Feminist Killjoy Manifesto, di Sara Ahmed

Manifesto: una dichiarazione di principio, la dichiarazione di una missione.

Manifesto: la dichiarazione di un individuo, di un gruppo o di una organizzazione dei propri intenti.

Come si può quindi scrivere un manifesto su una figura, quella della guastafeste e sul suo comportamento?

Manifesto: rendere qualcosa palese, cioè manifestarla. Moynan King nel suo discorso sullo SCUM Manifesto di Valerie Solanas, collega proprio il significato del manifesto a questo senso di rendere le cose tangibili. La King scrive: “Proprio perché è un manifesto, lo scopo di SCUM è quello di manifestare, di rendere percepibile, un nuovo ordine di idee.”

Rendere percepibile un nuovo ordine di idee significa anche, allo stesso tempo, disordinarne delle altre; solitamente, i manifesti promuovono le loro richieste in modo violento e scioccante, così come fanno emergere la violenza di alcune regole. Un manifesto femminista mette in luce la violenza del sistema patriarcale.

Un manifesto non solo causa disordine, ma il suo scopo principale è quello di raggiungere quel disordine. Rendere qualcosa percepibile a tutti, può bastare per causare un disturbo. Questa intima relazione tra manifestazione e disturbo crea delle implicazioni sul come dobbiamo scrivere il Killjoy Manifesto. Il Killjoy Manifesto deve radicarsi in relazione a ciò che già esiste. Perché questo aspetto è così importante? Perché riguarda ciò contro il quale ci scontriamo. I peggiori abusi di potere che ho affrontato durante la mia carriera universitaria si verificavano quando qualcuno metteva in gioco i principi di uguaglianza come, ad esempio, quando si opponevano alla gerarchia dei confini e delle regole, così che noi fossimo “liberi di fare quello che volevamo” anche se questo in realtà significava “tu fai quello che io voglio che tu faccia”, intendendo che quel voi è in realtà formato da un io con un certo potere e da un tu ad egli subordinato. Notate come “fare quello che si vuole” non solo può essere inteso come un’espressione di uguaglianza, ma anche come un atto di ribellione contro le norme istituzionali e l’autorità.

 

Sara Ahmed, Living a Feminist Life, Duke University Press, Durham and London, 2017, cover.

Un Killjoy Manifesto comincia riconoscendo le ineguaglianze come esistenti.

Questo riconoscimento è messo in atto dalla figura della guastafeste (killjoy, n.d.r.): essa ‘rovina l’atmosfera’ a causa di quello che identifica e afferma come esistente. Essa perpetua nel proclamare le stesse affermazioni, in continuo contrasto con chi afferma che ciò che lei definisce come esistente invece non lo sia. Per le sue affermazioni, la guastafeste viene sempre vista come una figura che innalza dei muri. Se, dunque, un Killjoy Manifesto mostra come il rifiuto delle ineguaglianze sotto un una supposta equità sia una forma di controllo, i principi articolati all’interno di esso non possono essere astratti da ciò che dichiariamo come reale. Un Killjoy Manifesto incarna la volontà di rendere visibile ciò che è reale.

Lottare per la libertà significa lottare contro l’oppressione. Angela Davis, nel suo Blues Legacies and Black Feminism ha mostrato come il desiderio insoddisfatto di una maggiore libertà, possa comunque rappresentare una diversa forma di questa. È attraverso l’oppressione che la libertà può esprimersi. Si ha bisogno di un manifesto quando, per esprimere un qualcosa, è necessaria una lotta. È per questo motivo che potremmo definire il manifesto come un genere letterario ‘guastafeste’. Un manifesto fa un appello, senza però essere attraente per tutti: un manifesto non è un testo letterario accattivante, scritto secondo norme e standard prestabiliti. E non potrebbe esserlo: deve sforzarsi per dire quello che ha da dire. Un manifesto è accattivante per coloro che lo leggono; un manifesto appella ad un concetto, appellandosi a qualcuno. Il Killjoy Manifesto richiama le guastafeste.

I manifesti risultano solitamente sgradevoli in quanto hanno bisogno di essere violenti e diretti, per sostenere le loro convinzioni. La femminista guastafeste non soltanto ha un proprio manifesto, lei stessa è un manifesto. Lei viene costruita attorno alla violenza; questa viene esposta attraverso le sue questioni. Basti pensare al kill in killjoy. Questa figura ci ricorda come, spesso, il femminismo sia visto come una forma di omicidio; chiedere la fine del sistema patriarcale, viene visto come l’assassinio degli uomini. Potremmo dunque comparare la figura della femminista assassina con quella della femminista guastafeste. Quello che, molto controversamente, ha fatto Valerie Solanas nel suo manifesto, è stato quello di prendere alla lettera l’idea della femminista assassina, dando vita al collettivo femminista SCUM (Society for Cutting Up Men). Non bisogna stupirsi di questa idea, in quanto uno dei punti fondamentali del Manifesto era quello di essere letto in modo letterale; l’eliminazione degli uomini doveva essere archiviata attraverso la lettura letterale.

L’immagine della femminista assassina è funzionale alla sopravvivenza degli uomini che predicano l’eliminazione del femminismo.

In un certo senso, si chiede la scomparsa degli “uomini bianchi” poiché si vuole che spariscano le istituzioni che aiutano a crearli. L’ “uomo bianco” è un’istituzione. Noi vogliamo porre fine ad essa.

Ovviamente, su un altro piano, non è semplice riorganizzare la figura della femminista assassina su quella della femminista guastafeste. Noi femministe non cerchiamo la violenza. Noi vogliamo eliminare le istituzioni che promuovono e naturalizzano la violenza stessa. La maggior parte della violenza promossa dalle istituzioni, viene nascosta all’interno di un pericolo definito come straniero: la convinzione, dunque, che la violenza abbia origine solamente a causa di un outsider. Noi siamo visti come violenti perché mostriamo violenza, come a voler dire che la violenza di cui stiamo parlando ha origine da noi stessi.

