Scuòla è il termine che originariamente indicava “un uso libero e piacevole delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico, e solo più tardi luogo dove si attende allo studio”[i]. Una scelta individuale, che non considera la partecipazione dell’Altro alla propria formazione, se non per la piega strutturale che ne ha dato poi l’istituzione. Incontriamo l’Altro, durante il periodo scolastico, in differenti sembianze convenzionali che ricoprono ruoli pre-ordinati: i compagni, i maestri, i professori, etc…
All’interno di questo contesto sociale e didattico dialoghiamo con le diverse forme dell’Altro mediante il confronto. Alla base della relazione fra spettatore e opera d’arte, grazie alla visione di un qualcosa diverso da ciò che siamo – o che immaginiamo di essere – s’instaura un dialogo estetico proprio nel confronto. Un punto di avvicinamento, dunque, ma anche di allontanamento, perché nel momento della prossimità con il diverso si assume una distanza. Mediante questa trasformazione tentiamo di diversificarci da ciò ch’eravamo prima, assomigliando sempre di più a un nuovo ideale a cui aspirare. Si potrebbe dire che: “Each one teach one”[ii].
Il ruolo dell’Accademia fin dal XVIII è stato quello di generare collegamenti fra la storia e il presente. Nel caso delle accademie d’arte fornire una linea guida classica e allo stesso tempo contestarla, dagli artisti frequentanti e non solo. Gerard Richter scriveva a proposito: « L’aspetto più raccapricciante della nostra miseria artistica si trova nelle cosiddette accademie d’arte, che ingannano l’intero pubblico con i loro nomi pomposi e clamorosi. La parola accademia serve solo ad ingannare i ministeri, le amministrazioni locali e i genitori, e nel nome dell’accademia i giovani studenti sono deformi e malformati. […]” (1983).
Luoghi di costruzione del sé, le accademie, dove é raro incontrare il dialogo. L’assenza dell’impostazione dialogica è stata investigata dagli artisti nella costituzione di scuole d’arte alternative, con modelli pedagogici anti-autoritari e radicali. La figura che meglio riflette questa ricerca nella comunicazione è stato Joseph Beuys che, come insegnante all’Accademia di Düsseldorf, invitava anche i non iscritti a partecipare alle sue lezioni. “Bisogna rivoluzionare questi modi di vedere e pensare, perché non vanno più bene. Io mi oppongo al fatto che l’insegnante sia mero spettatore del processo evolutivo”[iii]. Dalla pratica dell’insegnamento a Düsseldorf nella seconda metà degli anni ’60 – il suo licenziamento e il processo in tribunale – fino alla costituzione della F.I.U., Freie International Universität (Libera Università Internazionale) presentata nel 1973 insieme allo scrittore premio nobel Heinrich Böll, l’artista si impegna nella contestazione normativa delle autorità accademiche, provando a riformulare le strutture educative. Beuys continua negli anni ad interrogare il «concetto ampliato di arte» anche attraverso il suo ruolo di insegnante, dentro e fuori i processi formativi e, dopo Düsseldorf nel 1971 istituisce l’Organisation für direkte Demokratie durch Volksabstimmung (Organizzazione per la diretta democrazia attraverso referendum) che porterà alla documenta 5 di Kassel: «l’Ufficio è arte» diceva Beuys e il suo allievo Johannes Stuttgen lo aveva definito come «uno spazio politico di non-arte al centro del campo dell’arte», insieme alle organizzazioni politiche, para-politiche o post-politiche promosse dall’artista nel corso della sua attività artistica. Un allontanamento dalla formula kunst= kapital con l’approccio al libero insegnamento, che si autodeterminerà così nel 1973, attraverso la creazione dell’associazione per la Libera Università Internazionale per la Creatività e la Ricerca interdisciplinare, il cui consigliere, guarda caso, era proprio Gerard Richter.
Cecilia Meroni, Solo cielo e mare (23/08-31/08/2005), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.
