di voi abbiano una certa idea di cosa costituisca una mostra. Lo stesso potrebbe essere vero quando si usa il termine “display”. Ma sono abbastanza convinto che le idee su cosa sia il display e a cosa si riferisca varino molto più di quelle relative all’esposizione. Cercherò di affrontare questa discrepanza osservando da vicino i termini stessi, in particolare la loro evoluzione nel periodo postbellico in cui l’esposizione era un medium cruciale per la comunicazione di massa. Oggi esposizione e – ancora di più – display sono diventati, non solo nel mondo dell’arte, concetti familiari.

Nei dizionari correnti, le definizioni per il termine esposizione sono abbastanza simili, ma le voci per display divergono drammaticamente. Dipendendo dal contesto, il significato di display varia da una performance a un dispositivo per la presentazione visiva dei dati, da alcune consuetudini nell‘accoppiamento degli animali al monitor di un computer.

The Social Question A photographic Record 1895–1910, 1973. Carpenter Center for the Visual Art, Harvard University Archives, esposto in Episode 8: A Social Question, di Martin Beck al Carpenter Center for the Visual Arts nel 2016.

Nel campo dell’arte, il display è costantemente confuso con l’esposizione e il processo dell’esibire. I termini sono spesso sfuocati e questo produce un pò di confusione, in particolare quando ci si interroga in cosa differisca il display dall’esposizione. Ma invece di un chiarimento produrrò ancora un pò di confusione; confondere con lo scopo paradossale di avvicinarci a distinguere i due termini, per quanto provvisori possano essere.

Vorrei iniziare con due assunzioni contraddittorie:

La mostra è un formato obsoleto di comunicazione. La mostra è ovunque.

Iniziamo con quest’ultima. Negli ultimi dieci anni le strutture accademiche di tutto il nord America e l’Europa hanno istituito numerosi programmi di laurea e post-laurea incentrati sull’exhibition e il display come nuovo argomento di ricerca e ambito di professionalizzazione.

Alcuni di questi programmi (per lo più curatoriali) si sono sviluppati lentamente spostando i loro parametri curriculari da una (a volte) visione gestionale (e organizzativa) della curatela alla produzione e la ricerca sulle esposizioni. Altri programmi simili erano radicati nel contesto manageriale o architettonico. In entrambi i casi, il discorso sulla curatela e la rivendicazione della progettazione è stato sostituito da una retorica sulle esposizioni e sul display.

Attraverso conferenze, pubblicazioni ed esposizioni recenti questa nuova retorica si è manifestata nel settore dell’arte contemporanea; una retorica il cui campo di referenza è stato per lungo tempo solo un sottocapitolo della storia dell’arte, un problema per esperti di marketing o l’argomento per una minoranza di artisti “nerd”.

La rapida proliferazione di questo “nuovo” discorso espositivo ha intrecciato la spinta emancipatoria della modernità, i formati di quanto viene definito pubblicamente e lo spendore dell’immagine delle corporate di istituzioni artistiche in un groviglio discorsivo che è quasi impossibile da sciogliere.

Come nel caso dei grovigli, numerose linee di pensiero sono state cortocircuitate nel processo, con il risultato che una discussione specifica sulle condizioni e le ramificazioni dei concetti e le pratiche del mostrare (exhibiting) e del display diventa sempre più difficile. La mostra e il display sono esplosi nel pubblico dibattito e l’onnipresenza dei due termini ha diminuito le possibilità di usarli in un modo diverso che non sia retoricamente.

Questo è il motivo per cui chiarire e differenziare i termini potrebbe diventare cruciale. È attraverso il processo di districamento che il potenziale e la produttività nascosta nella loro terminologia potrebbe essere attivata; da qui che i fili intrecciati potrebbero essere trasformati in efficaci percorsi di azione.