Essere una guastafeste comporta anche l’essere vista come qualcuno che ‘uccide la vita’, a causa del collegamento tra i principi vitali e quelli della felicità. Siccome vai contro la felicità, vai anche contro la vita. Anche se siamo definite come guastafeste, non siamo sempre disposte ad accettare questa definizione. Come abbiamo visto, infatti, la figura della femminista guastafeste emerge in situazioni di estrema difficoltà e sofferenza: ad esempio, quando sei seduta a tavola con la tua famiglia, una istituzione perfetta minacciata dalla tua presenza. E la tua minaccia arriva dal mettere in mostra quello che è già presente, in quel momento e in quella stanza.

Non dimenticherò mai la sensazione di voler sparire da una situazione, dopo essere stata accusata di averla creata.

Un Killjoy Manifesto ha molti compagni: libri che abbattono pregiudizi, libri che creano un fronte collettivo. The Dialectic of Sex può essere letto come un Killjoy Manifesto, un libro liquidato troppo presto come sostenitore di una tecnologia che avrebbe liberato la donna dalla biologia; un libro che mostra come nulla potrà liberarci, se tutti i lavori continuano ad essere strutturati secondo una divisone sessuale. Sarah Franklin descrive come “la maggior parte del manifesto della Firestone fosse basato sull’analisi di ciò che per millenni aveva sostenuto le basi di una tipologia di stratificazione di genere”. The Dialectic of Sex può essere definito ottimistico perché si rende conto di quanto sia difficile raggiungere un certo tipo di liberazione. Non c’è da meravigliarsi che abbia avuto i suoi momenti di guastafeste. La Firestone vuole spiegare come questo sistema continui ad essere perseguito, nonostante non stia funzionando, e come questo ci porterà ad ucciderci a vicenda. Come esempi, fa riferimento all’amore, al romanticismo e alla famiglia. Tutte queste istituzioni rappresentano una promessa di felicità. Un’istituzione può essere organizzata attorno ad una promessa. Queste possono trasformarsi in modi di organizzarsi la vita credendo che la vicinanza ad un certo tipo di standard possa portarti alla felicità. Quindi, ovviamente, Shulamith Firestone procedendo in questa direzione, passa al discorso di felicità. Come ho già indicato prima, la Firestone descrive il boicottaggio del sorriso come la sua ‘azione dei sogni’ per il movimento di liberazione della donna.

Per enfatizzare la natura collettiva di questa azione potremmo, ad esempio, definirla, seguendo anche Lisa Millbank, uno sciopero del sorriso. Collettivamente potremmo scioperare non sorridendo più; una collettività costruita sull’azione individuale (il non sorridere diventa un’azione quando il sorriso viene considerato un requisito per le donne o per coloro che servono il prossimo attraverso un lavoro salariato e non), ma che richiede molto più che un unico individuo. Uno sciopero del sorriso è necessario per mostrare il nostro disaccordo e la nostra infelicità verso il sistema.

Dobbiamo essere infelici verso questo mondo.

La figura della femminista guastafeste ha un senso se la posizioniamo nel contesto della critica femminista della felicità. La felicità viene usata per giustificare alcune norme sociali come beni sociali. Così come Simone de Beauvoir descrive acutamente, “È sempre facile descrivere una situazione come felice quando uno desidera farne parte”. Non voler far parte di questo desiderio potrebbe dunque significare il rifiuto della felicità desiderata. Essere coinvolti in un attivismo politico significa perciò essere coinvolti in una lotta contro la felicità. La lotta per la felicità fornisce l’orizzonte entro il quale le dichiarazioni politiche vengono fatte. Noi ereditiamo questo orizzonte.

 

See Red Women’s Workshop, Question Every Aspect of Our Lives, 1977.

Una guastafeste diventa un manifesto quando noi siamo disposti a riprendere questa figura, non vivendo come lei, ma attorno ad essa, in sua compagnia. Siamo disposti ad essere delle guastafeste perché il mondo che assegna ad una persona o ad un gruppo questo tipo di etichetta, non è il mondo di cui vogliamo far parte. Essere disposte a diventare una guastafeste, trasforma un giudizio in un progetto. Manifesto: come un giudizio diventa un progetto.

Pensare alle guastafeste come un manifesto vuol dire che una eventuale politica di trasformazioni, con lo scopo di porre fine al sistema, non può essere un programma di azioni separato dalla situazione che viviamo nel nostro mondo. Il femminismo è prassi. Noi rappresentiamo il mondo a cui aspiriamo; niente di meno viene fatto. Il femminismo lesbo, rappresenta come noi organizziamo le nostre vite in modo che le nostre relazioni tra noi donne non siano mediate attraverso quelle che abbiamo con gli uomini. La vita diventa un archivio di ribellioni. Questo è il motivo per il quale il Killjoy Manifesto è un qualcosa di personale. Ognuna di noi guastafeste ne ha uno proprio. Il mio manifesto non differisce dalla mia storia personale, ma rappresenta come questa storia si è tramutata in azioni. È attraverso le esperienze difficili, come l’essere colpiti da strutture sociali che non sono nemmeno chiare a tutti, che accumuliamo l’energia necessaria a ribellarci. È da ciò contro cui ci ribelliamo che traiamo nuove prospettive di quello per cui combattiamo. I nostri corpi diventano strumenti; la nostra rabbia diventa malessere. Noi vomitiamo; vomitiamo tutto quello che ci è stato chiesto di assumere. Il nostro coraggio diventa il nostro amico femminista, man mano che diventiamo sempre più disgustate. Cominciamo a sentire sempre di più il peso della storia; più esponiamo questo peso, più questo diventa pesante.

Noi ci spezziamo. Ci spezziamo sotto il peso; tutto si rompe. Un manifesto è scritto da uno scatto femminista. Un manifesto è uno scatto femminista.

Noi, come femministe, siamo anche testimoni di ciò che il femminismo causa. Provo ad azzardare un’ipotesi: il problema femminista è un’estensione del problema di genere. Per essere più specifici: il problema femminista rappresenta il problema con le donne. Quando rifiutiamo di essere donne, secondo la definizione eteropatriarcale degli uomini, noi diventiamo un problema, noi creiamo un problema. Una guastafeste è disposta a mettersi nei guai. E questo è ciò che io ritengo sia tipico del Killjoy Manifesto: noi portiamo all’interno delle nostre dichiarazioni di intenti, nel nostro scopo, l’esperienza di ciò contro cui ci opponiamo. È questa esperienza che ci permette di creare un ‘per’, un ‘per’ che porta con sé un’esperienza. Un ‘per’ può essere come noi trasformiamo qualcosa. Un manifesto riguarda ciò che esso stesso mira a realizzare.