MANIFESTA 6
Nicosia o Lefkosia, capitale dell’isola di Cipro, è stata costruita nella Piana della Mesaoria lontana dal mare, dal quale sono approdate una serie di occupazioni che tutt’oggi dividono la sua estetica (o immagine cartografica) e il suo territorio politico e culturale: greca, veneziana, ottomana, inglese ed infine turca che nel 1974 la divise appunto, in due parti. L’attuale linea di demarcazione è chiamata Green Line e separa la parte turca a nord e la parte greca a sud. L’unica capitale europea ancora divisa oggi, venne scelta per ospitare Manifesta 6 trovandosi geograficamente fra tre continenti. É così che la giovane biennale d’arte contemporanea nomade, nata nel 1996, in risposta ai cambiamenti politici ed economici che avevano come obbiettivo comune quello dell’integrazione europea, si proponeva come supporto per l’espansione di una rete di professionisti dell’arte in tutta la regione coinvolta[iv].
L’esperimento, in cui «nulla si crea e nulla si distrugge », condotto dai curatori Mai Abu ElDahab [v], Anton Vidokle [vi] e Florian Waldvogel [vii] proponeva di costituire una non definita School as Exhibition. “Uniti nella differenza” come cita lo slogan di Manifesta e inseriti in un contesto problematico, ritrovato durante le ricerche di Vesna Madžoski nell’Archivio, attraverso scambi di posta elettronica:
“E naturalmente riguarda la posizione che si trova tra il vero Occidente e il vero Oriente. Per non parlare del bellissimo clima meridionale e dei siti storici. (…) La scelta è molto difficile tenendo presente che Manifesta 6 in entrambe le città, a Tallin e Nicosia, potrà essere una conferma metaforica dell’espansione europea della cultura dell’UE”[viii].
La struttura della School as Exhibition seguiva quella che è stata definita come la «didactic turn in the curatorship» [ix] ed era costruita tramite il coinvolgimento di 90 allievi selezionati da tutto il mondo fra i quali: Boris Groys, Martha Rosler, Liam Gillick, Martin Beck, etc., suddivisi in tre dipartimenti capitanati dai curatori della Manifesta 6 e dai loro assistenti. All’interno dei dipartimenti ogni curatore doveva idealmente inventare insieme agli allievi una nuova didattica e impartire le proprie lezioni attraverso un approccio trans-inter-multi-disciplinare. Dodici settimane in cui i rappresentanti del mondo dell’arte contemporanea chiudevano le porte al pubblico e si ritrovavano in un luogo non precisato.
Manifesta 6 era dunque, citando Madžoski: “La decisione dei curatori di creare una scuola, e di escludere l’attenzione a concentrarsi sulle specifiche circostanze storiche e politiche di quest’isola, ha trasformato la loro impresa in una vacanza che avrebbe potuto aver luogo in qualsiasi altro posto “esotico” della Terra. Così com’era, la decisione di interrompere oggetti d’arte ha anche cancellato qualsiasi possibilità di una riflessione critica sulle circostanze in cui Cipro si trovava”.
Seguendo il testo di Wandvogel Each one teach one era chiaro che nella struttura d’integrazione comunitaria e sociale i curatori di Manifesta 6 avevano incluso la parte turca e quella greca, ma non quella britannica. Il programma scolastico dell’exhibition-talk doveva avvenire in un quadro senza cornice perché la partecipazione alle lezioni era gestita tramite connessione internet. Un luogo privo di geografie – ? – e all’interno del quale lo studente – e il visitatore? – poteva seguire i corsi e partecipare alle discussioni. All’interno di questa architettura fatta di connessioni, classiche impostazioni accademiche standard, tra cui segreteria e biblioteca, si sentiva un’atmosfera da college americano, data anche dalla radio Manifesta School, ovviamente tutto in lingua inglese.