Ora, torniamo al primo assunto: la mostra è un formato obsoleto. L’esposizione è una forma di comunicazione genuinamente moderna sviluppata durante la seconda metà del XIX secolo come un sistema esperienziale e visivo in grado di rivolgersi a un vasto pubblico. Ambiziose presentazioni nazionali in ambienti spettacolari appositamente costruiti, la rappresentanza del lavoro degli artisti nella formula dei salons dei contro-salons, così come il display di prodotti e vetrine sono solo alcuni dei formati negoziati dalle prime esposizioni. Questi hanno permesso alle informazioni di essere distribuite, alle discussioni visuali di essere messe in scena, e al pubblico di essere sedotto.

Joseph Nash, Luois Haghe e David Roberts. Il display Cinese alla Great Exhibition, Londra, Cristal Palace, litografia, The Great Exhibition, 1851.

L’esposizione è stata uno dei siti fondamentali per sperimentare la comunicazione di massa e, all’inizio del XX secolo, per elaborare delle strategie di display che sono diventate uno dei territori di controllo per l’arte moderna.

Sebbene il settore dell’arte e del museo fosse il campo prevalente in cui nuove forme di visualizzazione, connesse alla cultura visiva, si sono sviluppate nella prima parte del secolo, dalla metà degli anni ’50 in poi, fiere-mercato, pubblicità commerciali, esposizioni industriali e governative sono diventate sempre di più dei luoghi dove nuovi formati e tecniche espositive venivano testati. La separazione principale che emergeva tra le forme artistiche e non-artistiche di esibizione era manifestata dal modo in cui ognuno considerava e indirizzava la nozione di display.
Le forme del display sono regolate (NdR disciplinate) attraverso la sua visibilità o invisibilità – dallo status politico ed economico di ciò che è stato esposto, così da come è stato posizionato lo spettatore.

Il Palazzo di Cristallo, acquaforte, Londra, 1851.

Ma a quali esposizioni pensiamo e cosa intendiamo per obsolescenza?
Ecco tre descrizioni di questo periodo, in cui l’operazione del mostrare e l’idea di un’utopia emancipatoria sono state molto vicine, in un tempo in cui l’esposizione era lo strumento primario del discorso pubblico. In uno dei primi significativi libri sul tema dell’esposizione, intitolato New Design in Exhibitions, l’artista e grafico svizzero Richard Paul Lohse ha scritto nel 1953:

Richard Paul Lohse, Neue Ausstellungsgestalttung/Nouvelles conception de l’exposition/New design in Exhibition, Erlenbach, 1953.

Nella loro essenza, le esposizioni sono un’espressione e un gioco di forze che includono una varietà di tendenze culturali, economiche e politiche; sono dei barometri indicativi di una situazione o della mission di una professione; sono pioniere per un’evoluzione a venire.
Esibire significa mostrare…
Un’esposizione è un medium ideale per influenzare il pubblico…. il problema del mostrare assume un aspetto culturale e sociale nel senso più ampio del termine. La realizzazione di un’idea culturale e sociale costituisce il più importante obiettivo dell’arte di esporre [i].

 

Klaus Franck, Ausstellungen/Exhibitions, Praeger, New York, 1961.

Nell’introduzione al suo libro Exhibitions, che è stato simultaneamente pubblicato a Stoccarda e a New York, il designer tedesco Klaus Franck scrisse nel 1961:

Esibire significa scegliere, mostrare, presentare un campione o un esempio. Rivelare informazioni è l’obiettivo di ogni esposizione e tali informazioni possono essere di tipo didattico, commerciale o di natura rappresentativa. Rivolta all’uomo come consumatore di prodotti e di idee, una mostra ha lo scopo di insegnare, pubblicizzare e rappresentare – per influenzare una persona. Un’esposizione differisce da tutti gli altri mezzi di comunicazione perché è la sola che può simultaneamente trasmettere le informazioni visivamente, acusticamente, e con il tatto.

L’efficacia è il criterio principale di ogni esposizione….un progetto deve essere la base delle soluzioni ai problemi che emergono dalle necessità economiche, fisiologiche e psicologiche dell’esposizione individuale [ii].