Nella mia mente non ci sono dubbi sul fatto che la femminista guastafeste combatte per qualcosa; nonostante tutto, non tutte le guastafeste combattono per la stessa cosa. Ognuna disposta a vivere solamente con le conseguenze dell’essere contro ciò per cui è. Una vita può essere un manifesto. Quando ho letto alcuni dei libri presenti nel mio kit di sopravvivenza, li ho percepiti come dei manifesti, per come chiamavano all’azione. Sono libri che fremono di vita perché mostrano come una vita può essere riscritta; come possiamo riscrivere la nostra vita, parola per parola. Un manifesto ha una sua vita; un manifesto è una mano distesa. Se un manifesto rappresenta un’azione politica, dipende da come viene percepito dagli altri. Una mano, per esempio, può fare molto di più quando non è semplicemente accolta da un’altra mano, ovvero quando un gesto va oltre la fermezza di una stretta di mano. Magari più di una mano deve essere stretta. Se il Killjoy Manifesto rappresenta una presa, questa scivola dalle mani. Un manifesto ripete qualcosa che è già accaduto; come sappiamo, la guastafeste è già volata via. Potrebbe essere che il Killjoy Manifesto è maldestro; un volo femminista.

Quando ci rifiutiamo di essere gli oggetti del padrone, noi mettiamo in luce la violenza del bastone, quelle violenze che costruiscono le dimore del padrone, mattone su mattone. Quando esponiamo alla luce di tutti la violenza, una violenza che viene perpetuata non rendendola manifesta, ci viene affibbiata l’etichetta di guastafeste. Una guastafeste diventa tale, in primo luogo, per quello che rivela. In un certo senso, dietro di lei c’è un Manifesto. Questo non significa che scrivere un Killjoy Manifesto non sia un impegno; o nemmeno un’idea di come muoversi d’ora in poi. Una guastafeste ha i propri principi. Il Killjoy Manifesto mostra come ognuna di noi crea dei principi a partire da un’esperienza di quello contro cui siamo, da come noi viviamo una vita femminista. Quando parlo di principi, non intendo un insieme di regole a cui tutte dobbiamo aderire per perseguire una strada comune. Potrei affermare che una vita femminista è regolata da principi, ma allo stesso tempo il femminismo diventa tale quando ci si rifiuta di essere legati da questi principi. Quando penso a dei principi femministi, faccio riferimento al primo livello di lettura di principio: principio come primo passo, l’inizio di qualcosa. Un principio può anche essere ciò che è elementare per un’abilità. Le femministe guastafeste, sono astute; lo siamo diventate. Nel nostro mestiere ci sono dei principi. Come cominciamo non stabilisce come finiremo, ma sono i principi che ci danno una forma e una direzione. I principi femministi vengono articolati in un mondo che non è femminista. Vivere una vita femminista, quindi, non vuol dire vivere facilmente; ci catapultiamo all’interno di un mondo che non vive secondo i nostri stessi principi.

Per qualche strana ragione, i principi che ho articolato si sono trasformati in dichiarazioni di volontà: di ciò che una guastafeste è disposta a fare ed essere, e viceversa. Penso si possano capire alcuni dei motivi. Un Killjoy Manifesto è un soggetto volenteroso. Non mi meraviglia che un soggetto del genere abbia dei principi; lei stessa può essere un principio. Può condividerli, se puoi sopportarli.

See Red Women’s Workshop Feminist Posters 1974-1990.

 

PRINCIPIO 1: NON SONO DISPOSTA A FARE DELLA FELICITÀ LA MIA CAUSA

Spesso viene trasformato in un requisito specifico: ti viene chiesto di fare qualcosa in modo da rendere qualcun altro felice. Più frequentemente ti viene chiesto di fare qualcosa che renda felice il prossimo quando sanno che questo non ti rende felice. Per esempio, ti può venire chiesto di partecipare ad un matrimonio, dalle stesse persone che sanno come tu sia contro l’istituzione del matrimonio che viene, appunto, celebrata all’interno di queste occasioni. Ti attirano facendo forza sulla loro felicità. Se rifiuti, vieni definita come egoista, come colei che mette la propria felicità davanti a quella degli altri.

Come hai potuto farlo?

Killjoy Manifesto: l’eccezione alla regola.

Se sei disposta a non cedere a queste suppliche, allora la felicità non è il principio che hai deciso di sostenere. Non hai trovato le suppliche allettanti. Tra l’altro, non sostieni questo principio in generale perché hai deciso di opportici fin dall’inizio: ti è sempre stato chiesto di non dire o fare cose, per non rendere gli altri infelici. Questo non significa che ad una guastafeste non interessi la felicità altrui o che non faccia mai qualcosa che possa rendere gli altri felici; semplicemente non è disposta a fare della sua causa la creazione di felicità.

Da questa scelta, puoi imparare che anche la felicità può portare dell’infelicità. Alla base di molte nozioni e attivismi femministi vi è la base il principio secondo il quale le istituzioni si fondano su promesse di felicità; promesse che nella maggior parte dei casi nascondono la vera violenza dell’istituzione stessa. Noi siamo disposte a mostrare questa violenza: la violenza dell’elevazione della famiglia, della coppia, della riproduzione come base per una vita giusta; la violenza riprodotta da quelle stesse organizzazioni che credono che parlare in questi termini sia sleale. Noi mostreremo il mito della felicità creato del neoliberalismo e dal capitalismo globale: la fantasia che il sistema creato per pochi, sia per la felicità di tutti.

Esporre il mito della felicità significa essere disposti a prendere un incarico da guastafeste.

 

PRINCIPIO 2: SONO DISPOSTA A CREARE DELL’INFELICITÀ

Non fare della felicità la tua causa, significa anche creare dell’infelicità. Una guastafeste è disposta a crearne.