Camiel van Winkel sottolineava come: “questa generazione di curatori allude a malapena al fatto che la curatela consiste nel mostrare le opere d’arte a un pubblico; essi sembrano essere più interessati ad altri aspetti del proprio lavoro […]. Questo spiega anche perché il desiderio di generare esperienza estetica sia completamente assente dal discorso di Manifesta. I curatori vedono l’esperienza estetica come statica e il processo di dialogo e lo scambio creativo – quindi le dimensioni sociali dell’opera d’arte – svoltare verso l’interno ed evaporare” [x].
Attorno a questa gravità della rete doveva ruotare il sistema didattico della Manifesta del 2006 che citando Wandvogel sarebbe stata: una lotta auto-organizzata per le libertà culturali, un possibile sviluppo per modelli risolutivi, un significato politico assegnato alla vita quotidiana della gente comune, una fonte d’esame per i meccanismi attraverso i quali le persone esperiscono le strutture culturali, una revisione critica del concetto di cultura, un collegamento per tutti i contesti del sapere, etc…
La «scuola delle scuole» avrebbe potuto dunque segnare il destino accademico di tutte le istituzioni di Belle Arti del pianeta, eppure per motivi mai ben chiariti non è potuta avvenire.
Dopo il fallimento i curatori scrissero una lettera di congedo pubblicata su e-flux, solamente Vidokle persistette nella sua impresa didattica e, alla fine del 2006, a Berlino aprì Unitednationplaza dove alcuni degli artisti e intellettuali, convocati in precedenza per la Manifesta 6, diedero il loro contributo.
[Giada Olivotto]
Mauro Valsecchi, Goodbye Margaret, polvere di pigmento su carta, 2018.
SCHOOL’S OUT. La cancellazione di Manifesta 6
«La scelta di Nicosia – la città è divisa in due – è stata dettata dalla sua complessa identità, che l’Occidente definisce come il limite geografico estremo dell’UE. Al tempo stesso, il passato di Nicosia rivela un rapporto molto stretto col Medio Oriente ma continua coscientemente a mantenere la propria identità, dopo duecento anni di coesistenza con i suoi invasori. […] Nicosia è colta in un processo di ri-identificazione e riconciliazione con i suoi vicini più prossimi. Manifesta 6 a Nicosia è da intendersi come una sfida per Manifesta a rinnovarsi sotto diversi aspetti, a cambiare la propria struttura e a creare una relazione più stretta con la comunità artistica mettendo l’accento su necessità educative a lungo termine. L’aspetto di diversità culturale è molto presente nella regione perciò giocherà un ruolo decisivo nel ripensare a una futura integrazione europea» [xi]. Con queste parole Hedwig Fijen dichiarava la posizione di Manifesta e dell’Europa, non solo territoriale e geografica, che sfrutta il suo margine estremo per sporgersi a osservare l’Altro. Così se per la sesta edizione del 2006, la città di Nicosia era scelta come host battendo Tallin, questa decisione era anche la conferma metaforica dell’espansione europea e della sua cultura. La politica della cancellazione nel sistema dell’arte è un raffinato meccanismo che induce a pensare che ciò non possa più avvenire, o meglio, che questo possa avvenire solo in Stati e contesti geo-politici sottoposti a censura, e che il periodo dei grandi movimenti ideologici del Novecento, essendosi oramai affievolito, abbia reso l’arte libera. L’arte e la politica sono sistemi che si elidono e sono l’uno lo specchio dell’altro se li analizziamo dal punto di vista del loro funzionamento, come istanze avanzate del neoliberismo.
La decisione presa il 6 giugno 2006 in seno a Nicosia for Art (il nucleo di coordinamento dell’evento congiuntamente alla Manifesta International Foundation) di allontanare definitivamente dal progetto i tre principali curatori Mai Abu ElDahab, Anton Vidokle e Florian Waldvogel diede un deciso colpo all’intera organizzazione, procurando una lacerazione che non si sarebbe più rimarginata[xii].
