What happens to the hole when the cheese is gone?* In margine a The Szechwan Tale

«Lì nell’ingresso, dopo i riflettori, c’era un lungo attaccapanni, con dei vestiti, dei cappelli fantastici… poi c’erano tre persone che filmavano, i visitatori provavano due o tre vestiti diversi e poi diventavano attori tutti quanti. Io ho notato che così si rivelava nei visitatori quel limite fra sé stessi e il proprio esterno, la coreografia di sé» [i]

«Aveva accomodato la sala con i suoi specchi e con colonne e arredi di cartapesta affittati a Cinecittà, prendendo a nolo anche una serie di costumi: accatastati nel mezzo, ogni visitatore poteva sceglierne uno e così travestirsi, o cambiare continuamente travestimenti, facendo “teatro”» [ii]

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

Roma, Galleria L’Attico, 12 febbraio, 1968. In occasione della sua mostra personale Michelangelo Pistoletto allestisce due stanze, una di “decondizionamento” e una di “spettacolo”: nella prima presenta un porta-abiti con costumi e cappelli di varie fogge ed epoche, provenienti da Cinecittà. Nei giorni successivi colloca un quadro specchiante (Lo sgabello, 1966) posto frontalmente all’ingresso, mentre potenti riflettori sono puntati verso gli occhi del pubblico che entra. Nell’altra stanza alcuni elementi scenografici (una colonna greca, pietre usate nei film western, sedie) e altri tre quadri specchianti: Donna nuda di schiena (1966) e Lui e lei di schiena e Gli amanti, entrambi del 1968 e raffiguranti Pistoletto e Maria Pioppi.

Pubblichiamo il testo critico di Giulio Carlo Argan [iii]

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

«(…) La mostra è il solo genere artistico che, nel nostro tempo, sia stato distinto con qualche chiarezza; e poiché tra l’altro realizza la convergenza, per più vie cercata, di arte e spettacolo, va praticato senza falsi pudori. Come fa Pistoletto che non espone quadri, anzi li annulla facendoli di specchio e disponendoli in modo che si riflettano l’uno nell’altro; ed invece monta trappole per il pubblico mettendosi sulla soglia di persona, lui e la sua ragazza, per far vedere che si vive in almeno due spazi, forse in più, e che, dovunque si stia o si creda di stare, si è sempre sulla soglia, né di qua né di là.

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

La dimensione in cui costringe i visitatori mondani ad aggirarsi per quel quarto d’ora è naturalmente la dimensione dell’arte, ma anche qui la parola va intesa nel senso letterale, demistificato, di artificio. Artificiale è quello che non è della natura o della vita, e già si capisce dove si voglia arrivare. L’esperienza a cui la Mostra garbatamente invita il pubblico mondano assomiglia a quella della morte. Ma non c’è nulla di terrificante o d’apocalittico, è come l’ottovolante che dà il brivido della caduta a precipizio. Né si può negare che circoli nella Mostra una cert’aria di baraccone di fiera: fa parte del divertimento, come l’intimità della donna nuda o del tête-à-tête che il visitatore è costretto a violare per varcare la soglia ed entrare nel gioco degli specchi.

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

(…) La poetica di Pistoletto è la poetica della Soglia. Non cerca nemmeno di fissarsi in un’opera, perché dove la collocherebbe, di qua o di là? Così si esibisce allo stato fluido, poetica della Soglia in una Mostra tutta fatta di soglie. Non offre una rappresentazione della morte, che sarebbe due volte falsa, come ipotesi gratuita e allegoria della medesima. Si limita a far sentire la morte come una cosa concreta, presente e operante, che occupa il medesimo spazio e il medesimo tempo della vita: soltanto che, non potendo essere percepita, dev’essere dedotta dall’influenza che esercita sulla realtà sensibile. Per poterlo fare bisogna intanto sradicare il tabù, la superstizione, l’angoscia ereditaria della morte. Pistoletto, che ha letto il suo Sartre (e molte altre cose), sa benissimo che il nulla non è l’opposto dell’essere come il vuoto del pieno e la tenebra della luce: se così fosse sarebbe ancora un essere ed essendo non sarebbe il non-essere. Come si può pensare, chiedeva il nostro Rensi, un pensiero-non-pensato? Dunque, la Morte non è il nulla e c’è, non al di là o dopo, ma qui-ora. Si fanno tante storie quando viene il momento di varcare la Soglia; ma quante volte non la varchiamo senza nemmeno avvedercene, avanti e indietro, come fosse un velo d’aria, invisibile? (…)