Una guastafeste devota alla causa ha un’intera vita di esperienze che l’hanno portata a causare infelicità. È a conoscenza anche di un altro aspetto: quando crei dell’infelicità, in virtù di ciò che desideri o delle parole che non vuoi fare tue, si comincia a pensare che il tuo scopo sia quello di crearla. Non è così. Essere disposti a creare dell’infelicità, non la rende la tua causa. Quando i nostri desideri portano infelicità, spesso si pensa che il nostro desiderio sia quello dell’infelicità. Potresti essere giudicata come colei che vuole l’infelicità che ha portato, un altro modo per farti diventare una causa di tristezza.

Una guastafeste è disposta a vivere con le conseguenze di ciò che desidera.

Ecco perché la guastafeste è disposta ad essere la causa dell’infelicità per qualcuno. Questo non significa che non le dispiaccia che gli altri si rattristino per la sua vita (perché pensano che questa sia triste); non significa, inoltre, che non provi compassione per quelli che sono tristi a causa sua. Soltanto, non lascerà che questa infelicità reindirizzi il suo percorso. Lei è disposta a sbagliare direzione.

L’infelicità di chi siamo disposti a causare? Quella di tutti: la risposta non può che essere questa. Qui, però, c’è un se. Siamo disposte a causare dell’infelicità istituzionale SE l’istituzione è infelice perché parliamo di molestia sessuale. Siamo disposte a causare dell’infelicità femminista SE le femministe sono infelici perché parliamo di razzismo. Questo significa che non siamo infelici a causa di questi se. Ancora una volta, questo significa che siamo tristi per ciò che causa infelicità. Creare infelicità può, a sua volta, crearne dell’altra.

Siamo disposte a creare dell’infelicità a causa di ciò che abbiamo imparato su di essa, da ciò di cui siamo state accusate. Qui salta fuori un IO; la guastafeste è conoscenza di cosa succede quando tira fuori qualcosa. Quando ho parlato pubblicamente di violenza sessuale all’interno del mio College, sono stata identificata come una guastafeste senza alcun senso dell’umorismo (poteva già esserci un senso di ironia, dato che avevo già dichiarato di essere una guastafeste). Quello che importa qui, però, è che tra coloro che mi avevano etichettata c’erano anche delle femministe. Una collega disse che parlando in quei termini stavo compromettendo un ambiente “felice e stimolante” per il quale le “femministe di lunga data” avevano sudato molto nel crearlo. Ho supposto di non essere tra questo gruppo, a causa della posizione che avevo preso. Ebbene sì, anche parlare pubblicamente di violenza sessuale può causa l’infelicità delle femministe. Se è così, allora non sono nemmeno disposta a fare della felicità delle femministe, la mia causa.

Abbiamo imparato capire cosa c’è in gioco in queste accuse. Implicitamente il femminismo è una bolla all’interno dell’istituzione. Una bolla di questo genere, però, può operare anche come una modalità di identificazione. Per proteggere la bolla femminista, potresti anche volerla proteggere dall’esposizione alla violenza delle istituzioni, una violenza che si propaga in ogni dove. Proteggere questa bolla finisce per diventare un mezzo per proteggere queste istituzioni. Non vuoi che la violenza delle istituzioni venga esposta agli altri. Preferisci risolvere questa violenza all’interno delle mura di casa, anche quando queste mura hanno fallito nel voler distruggere la casa del padrone. È per questo motivo che anche tra alcune femministe vige questo silenzio a proposito della violenza istituzionale?

Se il femminismo è una bolla, noi dobbiamo farla scoppiare.

Quando ci allontaniamo da ciò che compromette la nostra felicità, stiamo anche ritirando i nostri sforzi dal lavoro necessario per rendere il mondo un luogo più equo e giusto. Questo principio dell’essere disposte a causare infelicità non può essere portato avanti solo se riferito all’infelicità degli altri. È possibile che non immagazziniamo alcune esperienze perché farlo ci renderebbe tristi. Forse è proprio per questo che la guastafeste fa la sua comparsa: abbiamo un disperato bisogno di non registrare quello che lei nota. Forse è per questo che la guastafeste compare a quelli che professano di esserlo: anche la nostra felicità può dipendere da quello che non notiamo. Magari conserviamo la nostra felicità in un oblio voluto. Dobbiamo rifiutare questo oblio. Se qualcosa ci rende infelici, dobbiamo riconoscerlo quando ce ne rendiamo conto. Siamo disposte ad essere la causa della nostra infelicità, ma non per questo facciamo di essa la nostra causa.

Valie Export, The Birth Madonna, 1976.

 

PRINCIPIO 3: SONO DISPOSTA A SOSTENERE COLORO CHE SONO DISPOSTI A CAUSARE INFELICITÀ

Una guastafeste potrebbe riconoscersi in una condizione di solitudine: dall’essere tagliata fuori dal gruppo, per come questo si raduna attorno alla felicità. Lei lo sa, perché c’è stata: non sedersi al tavolo della felicità può voler dire ritrovarsi in una zona d’ombra, ritrovarsi quindi soli con sé stessi. Può capitare che molti si ritrovino a vestire i panni della guastafeste per poi abbandonarli subito, poiché ritenuti troppo pesanti; non essere circondati dal calore degli altri, il mormorio che accompagna ogni decisione. I costi dell’essere una guastafeste sono alti; lei stessa è un prezzo.

Come si può resistere? Come ho suggerito nel mio kit di sopravvivenza, riusciamo ad andare avanti grazie alla compagnia di altre guastafeste; possiamo abbracciare questo nome, quando riconosciamo le dinamiche che esso implica; noi riconosciamo queste dinamiche quando qualcuno le pronuncia per noi. Riconosciamo gli altri perché anche loro riconoscono queste dinamiche.

Questi momenti di riconoscimento sono molto preziosi, ma anche precari. Con un momento, arriva anche un ricordo; spesso riusciamo a persistere, grazie al supporto degli altri. Potremmo però anche sperimentare la crisi del non aver alcun supporto; quest0ultimo acquista maggior significato, meno ci sentiamo supportate. Creare un manifesto a partire dalla figura della guastafeste, significa essere disposti a sostenere gli altri così come lo siamo noi o vorremmo esserlo. Magari in una conversazione, a casa o al lavoro, una persona tra le tante sta sostenendo la propria opinione. Non lasciarla parlare da sola. Sostienila; parla assieme a lei. Stai al suo fianco; sostienila. Questi momenti di pubblica solidarietà, portano molto alla nostra esperienza di vita. Stiamo creando un sistema di supporto attorno alla figura della guastafeste; stiamo cercando dei modi che le permettano di fare quello che vuole, di essere ciò che vuole essere. Non dobbiamo credere che rimanga per sempre, trasformando la sua immagine in una personalità, pensare che tutte le volte che compare abbia bisogno di un sostegno.