La motivazione assunta dalla città di Nicosia per fermare i lavori era di tipo amministrativo-burocratico; naufragò così quello che avrebbe dovuto essere l’obiettivo principe della manifestazione, ossia offrire ampie possibilità di dialogo tra pubblico/artisti/sistema dell’arte e le due parti divise (e lacerate) della città, quella turca e quella cipriota. Il piano di Manifesta era decisamente ambizioso; purtroppo, le relazioni tra le parti contrapposte erano compromesse dal 1974, quando la cosiddetta Linea Verde era servita da spartiacque tra i territori dell’una e dell’altra nazione, e riporre speranze nell’arte come elemento di confronto unificante fu una ingenua utopia di matrice modernista.
Le parole con le quali Anton Vidokle definì il disegno nato nei primi anni novanta sono particolarmente efficaci per delinearne il profilo: “Manifesta è un’istituzione culturale piuttosto fragile, non le Nazioni Unite”[xiii].
L’edizione di Manifesta 6 poggiava le proprie fondamenta sull’idea di scuola intesa come ambito in cui è il confronto a essere il soggetto preminente e la dialettica tra le parti la sua arma vincente, abolendo la parte espositiva sulle opere d’arte. Per fare questo, i tre curatori avevano preso la decisione di “rimuovere” per l’occasione le divergenze tra i due Paesi, evitando le questioni storico-politiche più conflittuali, in favore di un edificio neutrale (l’obsoleta concezione dell’autonomia estetica). Ma, come sottolineato da Vesna Madzoski “abortire le opere significa abortire qualsiasi possibilità di lettura critica del contesto” [xiv], e quindi le basi del progetto risultavano già minate in partenza. In aggiunta, subentrò anche un aspetto di natura prettamente economica: una parte dei finanziamenti destinati al progetto sarebbero stati drenati dalla parte meridionale Turca, destinata ad ospitare una nuova sezione della scuola.
Carmine Agosto, Brexit, flag, 2017.
La natura nomade della biennale europea aveva scelto un contesto che si affacciava su uno scenario ideale: la Repubblica di Cipro aveva fatto il suo ingresso nell’Unione europea nell’aprile 2004 e la Turchia si apprestava alla sua candidatura per diventarne nuovo membro, con i negoziati già prossimi ad affrontare il “capitolo culturale”.
Le ragioni ufficiali della cancellazione erano state il rifiuto della parte della Grecia di supportare finanziariamente una parte della scuola che doveva aver luogo nella zona turca della città.
“È emerso un conflitto tra Manifesta e Nicosia for Art Limited (NFA). Manifesta sostiene che l’NFA, un’entità giuridica speciale creata dai rappresentanti della Municipalità di Nicosia e dal Ministero della Cultura e dell’Istruzione cipriota per amministrare Manifesta 6 nell’autunno 2006, non abbia adempiuto ai suoi obblighi contrattuali di assicurare le sedi selezionate dai curatori in tutta la città, cioè nella Nicosia settentrionale e meridionale ” – come era riportato nella comunicazione mediatica di allora. Così la principale preoccupazione che ha dominato i discorsi ufficiali sul dibattito intorno alla cancellazione di Manifesta 6 era stata la totale insistenza sul fatto che la causa del “misunderstanding” doveva essere rintracciata nel contesto locale. «Il conflitto tra la parte greca e quella turca era costantemente al centro dell’attenzione, ma ciò che restava nascosto per tutto il tempo era il fatto che Cipro fosse in realtà divisa in tre parti: quella greca, quella turca e quella inglese. Da questa prospettiva l’indipendenza conquistata da Cipro nel 1960 dovrebbe essere percepita come il momento in cui sono iniziati tutti i problemi» [xv].
Lo sguardo odierno è facilitato a cogliere vantaggi, svantaggi ed incongruenze proprio attraverso una visione diacronica, e critica, non possibile allora, in cui la lente utilizzata era di tipo sincronico e risulterebbe difficile accettare l’ostracismo applicato alle opere d’arte come mezzo interpretativo dei problemi socio-politico-culturali da cui è di volta in volta la sfera pubblica è attraversata.