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

Entrando nella Mostra si è accecati, per qualche istante, dalla luce diretta di tre riflettori. È la prima soglia, e quando si ricomincia a vedere si è già nello spazio della doppia dimensione. Dove altri ci hanno preceduti, che se ne sono andati. Erano compostamente seduti su quelle sedie numerate, che certo erano in ranghi paralleli, quando è sopravvenuto chi sa quale evento od allarme od appello. Non sono usciti dalle porte, perché il labirinto delle sedie scompaginate non ha sbocchi da quella parte. Sicuramente hanno varcato la soglia degli specchi e si sono perduti in un’acqua limpida e senza fondo. Gli specchi ora riflettono soltanto, all’infinito, le prospettive incrociate delle sedie vuote; e la rispettabile figura di noi, che siamo entrati nel labirinto. Quante vie secondarie, avrebbe commentato malinconico Klee, senza una via principale. Siamo in ritardo e dobbiamo raggiungere gli altri, ma non sappiamo da che parte abbiano preso: sono quattro gli specchi e si riflettono l’uno nell’atro.

Non ce lo dirà il Guardiano il cui sgabello sulla soglia è vuoto, non il Pittore o la Donna che stanno sulla soglia e fanno all’amore (ma sono sagome da cartolina illustrata, ingrandite e ritagliate, ancora una, meschina finzione. E com’è che le vediamo dal di qua, se invece siamo dall’altra parte, dentro lo specchio?). Allora, e la cosa ci delude, crediamo di capire tutto: la famosa Soglia non è che la risaputa, banale contiguità di Amore e Morte. Col solito scambio tra realtà e finzione: gli spettatori escono dal boccascena, gli accessori scenici (la colonna di gesso e le rocce di cartapesta) sono finiti in platea.

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

 

Siamo giusti è una simbologia da tre soldi; quasi offensiva per un pubblico mondano come quello delle mostre, se non la riscattasse una patente ironia. Ma null’altro che scadente simbologia è l’idea della morte con cui la gente, anche quel pubblico mondano, cerca di coprire la presenza della Morte vera, di cui è impossibile farsi una idea, ma che s’avverte astante, qui nella Mostra, nell’ordine che sottende il disordine: nella tersità degli specchi, nella prospettiva nuda delle sedie, nella precisione ottica delle fotografie, nella chiarezza modulare della colonna dorica sotto la crosta volgare del gesso. Nostri sono quei simboli impresentabili, equivoci, sfacciatamente falsi: miserabili arredi del teatrino su cui la gente (e cito ancora l’Autore), avendo nascosto per paura una delle sue vite, recita l’altra. Mentre l’artista “che non ha paura e le rischia tutte e due” rimane sulla Soglia (in effigie); non può far altro (e qui la spirale ironica spinge i suoi giri) che fare la Mostra e mettersi in Mostra (…).

Michelangelo Pistoletto, mostra alla Galleria L’Attico, Roma, 12 febbraio-12 marzo 1968. Foto Claudio Abate. Courtesy Michelangelo Pistoletto.

Basterebbe la lucidità tagliente di questa ricerca “ai bordi della vita” a dimostrare quanto sia assurdo imbracare Pistoletto nella banda variopinta e chiassosa dei Pop: per la sottigliezza della sua ironia autopunitiva, Pistoletto è un europeo di vecchia scuola, che ha letto Pirandello e Thomas Mann (l’ambiguità, la sospetta indecenza della morte pensata), Brecht (la simbologia come montatura scenica), James, Genet, Beckett (l’attesa dell’Innominabile), Artaud (il teatro della crudeltà). Il processo a cui sottopone lo spettatore implicato è sicuramente un processo di estraniazione: quello in cui l’uomo europeo, allontanato dalla via maestra della storia, riconosce con amarezza il proprio destino» [Giulio Carlo Argan].

 

12 Aprile 2018, The Szechwan Tale. China, Theatre and History.

The Szechwan Tale. China, Theatre and History, a cura di Marco Scotini, FM Centro per l’arte contemporanea, Milano, 2018.

Quando si supera la soglia di The Szechwan Tale. Theatre and History, l’ultimo progetto di Marco Scotini in corso da FM Centro per l’arte contemporanea di Milano, si entra sì in una mostra ma, allo stesso tempo, si accede in un backstage, in un camerino o dietro al palco, dove si trova il guardaroba: Memory Wardrobe, collocato all’ingresso è il re-enactment del lavoro del ’68. Oggi come allora, il pubblico si traveste, riscrive le parti, recita, indossa la mostra in uno spettacolare colpo di teatro, nella messa in scena di un meccanismo di liberazione in cui varcare la soglia dello spazio espositivo significa partecipare brechtianamente alla finzione del teatro (o dell’arte), da cui trarre gli strumenti necessari a “cambiare il mondo” reale.