Audre Lorce scrisse: “Il tuo silenzio non ti proteggerà.”. Il silenzio può, però, proteggere gli altri. Con gli altri intendo coloro che sono violenti, o tutti quelli che beneficiano del silenzio sulla violenza. La guastafeste è una testimonianza. Diventa una figura, un modo di contenere il danno, perché lei parla di questo danno. Col tempo, possiamo chiamarlo il tempo femminista, ho imparato a comprendere, conoscere e percepire il costo del dire la mia opinione. Ho anche capito, conosciuto e percepito perché molti non hanno il coraggio di dire la loro. C’è molto da perdere, anche la vita. Molta ingiustizia viene perpetuata attraverso il silenzio, non perché molti non la riconoscono, ma proprio perché lo fanno. Conoscono anche le conseguenze che porta l’identificare un’ingiustizia, conseguenze con le quali non sono disposti a vivere. Potrebbe essere la paura di perdere il proprio lavoro, sapendo quanto ne hai bisogno per provvedere a coloro che ami; potrebbe riguardare il perdere alcuni rapporti di valore; temere che quello che dirai potrebbe essere compreso nel modo sbagliato; o temere che ciò che dirai potrebbe portare ad una situazione peggiore. Insinuare che la femminista guastafeste sia un manifesto, non vuol dire che ci sia un obbligo nel dover dire la propria opinione. La guastafeste necessita di un sistema di comunicazione: dobbiamo trovare nuovi modi per far emergere la violenza. Potremmo aver bisogno di tattiche di guerriglia, e qui abbiamo molta storia femminista dalla quale poter attingere: puoi scrivere i nomi dei molestatori su dei libri; graffitare i muri; mettere dell’inchiostro rosso nell’acqua. Ci sono molti modi per creare un disordine femminista.

Anche se dire la propria non è possibile, è necessario. Il silenzio a riguardo della violenza è esso stesso una violenza. I discorsi femministi, tuttavia, possono prendere forme diverse. Più la situazione si fa complicata, più diventiamo ingegnose. Parlando ancora e ancora, proteggendo coloro che lo fanno; questa azione di divulgazione della parola, fa il mondo. Essere una guastafeste è un progetto mondiale. Creiamo un mondo a partire da dei frantumi, anche quando siamo noi stesse a crearli o quando quei pezzi rotti siamo noi.

 

PRINCIPIO 4: NON SONO DISPOSTA A RIDERE A DELLE BATTUTE CREATE PER ESSERE OFFENSIVE

Questo principio può sembrare molto specifico: potrebbe sembrare che derivi dai tre principi precedenti e che dunque non varrebbe la pena dedicargliene uno tutto suo. Sono però troppo convinta che l’humor sia una tecnica cruciale nel riprodurre ineguaglianze e ingiustizie. Penso che l’immaginario della femminista priva di senso dell’umorismo svolga un ruolo fondamentale. La fantasia è ciò che rende possibile il lavoro della guastafeste. Si suppone che lei dica ciò che fa (notando il sessismo e il razzismo) perché lei stessa è privata di ogni gioia, poiché non può sopportare quella altrui. Molto spesso, dopo che a qualcuno viene affibbiata l’etichetta di femminista guastafeste, gli altri faranno un certo tipo di battute in modo da offenderla, così da testimoniare il suo malumore. Non fatevi tentare dal ridere. Se una situazione è priva di humor, noi non abbiamo bisogno di aggiungercene; se una situazione non è divertente, non dobbiamo sminuirla; non dobbiamo renderla divertente.

È attraverso l’humor (anche attraverso la satira e l’ironia) che molte persone fanno ancora esternazioni di carattere sessista e/o razzista. L’humor crea una distanza apparente; ridendo a ciò che loro ci dicono, essi perpetuano ciò per cui ridono. Questo ‘ciò’ diventa il bersaglio delle loro battute. Non c’è niente per cui ridere; e quando non c’è niente per cui ridere, le risate contano ancora di più.

L’humor, però, può sfidare le cose portandole in superficie, come ho fatto notare nel mio kit di sopravvivenza. Ci sono però delle differenze che contano in ciò che può fare la risata. L’humor femminista può coinvolgere il sollievo di poter ridere quando vengono rivelate delle strutture familiari spesso tenute nascoste. Potremmo ad esempio ridere per come gli uomini bianchi raggruppino loro stessi riducendo tutto quello che noi facciamo come ‘non da uomini bianchi’, in modo da creare una politica d’identità. Potremmo ancora ridere sull’essere i ragazzi immagine della diversità; e ridere non significa che non abbiamo provato dolore o frustrazione nell’essere interpellati dalle istituzioni per fornire loro dei volti colorati che sorridono; far diventare, cioè, la nostra faccia la loro. Queste risate, però, non ci permettono di ripetere i motivi di offesa; sono un ri-orientamento verso la causa. Noi non ripetiamo, noi ci allontaniamo.

La guastafeste esiste in un rapporto molto stretto con quello del soggetto ipersensibile, che si offende facilmente. Questa figura viene sempre evocata ogni volta che la critica sociale ha successo: quando qualcosa è stata interrotta, chiusa o rimossa perché gli altri ne venivano offesi; e con questo si vuole intendere troppo facilmente offesi, essere quindi deboli, pacati, impressionabili. “Fatti forza” è diventato un imperativo morale, articolato (come la maggior parte degli imperativi morali) da coloro che pensano di avere quello che gli altri desiderano. In realtà, questa figura del soggetto ipersensibile potrebbe giocare in anticipo a questa perdita, oppure evitarla del tutto. Il panico morale, generato da dei campanelli d’allarme, spesso chiama in causa questa figura, in particolare quella dello studente ipersensibile che non è in sintonia con la difficoltà e lo sconforto dello studio, come a voler dire: se permetti alla tua sensibilità di diventare legge, noi perderemo la nostra libertà. Mi verrebbe da dire che questa libertà è stata ridotta alla libertà di essere offensivi, che riguarda anche come coloro che detengono il potere proteggono il loro diritto di articolare la loro visione, non importa come o chi.