Quindi, l’esposizione -per così dire- sarebbe stata la scuola stessa e l’analisi dei corsi proposti a destinatari (che non furono mai individuati), ma che avrebbero potuto frequentare un ventaglio relativamente ampio di programmi educativi finalizzati a fornire le basi per un progresso intellettuale, partendo dalla produzione culturale-politica e dando gli strumenti critici per muoversi con maggiore autonomia e libertà all’interno degli ambiti sociali. Fu una questione affrontata con attenzione alla parte teorica, mentre mancò quasi totalmente la parte pragmatica.
«La decisione dei curatori di formare una scuola ed escludere tutte le circostanze storiche e politiche dal loro focus ha trasformato Manifesta in una sorta di vacanza, attuabile a Nicosia come in qualsiasi altro posto “esotico” sulla Terra» [xvi] continua Madžoski, quella che poteva essere una grande opportunità divenne simbolo di una disfatta che coinvolse l’Europa intera. Eppure, vi è un ulteriore aspetto da prendere in considerazione: come dice il curatore Wu Hung, “una cancellazione non significa fallimento. Infatti, una cancellazione arricchisce sempre il significato di una mostra annullata: conferma la natura sperimentale della mostra e ne accresce l’impatto sulla coscienza pubblica. Conferma anche l’identità non ufficiale del curatore e degli artisti partecipanti e rafforza la loro determinazione a cambiare il sistema” [xvii].
Gli agenti dell’arte devono decostruire l’immagine che l’archivio proietta
“Nel tentativo di estrarre dall’archivio la parola greca arkh ̄e come origine degli usi attuali di questo termine, Derrida ci ricorda il suo doppio significato, o due principi in esso contenuti: principio di inizio e principio di comandamento. In base a questo, l’archivio si trova nella casa di chi comanda, che non sono solo i custodi dei documenti ma anche quelli a cui viene dato “diritto e competenza ermeneutica” che conferisce loro il potere di consegna: dell’unificazione, identificazione, classificazione e interpretazione dell’archivio (Derrida). Questa posizione significa il potere non solo sugli oggetti fisici, ma anche sul discorso storico o sul discorso dell’inizio, dell’origine basata sulle tracce materiali custodite nell’archivio. […] La posizione fisica dell’archivio può essere vista come la posizione da cui viene distribuito il potere, dando o negando il mandato simbolico a coloro che vogliono per entrare e interpretarlo” [xviii].
La paura della perdita radicata nell’essere umano ed incrementata nei secoli da valori psico/eco-nomici, oggi più che mai, si rispecchia nella dissipazione. Non esiste tanto più la paura di perdere qualcosa, quanto di non poterla più recuperare poiché incontrollata. L’entità incontrollata assume così un’aggettivazione dicotomica: porta con sé la paura della perdita e la forza della trasformazione. Non poter più riconoscere un volto, non riuscire ad identificare un luogo, raschiare dalla memoria visiva l’oggetto attivatore di ricordo, alterare la forma per rivoluzionare il senso primario, sfuggire ad una tradizione, scavalcare un’istituzione, scardinare il peso della conservazione, mettere in movimento dunque l’archivio.
L’archivio proprio come un corpus che “non si riduce mai alla mnémè o all’anamnésis”[xix] porta con se sempre la silenziosa “pulsione trina”[xx]che costantemente viene soffocata dall’ancor più forte pulsione di controllo e sopravvivenza. La forte valenza eco-nomica dell’archivio è pari al valore affettivo che viene proiettato sugli oggetti stessi dell’archivio. Si trattiene ciò che si ha paura di perdere o funga da surrogato di presenza di qualcosa che si ha la certezza di aver perduto e così l’oggetto viene investito di valore, la scatola archiviale tanto più ha valore, tanta più fragilità porta con sé, nella memoria. Si conserva ciò che arriva da fuori e che fisicamente non ci appartiene “Niente archivio senza un luogo di consegna, senza una tecnica di ripetizione e senza una certa esteriorità. Niente archivio senza fuori.” [xxi] Ma da dove comincia il fuori? si chiede Derrida.