La valutazione del drammaturgo tedesco sul periodo hollywoodiano durante la guerra, sembra adattarsi alla battaglia per i numeri del pubblico che sempre più regola il mondo dell’arte e il sistema espositivo contemporaneo: “l’assunto è che gli attori non possono agire e il pubblico non può pensare”, ma ci ricorda anche che “il tempo scorre, e se così non fosse, sarebbe una cattiva prospettiva per coloro che non siedono ai tavoli d’oro”.

Pubblichiamo il testo critico di Marco Scotini per Memory Wardrobe 1968-2017. [iv]

«È noto il carattere teatrale dei Quadri Specchianti di Michelangelo Pistoletto e la dimensione performativa e temporale che – a partire da questi lavori – connota lo spazio dell’esposizione. Sin dai primi anni Sessanta il lavoro di Pistoletto è stato popolato dalle persone che si riflettevano in essi. In assenza di un pubblico, queste opere non esistono in modo autentico, la loro condizione d’esistenza è nella relazione con le persone che le guardano. Ciò che tutte queste opere promuovono è la co-presenza fisica e virtuale di attori e spettatori, uno scambio di ruoli che condurrà Pistoletto – tra il 1968 e il 1971 – alla sperimentazione di una vera e propria attività teatrale svolta con gli uomini e le donne del gruppo torinese de lo Zoo. Ma il vero antecedente della nascita de lo Zoo è la mostra personale che Pistoletto tiene alla galleria l’Attico di Roma nel febbraio 1968. Per questa mostra Pistoletto rinuncia definitivamente al contrassegno dell’autorialità e pone le condizioni per una “creativa collaborazione” con il pubblico. Decide di non produrre alcun oggetto e si limita a prendere in prestito dagli Studios di Cinecittà props teatrali, scenografie di cartapesta, costumi cinematografici e cappelli spettacolari. lo spazio espositivo si trasforma così nella doppia identità di una platea e di un backstage teatrale in cui gli spettatori (e l’artista al pari di loro) sono chiamati a fare esperienza di quel “limite tra sé e la coreografia del sé”, tra realtà e fiction. Riflettori da 1000 watt colpiscono gli occhi dello spettatore all’ingresso mentre alcuni Quadri specchianti moltiplicano il gioco dei riflessi e delle ambiguità, e alcuni film-maker registrano la scena. “nello spazio ingombro, falciato dalla luce violenta degli spot – testimonia Alberto Boatto – forse è già risuonato il si gira, giacché molte comparse si vedono in azione. (…) In tal modo all’irrealtà della vita riflessa e di quella ferma e senza peso dell’immagine fotografica, fa riscontro l’irrealtà dell’ambiente materiale e delle persone”. Come già per la Biennale di Anren, Michelangelo Pistoletto decide di riallestire uno spazio simile a quello presentato a l’Attico cinquanta anni fa e che chiama Memory/Wardrobe. Questa nuova versione dell’opera fa riferimento ai ricordi personali dell’artista e a quelli della Cina del novecento. Gli abiti che il pubblico trova nel lungo appendiabiti della prima sala – e che è invitato a scegliere e indossare – vanno da quelli del teatro dell’Opera di Pechino a quelli dei contadini sichuanesi, dalle giacche tipo zhongshan zhuang (中 山装) della repubblica Cinese alle uniformi del periodo della Red Age» [Marco Scotini]

[i] Michelangelo Pistoletto in Marcello Venturoli, Tutti gli uomini dell’arte, Rizzoli, Milano 1968, p. 342.

[ii] Maurizio Calvesi, “Cronache e coordinate di un’avventura”, in Roma Anni ’60. Al di là della pittura, 1990, Edizioni Carte Segrete, p. 30.

[iii] testo critico di Giulio Carlo Argan, Galleria L’Attico, Roma, mostra di Michelangelo Pistoletto, 12 febbraio, 1968; ripubblicato in in Roma Anni ’60. Al di là della pittura, 1990, Edizioni Carte Segrete, p. 438.

[iv] testo su Michelangelo Pistoletto di Marco Scotini, in The Szechwan Tale, FM Centro per l’arte contemporanea, Archive Books, Berlino, 2018, catalogo della mostra, p.163.

 

 

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