Alcuni anni dopo Hans Neuburg, grafico artista e designer di mostre svizzero, cerca di dare seguito alle pubblicazioni di Lohse e Franck. Scrive di questa storia ma la interroga al stesso tempo. Nel suo libro del 1969 Conceptions of International Exhibitions dice:

Non abbiamo bisogno di sprecare molte parole per spiegare che cosa sia una mostra e le funzioni che essa esercita. Esibire significa esporre, mostrare, dimostrare, informare, offrire. In ogni caso uno spazio circoscritto o aperto in cui viene mostrato qualche argomento o gli oggetti sono presentati in un modo per cui le loro specifiche qualità possano essere comprese. È, ovviamente, chiaro che questo dovrebbe essere fatto nel modo più istruttivo possibile.

Una cosa è certa: esibire è, e rimane, esibire. Ed è lo stesso se (l’esposizione) è permanente o temporanea, smontabile o itinerante [iii].

Hans Neuburg, Internationale Ausstellungsgestalttung/Conceptions of International Exhibitions,, Zurigo, 1969.

È interessante notare che la traduzione inglese di Neuburg rinuncia all’ultima frase della sua spiegazione: le versioni tedesca e francese si concludono con un quasi
melanconico inciso che si traduce come “L’esposizione sopravviverà o ha già i giorni contati?”

I libri di Lohse, Franck e Neuburg sono tra le più importanti pubblicazioni sul tema dell’esposizione negli anni del dopoguerra. Si riferiscono l’uno all’altro, sono connessi visivamente e metodologicamente, ma sono anche costituiti da caratteristiche (e distinte) priorità.

Lohse inizia il suo libro con una storia dell’esposizione indicizzando le mostre più significative dalla metà del diciannovesimo secolo; Franck crea un libro di regole esponendo le possibilità creative dell’exhibition-making in modo sistemico; Neuburg si riferisce strettamente ai due protagonisti, ma le sue posizioni, come pragmatico, offrono linee guida strutturali mentre esplora i contorni sfocati di differenti generi espositivi.

Lohse e Franck sono espliciti sulla natura selettiva dell’esposizione e sul ruolo dello spettatore all’interno di un ambiente curato. Entrambi non hanno paura di affrontare la complessa relazione tra esposizione e pubblico, una relazione che viene negoziata attraverso il giudizio e la manipolazione. Essi considerano come questa relazione sia un potere e insieme alla responsabilità sia al centro del processo espositivo. In entrambi i libri questa dimensione strutturale emerge come condizione emblematica per l’esposizione moderna.
Queste mostre moderniste hanno cercato di informare e persuadere, spiegare e indirizzare, erano liberatorie ma stavano vendendo qualcosa al stesso tempo.

Non sorprende che, nel momento in cui diventa un agente di emancipazione, l’esposizione soccombe alla logica del controllo – al livello della sua forma e nel modo in cui costituisce lo spettatore. La mostra moderna è la mostra a griglia. Lo spettatore emancipato è il consumatore controllato.

Hans Haacke, Photographic Notes, documenta 2, Pollock Room, 1959.

Ciò che sorprende delle definizioni di cui sopra è che Lohse e Neuburg pongono la questione della longevità in relazione all’esposizione: interrogano la longevità non di specifiche mostre ma sulla rilevanza a lungo termine del formato.

Sembra che l’euforia espositiva riflessa nei loro libri sia legata a uno scetticismo che risulta dalla fragilità della sua condizione di base: l’esposizione è un formato temporaneo e in quanto tale differisce drammaticamente dalle condizioni materiali di un’opera d’arte nel tempo. Il potenziale emancipatorio assegnato all’esposizione è per definizione itinerante, effimero, e soggetto a continue contestazioni.

Come afferma Lohse: “La storia delle mostre è la storia della politica e non meno dei cambiamenti che hanno avuto luogo nelle fondamenta delle nostre strutture sociali” [iv].

Inoltre, è degno di nota il fatto che solo Neuburg si rivolge al termine display, ma quasi in un ripensamento. Questo probabilmente ha a che fare con il linguaggio – Lohse, Franck e Neuburg sono autori di lingua tedesca e display è una parola inglese – ma indica anche una genealogia dei termini contestualmente e geograficamente specifica.