La costruzione e quindi la manipolazione nella costruzione dell’archivio stesso implica un potere politico intrinseco. L’atto di costruire una memoria che si tramanderà spinge l’essere umano a intrecciare passati di sguardi inevitabilmente personali che violentemente creano uno sguardo comunitario. Ciò che siamo abituati a sfogliare con i guanti tra le pagine di documenti ingialliti dal tempo e oggetti da poter solamente guardare e non toccare non sono altro che “esposti alla distruzione” [xxii] e ciò che minaccia di distruzione, che conduce verso l’oblio [xxiii], ma persino nell’oblio – che efficacemente rimanda ad una cancellazione profonda, radicale – risiede un duplice sguardo da indagare: “può sanare ferite, sostituire parti perdute o ripassare in sé forme spezzate” [xxiv], l’oblio diretta un “diritto” , il diritto di essere dimenticati.
Persino questa irreversibilità “può ancora essere reinvestita in un’altra logica, nell’inesauribile risorsa economista di un archivio che capitalizza tutto, ivi compreso ciò che lo rovina o ne contesta radicalmente il potere: il male radicale può ancora servire, l’infinita distruzione può essere reinvestita in una teodicea, Il Diavolo può così giustificare” [xxv]. Pertanto, l’archivio è costruito su un terreno instabile che è costantemente minacciato dalle sue intrinseche contraddizioni, vale a dire il desiderio di ricordare e la spinta a cancellare la memoria. Tuttavia, questa contraddizione non è negativa, modula e condiziona la stessa formazione del concetto di archivio. Il non identificabile è nato dal vuoto, dalla possibilità che il vuoto produce, proprio come un fantasma. Questo fantasma dell’archivio autorizza tutti noi ad entrare senza il controllo dei guardiani.
Secondo Derrida, viviamo in un’epoca in cui tutti bruciamo con il desiderio di archiviare, ognuno di noi è posseduto da un mal d’archivio o da una febbre d’archivio. Un desiderio compulsivo, ripetitivo e nostalgico di tornare alle origini, di avere potere attraverso l’unicità dell’archivio che sottende un processo violento. Processo che sottolinea la sua violenza nella ripetizione. Per esistere un evento, un’istituzione, deve ripetersi, poiché l’esistenza stessa e la ripetizione dell’essere in sé generano valore, poiché l’archivio non cataloga e inscatola soltanto eventi passati, ma genera una nuova formalizzazione di archiviazione per eventi futuri.
Da sempre l’esercizio di potere e di controllo sull’archivio ha generato il controllo sul passato, sulla memoria collettiva e sulla costruzione del “concetto di storia”, ma anche il controllo sul futuro, poiché “Non si rinuncia mai, è l’inconscio stesso, ad appropriarsi di un potere sul documento, sulla sua detenzione, sulla sua ritenzione o interpretazione” [xxvi]. Irreversible non lascia spazio a riletture nostalgiche, anzi, apre nuove modalità di pensare il presente e il futuro, al concetto di “impressione” che trova proprio nel corpo della foto il palesarsi del processo violento e totalizzante dell’archivio, ma anche del gesto del grattare elementi identificabili rispetto ad un luogo, ad un contesto sociale e persino del soggetto stesso che diventa una sagoma, una forma, un fantasma.
[Roberta Riccio]
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018. ph. Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph. Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph. Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph. Daniele Marzorati.
Gli interventi e le voci del glossario di Giada Olivotto, Emanuele Tira e Roberta Riccio sono tratti dal seminario (Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta che si è svolto il 18 luglio presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. La performance Irreversible di Benedetta Incerti con Roberta Riccio.
L’immagine di copertina è di Benedetta Incerti, Irreversible, materiali d’archivio, 2018.
note :
[i] Dal dizionario online Treccani
[ii] Titolo del testo di Florian Wandvogel dedicato al fallimento di Manifesta 6, scaricabile dal sito ufficiale
[iii] Stachelhaus, Joseph Beuys, Una vita di controimmagini, pag. 81, Johan&Levi, 2012.