Se non vogliamo che episodi violenti vengano ripetuti con la stessa insistente violenza, o almeno se porre delle domande riguardanti i termini che permettono tale rappresentazione significa essere definiti ipersensibili, allora dobbiamo esserlo. Se sei sensibile su ciò che non è ancora finito, vieni definito ipersensibile. Noi siamo sensibili riguardo ciò a cui non è ancora stato messo fine. Siamo sensibili perché non è ancora finita.

 

PRINCIPIO 5: NON SONO DISPOSTA A PASSARE OLTRE A MOMENTI CHE NON SONO ANCORA TERMINATI

Non è ancora finita. Continuiamo a ripeterlo, con insistenza, mentre guardiamo come gli altri continuino a professare il contrario. L’attuale Primo Ministro inglese, David Cameron, ha affermato che una delle cose che rende la Gran Bretagna un ottimo Paese sta nel fatto che ha “dato il largo alla schiavitù”. La Gran Bretagna viene ricordata come la liberatrice degli schiavi, non come una sostenitrice della schiavitù; non come un Paese che ha beneficiato dell’asservimento di alcuni, dalla loro colonizzazione. Quando il colonialismo inglese viene menzionato all’interno dei libri usati per i test sulla cittadinanza, questo viene descritto come il sistema che ha introdotto la democrazia e la legge, portando benefici a tutti. Una violenta storia di conquiste e saccheggi, concepita come il dono della modernità. Ancora oggi le guerre sono giustificate come doni che portano libertà, democrazia ed uguaglianza.

Quando una cosa non è finita, non è ancora arrivato il momento di superarla.

Una guastafeste è disposta a far emergere questa storia. Vieni accusata di essere quella che si sta intromettendo nel processo di riconciliazione. Sei giudicata come quella che deve ancora fare quello che gli atri hanno già fatto: farsene una ragione; accettarlo; lasciarlo andare. Ti trasformi in una ferita aperta perché tu stessa non la lasci guarire.

Noi siamo disposte ad essere coloro che falliscono nel grande progetto di riconciliazione. Sappiamo che il successo di questo progetto corrisponde all’incapacità di affrontare queste storie di violenza, che si manifestano non solo nei traumi irrisolti di coloro che portano i segni di questi eventi sul loro corpo, ma anche in un’ampia distribuzione iniqua di ricchezze e risorse.

Come un mondo viene plasmato, fa parte della memoria.

La loro risposta è sempre di guardare a quello che ci è stato dato. Eguaglianza, diversità: diventano dei doni per coloro ai quali dovremmo essere grati; una ricompensa. Noi non possiamo essere grate di un sistema che vuole inglobarci, quando questo è formato da ineguaglianza e violenza.

Noemi Rossi, amputazione, riviste intagliate, 29,7×21 ca., serie di 10, 2016.

 

PRINCIPIO 6: NON SONO DISPOSTA AD ESSERE INCLUSA, SE QUESTO SIGNIFICA VENIRE INCLUSA IN UN SISTEMA INGIUSTO, VIOLENTO E INEQUO.

Spesso suona sempre come un invito: vieni con noi, diventa parte del gruppo, sii grata. La maggior parte delle volte non abbiamo molta scelta: siamo lavoratori; lavoriamo; agiamo. Dobbiamo sopravvivere, se non progredire, all’interno di un’istituzione. Per quelli che vengono inclusi, anche quando ricevono dei benefici (pensioni, salari…), questa inclusione non è voluta: siamo d’accordo sul fatto che questa inclusione richiede il porsi alle spalle delle istituzioni, identificarsi con esse. Noi siamo disposti ad alzare la voce sulla violenza del sistema, a protestare e scioperare. Noi siamo disposte a parlare del bastone, a costo di essere identificate come l’armata ribelle.

Qui sorge, però, una difficoltà. Se sei impiegata in un’organizzazione, se ricevi dei benefici da questo impiego, ti potrebbe venir detto che il mantenere anche una posizione da guastafeste possa risultare una forma di disonestà politica: trai dei benefici dall’istituzione che, allo stesso tempo, critichi. Dobbiamo fare qui affidamento sulla nostra complicità. Diventare complici non deve però significare che tutto quello che possiamo fare sia riprodurre le logiche delle istituzioni che ci danno lavoro. Infatti, coloro che lavorano per in sistema ingiusto devono lavorare ancora più duramente per mettere in mostra questa ingiustizia. Per quelle guastafeste che si trovano all’interno di un impiego regolare (potremmo chiamarci guastafeste professioniste, alcune di noi potrebbero anche essere delle guastafeste professoresse), non vi è alcuna via per superare questa difficoltà, se non che cominciare da essa. Noi dobbiamo usare i benefici che riceviamo per sostenere coloro che non ne ricevono, inclusi coloro che all’interno della nostra istituzione non godono della stessa sicurezza che permette, invece, a noi di esporre le insicurezze. Nell’ambito dell’istruzione superiore ciò significa che dobbiamo promulgare la nostra solidarietà con gli studenti che stanno lottando per decretare l’educazione come un diritto; per delle lezioni integrative e per delle facoltà che prevedono un mandato o un contratto a breve termine per lo staff professionale che si prende cura degli stabili e delle attrezzature: come gli inservienti, la security e i portieri. Personalmente, ho cercato di far vedere come il rovinare sempre l’atmosfera e la caparbietà, riguardino anche le politiche del lavoro: la forza lavoro ha una sua importanza, ciò significa che alcuni di noi finiscono per lavorare in modo da poter riprodurre le condizioni necessarie all’esistenza degli altri. Quando la nostra vita professionale è resa possibile dal lavoro di altri, noi dobbiamo usare la nostra vita per riconoscere il loro lavoro. Dobbiamo far vedere l’ingiustizia di come alcune istituzioni supportano alcuni, trascurando altri. Noi dobbiamo appoggiare coloro che contestano le condizioni in cui lavorano. L’ostinazione colpisce.