Il libro di Neuburg, pubblicato nel 1969, fu in grado di considerare le fondamentali trasformazioni dell’industria pubblicitaria di quel periodo e come quei cambiamenti avessero influenzato l’esposizione. Neuburg presenta il display come una nuova categoria espositiva e la posiziona dopo le altre principali categorie: la mostra rappresentativa, informativa e commerciale.

Parla del display come di “una moderna tipologia di offerta tridimensionale tangibile, ad es. le vetrine decorate secondo uno schema usando i manichini, e che poi si ritrova anche dentro i negozi posizionata sui banconi”[v].

Neuburg menziona l’uso inglese del termine ma, invece di una definizione, cita la sua inclusione nel Langenscheidt, il dizionario tedesco del tempo. Qui, display è tradotto come “Entfaltung, Aufwand, Schaustellung, Schaufenster-Anlage, che poi trasferisce come “exposition, show, exhibition, window-dressing” [esibizione, mostra, esposizione, allestimento-vetrina].

La categorizzazione di Neuburg assegna al display solo poche pagine di testo e di immagini, mentre le pagine quantificate per le altre categorie sono almeno una dozzina. Giustifica la sua brevità per mancanza di esempi qualificati: “Le buone soluzioni di display sono piuttosto poche e lontane perché fino ad ora ci sono stati relativamente pochi designer che si sono occupati di questo campo” [vi]. Ipotizza che questo possa avere a che fare con l’affinità del display con l’industria pubblicitaria in cui, nella sua valutazione, le voci capaci si mantengono alla dovuta distanza.

George Nelson, Display, Whitney Interiors Library, New York, 1953.

Non sorprende che la prospettiva americana si presenti piuttosto diversamente. Negli Stati Uniti, il display non è una questione di buon design; né di tecniche pubblicitarie considerate indegne per un artista. Da quanto sostenuto precedentemente, il display è una parte integrante del discorso dell’esposizione moderna. Nel 1953, in concomitanza con il libro di Lohse, George Nelson pubblica il suo testo Display per la Whitney Interiors Library per la quale Nelson era editor di una collana. [vii]

Altri suoi libri, Living Spaces, Chairs e Storage, erano parte della stessa serie e formattati secondo gli stessi parametri. Display è un “coffee-table book” che introduce a una vasta selezione di esempi espositivi, inclusi i progetti di exhibition design realizzati da Nelson per il Museum of Modern Art e altri luoghi.

L’ampia struttura del libro di Nelson tenta un approccio genre-and category-bending alla questione espositiva che si riflette anche nel tipico layout giocosamente ottimista della grafica americana nel periodo postbellico. Visivamente e concettualmente il libro è in netto contrasto con l’accuratezza e la rigidità che contraddistingue le pubblicazioni europee. Una breve introduzione è immediatamente seguita dai numerosi esempi di mostre con annotati lo spazio, il protagonista e i materiali. Parte dell’introduzione è una definizione del termine display:

La parola display proviene da una radice latina che significa dispiegare o distribuire. Come lo usiamo noi, in una varietà di situazioni, trasmette sempre l’idea di richiamare l’attenzione di qualcuno su qualcosa mostrandola in maniera evidente…Il piumaggio dell’uccello maschio e le bizzarrie del pesce combattente sono ‘display’. Così come le lettere miniate in un manoscritto medievale.

Gli scopi del display sono molti, tuttavia le procedure essenziali implicano sempre il coinvolgimento attirando l’attenzione. L’oggetto del display potrebbe essere quello di attrarre un membro del sesso opposto; stabilire identità…; indicare la posizione sociale…; trasmettere informazioni…. E attirare i consumatori. La grandi dimensioni del display, in questa nostra epoca così poco romantica, sono progettate per persuadere qualcuno a comprare qualcosa di cui forse ha bisogno o che desidera. [viii]

Diverse questioni sono adesso in primo piano e sembrano essenziali per la comprensione del display nel suo rapporto con l’esposizione: il display non è un oggetto o un dispositivo, così come è stato posizionato nel discorso di lingua tedesca. È piuttosto un’attività; e lo scopo esplicito del display è la seduzione: un’operazione attiva radicata nel comportamentismo biologico.

Martin Beck, About the Relative Size of Things in the Universe, 2007.