[iv] estratto dal sito ufficiale di Manifesta
[v] Mai Abu ElDahab, nato al Cairo, vive e lavora a Brussels. É stato, dal 2007 al 2012, direttore della Objectif Exhibitions ad Antwerp, dove ha curato un programma di mostre solo show.
[vi] Anton Vidokle, nato a Mosca, co-fondatore della piattaforma e-flux, vive e lavora fra New York e Berlino.
[vii] Florian Waldvogel, nato a Offenburg, è stato, fino al 1998, assistente di Kaspar König presso l’Accademia di Francoforte
[viii] Jara Boubnova, corrispondenza per posta elettronica 12 Maggio 2004, Manifesta Archive, in Vesna Madžoski, De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement, Atropos Press, 2013, p.100.
[ix] Metropolis M, Expanded Academy, 2006.
[x] Camiel van Winkel, “The Rhetorics of Manifesta”,in The Manifesta Decade: Debates on Contemporary Art Exhibitions And Biennials in Post-wall Europe, a cura di Elena Filipovic e Barbara Vanderlinder, 2005, p.228.
[xi] How a European Biennial of Contemporary Art Began, conversazione tra René Block, Hedwig Fijen, Henry Meyric Hughes e Katalin Néray, in The Manifesta Decade, ibidem, p. 199.
SCHOOL AS EXHIBITION. Il caso Manifesta 6
Scuòla è il termine che originariamente indicava “un uso libero e piacevole delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico, e solo più tardi luogo dove si attende allo studio”[i]. Una scelta individuale, che non considera la partecipazione dell’Altro alla propria formazione, se non per la piega strutturale che ne ha dato poi l’istituzione. Incontriamo l’Altro, durante il periodo scolastico, in differenti sembianze convenzionali che ricoprono ruoli pre-ordinati: i compagni, i maestri, i professori, etc…
All’interno di questo contesto sociale e didattico dialoghiamo con le diverse forme dell’Altro mediante il confronto. Alla base della relazione fra spettatore e opera d’arte, grazie alla visione di un qualcosa diverso da ciò che siamo – o che immaginiamo di essere – s’instaura un dialogo estetico proprio nel confronto. Un punto di avvicinamento, dunque, ma anche di allontanamento, perché nel momento della prossimità con il diverso si assume una distanza. Mediante questa trasformazione tentiamo di diversificarci da ciò ch’eravamo prima, assomigliando sempre di più a un nuovo ideale a cui aspirare. Si potrebbe dire che: “Each one teach one”[ii].
Il ruolo dell’Accademia fin dal XVIII è stato quello di generare collegamenti fra la storia e il presente. Nel caso delle accademie d’arte fornire una linea guida classica e allo stesso tempo contestarla, dagli artisti frequentanti e non solo. Gerard Richter scriveva a proposito: « L’aspetto più raccapricciante della nostra miseria artistica si trova nelle cosiddette accademie d’arte, che ingannano l’intero pubblico con i loro nomi pomposi e clamorosi. La parola accademia serve solo ad ingannare i ministeri, le amministrazioni locali e i genitori, e nel nome dell’accademia i giovani studenti sono deformi e malformati. […]” (1983).