Noi dobbiamo continuare a portare a galla la violenza all’interno delle istituzioni che ci includono, specialmente quando la nostra inclusione avviene sotto il segno della diversità e dell’uguaglianza; specialmente quando i nostri corpi e i prodotti del nostro lavoro sono usati dalle istituzioni come simboli di inclusione. Diventiamo degli abbattitori di muri. Per questo dobbiamo parlare di questi muri; dobbiamo mostrare come la storia diventa reale. Non siamo disposti a permettere che la nostra inclusione appoggi una felicità fittizia. Ad un certo punto, quando la nostra inclusione richiede troppi sacrifici, abbiamo il diritto di andarcene, anche se non tutti siamo nella posizione di poterlo fare.

Un Killjoy Manifesto richiede un rifiuto continuo e volontario nel voler identificare le nostre speranze in una eventuale inclusione all’interno di una organizzazione basata sulla violenza. Io non sono grata di far parte di un’istituzione che è iniqua. Io non sono grata di far parte di un’istituzione nella quale parlare di sessismo e razzismo viene considerato come ingrato. Abbiamo una vasta storia di femministe ingrate dalla quale attingere. Femministe ingrate; scontrose.

Anna Kutera, I’m decide [sic!] about my hairstyle, not fashion dictatores, della serie Situations stimulated – Hairstyles, 1978.

PRINCIPIO 7: SONO DISPOSTA A VIVERE UNA VITA RITENUTA DAGLI ALTRI COME INFELICE E SONO ANCHE DISPOSTA A RIFIUTARE O AD ALLARGARE I CARATTERI DISPONIBILI CHE DEFINISCONO UNA VITA COME GIUSTA.

Ho già fatto notare precedentemente come la felicità implichi il restringimento dei modi possibili di vivere la propria vita. Possiamo essere giudicati come persone sleali, se non siamo disposti a venire ristretti in questi parametri. Viviamo delle vite che gli altri considerano come infelici, senza raggiungere il punto più alto del rituale. Due donne che vivono assieme, ad esempio, che rifiutano di avere una unione riconosciuta, di sposarsi; questo è il nostro modo di rappresentare il rifiuto dell’etero-patriarcato. Manifestare un rifiuto è un’azione che compiamo assieme al prossimo.

Possiamo arrivare ad incarnare un nuovo tipo di nucleo familiare, o soltanto un’alternativa alla famiglia tradizionale. Io sono molto contenta di essere la zia femminista e lesbica. Sono anche convinta che da ragazza avrei adorato l’aver avuto una zia come la sono io adesso, nonostante ci siano molte zie lesbiche alle quali devo molto. Noi dobbiamo raccontare le nostre storie ai nostri bambini, mettendo insieme pezzi di altre vite. Dobbiamo raccontarci tra di noi delle storie su differenti stili di vita, differenti modi di essere; dimostrare non come raggiungere la vita che gli altri vorrebbero o si aspettano tu abbia, ma i strani percorsi che la vita che vivi può prendere.

Personalmente, mi sarebbe piaciuto sapere molto prima l’esistenza di altri modi di vivere, di essere. Mi sarebbe piaciuto sapere prima che le donne non devono per forza avere una relazione con soli uomini. Ovviamente, ho faticato molto per far si che questo si realizzasse: sono diventata una femminista; ho cercato studi sulle donne; ho incontrato donne che mi hanno insegnato cosa non dovevo fare; ho conosciuto delle donne che mi hanno aiutato a deviare dalle aspettative.

Queer: il momento in cui realizzi ciò che non devi essere.

Noi possiamo fare parte di un’espansione che rifiuta di essere circoscritta. Ogni volta che noi rifiutiamo o ampliamo i caratteri della felicità, noi diventiamo parte di un’apertura. Dobbiamo fare spazio, se vogliamo vivere una vita femminista. Quando ne creiamo un po’, lo facciamo anche per gli altri.

Natalia LL, Consumer Art, 1975.

 

PRINCIPIO 8: SONO DISPOSTA A RIPORTARE LA CASUALITÀ NELLA FELICITÀ

Ho già fatto presente in precedenza come la parola felicità (happiness, n.d.r.), derivi dal Middle English hap, che significa casualità. Una delle storie legate alla felicità racconta la scomparsa di questo elemento casuale, in modo che l’essere felici non venga più identificato con quello che ti potrebbe capitare, ma con ciò per cui ti impegni ad ottenere. Nel mio libro The Promise of Happiness, ho esplorato come la felicità finisca per essere ridefinita in opposizione alla casualità, specialmente all’interno della psicologia dei flussi e della psicologia positiva: la felicità non è qualcosa che semplicemente accade. I pochi testi sulla felicità raccontano proprio della violenza con cui la casualità sia stata eliminata. Noi dobbiamo riconoscere questa eliminazione, prima di poterla ripristinare. Non possiamo farne uso pensando che possa farci uscire da questa situazione. Dobbiamo riconoscere il peso del mondo, l’oppressione della felicità, osservare come siamo schiacciati dalle aspettative. Noi inciampiamo. Quando lo facciamo, nel mentre siamo in riga, possiamo percepirci come un ostacolo verso la nostra stessa felicità; possiamo concepirci come d’intralcio a noi stessi.

Possiamo permetterci di esserci d’intralcio? Possiamo essere disposti a rovinare quello che stiamo facendo? Io inciampo; magari inciampando trovo qualcosa; magari inciampando, inciampo proprio nella felicità, una felicità dettata dal caso; una felicità che è tanto fragile come le persone che amiamo e di cui ci prendiamo cura. Noi apprezziamo questa felicità proprio per la sua fragilità: va e viene, esattamente come noi. Sono disposta a lasciar andare la felicità; a permettere che siano la rabbia, la collera e il disappunto ad influenzarmi. Ma quando la felicità capita, allora sono felice.