Nonostante la possibilità di assumere il termine come sostantivo, il display viene qui presentato come verbo. Questa leggera differenziazione grammaticale manifesta un’operazione discorsiva che – concentrandosi su uno anziché sull’altro – può produrre il display come categoria dinamica o statica: “to display” o “the display”.

Questo potrebbe spiegare perché, nonostante la loro differenza, i termini esposizione e display causano continuamente confusione: entrambi fanno parte di un discorso che
si costituisce attraverso questa tensione, che emerge dalla combinazione grammaticale del doppio significato di display: “to display” e “the display”.

L’esposizione è, nonostante il suo status effimero e potenzialmente itinerante, un formato statico. Al contrario, il display emerge invece, da una definizione comportamentale, come un’operazione che può conseguentemente essere intesa come metodo; un metodo usato per generare forme all’interno dell’esposizione.

Questa distinzione è certamente fragile e potrebbe non reggere da ogni prospettiva. Ma potrebbe aiutarci per distinguere tra exhibition e display, tra formato e produzione di forme. Può aiutare a sciogliere leggermente il nodo in cui exhibition e display si sono fusi e aggrovigliati.

[traduzione Elvira Vannini]

[i] Richard Paul Lohse, Neue Ausstellungsgestalttung/Nouvelles conception de l’exposition/New design in Exhibition (Eelenbach: Verlag für Architektur, 1953) 8.

[ii] Klaus Franck, Ausstellungen/Exhibitions (Stuttgart: Gerd Hatje/New York: Praeger, 1961) 13.

[iii] Hans Neuburg, “Basic Rules for Planning an Exhibition”, in Nerburg, Internationale Ausstellungsgestalttung/Conceptions of International Exhibitions (Zurich: ABC Edition, 1969) 14.

[iv] Lohse, op.cit., 12.

[v] Neuburg, op.cit., 67.

[vi] ibid., 168.

[vii] George Nelson, Display (New York: Whitney Interiors Library, 1953).

[viii] ibid., 7.

Il testo è stato pubblicato nell’antologia a cura di Lucy Steeds, Exhibitions, Documents of Contemporary Art, Whitechapel Gallery, London, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2014. ‘The Exhibition and The Display’ è stato presentato per la prima volta in una lecture dal titolo ‘Display: Eine Begriffsklärung’ durante il simposio ‘Forms of Exhibitions’, alla Kunstverein di Amburgo nel 2009.

Martin Beck nato nel 1963 a Bludenz, in Austria, vive e lavora a New York e Vienna; la sua ricerca artistica e le sue opere spesso traggono ispirazione dai campi dell’architettura, del design e dell’exhibition design, dall’inchiesta storica, dalle accellerazioni e i cambiamenti di prospettiva che si sono verificati nel tardo modernismo, i regimi di visibilità che li hanno informati e come la loro struttura produttiva, formale e sociale influisca sulla cultura contemporanea. Nel 2017 il suo lavoro è stato presentato in una personale presso il Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig di Vienna, The Kitchen a New York, e alla Galerie für Zeitgenössische Kunst a Leipzig. Alcune, tra le precedenti esposizioni includono: Program al Carpenter Center for the Visual Arts, Harvard University, Cambridge (2014–16), The thirty-six sets do not constitute a sequence, 47 Canal, New York (2015); ha partecipato alla 10th Shanghai Biennale (2014–15) e alla 29th São Paulo Bienal (con Julie Ault) (2010); and Panel 2—“Nothing better than a touch of ecology and catastrophe to unite the social classes…” presso Arthur Ross Architecture Gallery alla Columbia University (2009). Ha co-curato insieme a Julie Ault, Tell It To My Heart: Collected al Museum der Gegenwartskunst, Basel; Culturgest, Lisbona; Artists Space, New York (2013). Tra le sue pubblicazioni: Relative Size of Things in the Universe (2007), The Aspen Complex (2012), The particular way in which a thing exists (2013), e Summer Winter, East West (2015).

Martin Beck, Episode 8: A Social Question, veduta della mostra, Carpenter Center for the Visual Arts, 2016.

 

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