Una felicità fragile potrebbe essere maggiormente in sintonia con la fragilità delle cose. Noi possiamo preoccuparci delle cose che si interrompono, di quelle che si rompono. Prendersi cura di queste cose, significa non preoccuparsi delle loro felicità. Interessarsi alla felicità può anche trasformarsi nel preoccuparsi degli altri, aspettandosi che questi rispecchino una tua idea di come la vita dovrebbe essere vissuta. Per esempio potremmo concepire il prendersi cura di qualcosa in relazione alla casualità. Quando rompiamo qualcosa, veniamo definiti come noncuranti. Cosa significa prendersi cura di qualcosa, a prescindere che questa si rompa o meno? Potremmo, ad esempio, riorientare la premura di prendersi cura della felicità altrui, nel preoccuparsi di ciò che succede a qualcuno o a qualcosa: preoccuparsi di quello che accade, qualsiasi cosa sia. Potremmo chiamare questo comportamento la cura del caso, piuttosto che la cura della felicità. La cura del caso, non significherebbe permetter ad un oggetto di andarsene, ma piuttosto aggrapparsi a questo lasciando andare noi stessi, abbandonarsi a qualcosa che non ci appartiene. La cura del caso non cercherebbe di eliminare l’ansia. Preoccuparsi è qualcosa di ansioso – essere pieno di cure, essere attenti significa prendersi cura delle cose diventando ansiosi riguardo il loro futuro, dove questo è rappresentato dalla fragilità di un oggetto che vogliamo, invece che sopravviva. La nostra cura raccoglierebbe i cocci di una tazza rotta. La nostra cura non trasformerebbe le cose in ricordi, ma ne valorizzerebbe ogni frammento; la distruzione come inizio di una nuova storia. Non vogliamo però finire dentro un concetto umanistico, dove ogni cosa è equamente fragile, dove dobbiamo prenderci cura di ogni cosa allo stesso modo. Non è così e non lo faremo. Alcune cose, col tempo, diventano più fragile di altre. Noi assistiamo a tutto questo. Assistere alla trasformazione di un oggetto in qualcosa di più fragile, significa assistere alla sua storia con amore e preoccupazione.

 

PRINCIPIO 9: SONO DISPOSTA A ROMPERE QUALSIASI LEGAME, ANCHE PREZIOSO, SE QUESTO DANNEGGIA ME STESSA O GLI ALTRI

Molte volte, quando un legame veniva spezzato, mi sentivo dire quanto questo fosse triste. I legami, però, possono essere violenti. Un legame può sminuire. Alle volte non siamo pronti per riconoscere quando veniamo sminuiti. Semplicemente, non siamo pronti. Per rompere un legame del genere, si può aver bisogno di un lavoro psicologico, così come di uno politico. Quando poi lo fai, quando rompi questo legame, puoi percepirlo come un momento inaspettato che interrompe una linea che si era dispiegata nel corso del tempo; una deviazione, una partenza. Lo stesso momento, però, può anche essere un traguardo, qualcosa per cui hai lavorato molto. Potresti essere disposto a spezzare il legame. Potresti avere il bisogno di essere disposto a farlo. Ancora, potresti essere disposto a riconoscere che anche altri dovrebbero lavorare per arrivare ad un punto in cui dover lasciar andare qualcosa. Condividi il tuo percorso. Dobbiamo condividere il prezzo di ciò che lasciamo andare. Quando, però, molliamo la presa, non stiamo solo perdendo qualcosa, anche se letteralmente è quello che stiamo facendo. Noi scopriamo anche qualcosa. Scopriamo delle cose che prima non conoscevamo – su di noi, sul mondo. Una vita femminista è come un viaggio, alla ricerca di qualcosa che potrebbe non essere possibile senza una rottura, senza l’incoraggiamento vivace degli altri. Allo stesso tempo, una vita femminista è anche un viaggio all’indietro, il recupero di alcune parti di noi stesse che non sapevamo di avere, che non sapevamo nemmeno di aver messo in pausa.

Possiamo sostenerci a vicenda, non mettendoci in attesa.

Lygia Pape, Eat Me, 1975.

 

PRINCIPIO 10: SONO DISPOSTA A PARTECIPARE AD UN MOVIMENTO DI GUASTAFESTE

Sia che tu faccia la difficile o no, vieni percepita come quella che rende le cose difficili, agli altri come a te stessa. C’è così tanta difficoltà, da pensare che anche la femminista guastafeste si arrenderebbe. Eppure, quando ho cominciato a presentare e a discutere di questa figura, le prime volte che ho lavorato con lei e su di lei, mi sono resa conto di come la stanza si sarebbe potuta riempita di energia. Certe volte, parlare di lei, lasciarla entrare nella stanza e agire, mi faceva sentire come scossa da una carica elettrica. Trovava compagnia molto velocemente: transfemministe guastafeste; guastafeste etniche; femministe indigene guastafeste. Sono sicura che ce ne fossero molte altre. Perché? Perché la figura della guastafeste fa la sua comparsa ogni volta che delle testimonianze difficili devono essere portate alla luce. La guastafeste è accattivante non malgrado quello che mostra, ma perché lo mostra. Acquista vitalità ed energia da un momento di difficoltà. Essere disposti ad essere delle guastafeste, essere disposti ad intralciare la felicità, a prendere un giudizio ed accettarlo.

Noi sappiamo anche trasformare un giudizio in un ordine di ribellione.

Guastafeste?

Guardatemi.

Fatevi sotto.

 

[traduzione Eleonora Binetti]

 

Sara Ahmed ha ideato e creato il blog di ricerca www.feministkilljoys.com

Ha diretto e fondato il Centre for Feminist Research (CFR) al Goldsmiths di Londra; attualmente è una studiosa e una scrittrice femminista indipendente.

Living a Feminist Life che è stato pubblicato nel 2017 per la Duke University Press, attinge all’esperienza quotidiana di “essere” una femminista per ripensare alcuni aspetti chiave della teoria femminista. Sara Ahmed dimostra come la teoria femminista stessa sia generata dalla vita quotidiana e dalle esperienze ordinarie di “essere” una femminista a casa e al lavoro.

Il killjoy survival kit e il killjoy manifesto con cui il libro si conclude, forniscono strumenti pratici su come vivere una vita femminista, rafforzando così i legami tra la creazione inventiva della teoria femminista e il vivere una vita che ne sostiene le istanze.

Il blog è stato aperto parallelamente alla stesura del libro, sono stati scritti insieme. Ora che il libro è concluso il blog continua la sua attività.

The work of a feminist killjoy is not over.

 

Ewa Partum, z cyklu “poem by ewa”, LOVE, 1971.

 

 

 

 

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