Luoghi di costruzione del sé, le accademie, dove é raro incontrare il dialogo. L’assenza dell’impostazione dialogica è stata investigata dagli artisti nella costituzione di scuole d’arte alternative, con modelli pedagogici anti-autoritari e radicali. La figura che meglio riflette questa ricerca nella comunicazione è stato Joseph Beuys che, come insegnante all’Accademia di Düsseldorf, invitava anche i non iscritti a partecipare alle sue lezioni. “Bisogna rivoluzionare questi modi di vedere e pensare, perché non vanno più bene. Io mi oppongo al fatto che l’insegnante sia mero spettatore del processo evolutivo”[iii]. Dalla pratica dell’insegnamento a Düsseldorf nella seconda metà degli anni ’60 – il suo licenziamento e il processo in tribunale – fino alla costituzione della F.I.U., Freie International Universität (Libera Università Internazionale) presentata nel 1973 insieme allo scrittore premio nobel Heinrich Böll, l’artista si impegna nella contestazione normativa delle autorità accademiche, provando a riformulare le strutture educative. Beuys continua negli anni ad interrogare il «concetto ampliato di arte» anche attraverso il suo ruolo di insegnante, dentro e fuori i processi formativi e, dopo Düsseldorf nel 1971 istituisce l’Organisation für direkte Demokratie durch Volksabstimmung (Organizzazione per la diretta democrazia attraverso referendum) che porterà alla documenta 5 di Kassel: «l’Ufficio è arte» diceva Beuys e il suo allievo Johannes Stuttgen lo aveva definito come «uno spazio politico di non-arte al centro del campo dell’arte», insieme alle organizzazioni politiche, para-politiche o post-politiche promosse dall’artista nel corso della sua attività artistica. Un allontanamento dalla formula kunst= kapital con l’approccio al libero insegnamento, che si autodeterminerà così nel 1973, attraverso la creazione dell’associazione per la Libera Università Internazionale per la Creatività e la Ricerca interdisciplinare, il cui consigliere, guarda caso, era proprio Gerard Richter.
Cecilia Meroni, Solo cielo e mare (23/08-31/08/2005), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.
MANIFESTA 6
Nicosia o Lefkosia, capitale dell’isola di Cipro, è stata costruita nella Piana della Mesaoria lontana dal mare, dal quale sono approdate una serie di occupazioni che tutt’oggi dividono la sua estetica (o immagine cartografica) e il suo territorio politico e culturale: greca, veneziana, ottomana, inglese ed infine turca che nel 1974 la divise appunto, in due parti. L’attuale linea di demarcazione è chiamata Green Line e separa la parte turca a nord e la parte greca a sud. L’unica capitale europea ancora divisa oggi, venne scelta per ospitare Manifesta 6 trovandosi geograficamente fra tre continenti. É così che la giovane biennale d’arte contemporanea nomade, nata nel 1996, in risposta ai cambiamenti politici ed economici che avevano come obbiettivo comune quello dell’integrazione europea, si proponeva come supporto per l’espansione di una rete di professionisti dell’arte in tutta la regione coinvolta[iv].
L’esperimento, in cui «nulla si crea e nulla si distrugge », condotto dai curatori Mai Abu ElDahab [v], Anton Vidokle [vi] e Florian Waldvogel [vii] proponeva di costituire una non definita School as Exhibition. “Uniti nella differenza” come cita lo slogan di Manifesta e inseriti in un contesto problematico, ritrovato durante le ricerche di Vesna Madžoski nell’Archivio, attraverso scambi di posta elettronica:
“E naturalmente riguarda la posizione che si trova tra il vero Occidente e il vero Oriente. Per non parlare del bellissimo clima meridionale e dei siti storici. (…) La scelta è molto difficile tenendo presente che Manifesta 6 in entrambe le città, a Tallin e Nicosia, potrà essere una conferma metaforica dell’espansione europea della cultura dell’UE”[viii].
La struttura della School as Exhibition seguiva quella che è stata definita come la «didactic turn in the curatorship» [ix] ed era costruita tramite il coinvolgimento di 90 allievi selezionati da tutto il mondo fra i quali: Boris Groys, Martha Rosler, Liam Gillick, Martin Beck, etc., suddivisi in tre dipartimenti capitanati dai curatori della Manifesta 6 e dai loro assistenti. All’interno dei dipartimenti ogni curatore doveva idealmente inventare insieme agli allievi una nuova didattica e impartire le proprie lezioni attraverso un approccio trans-inter-multi-disciplinare. Dodici settimane in cui i rappresentanti del mondo dell’arte contemporanea chiudevano le porte al pubblico e si ritrovavano in un luogo non precisato.
Manifesta 6 era dunque, citando Madžoski: “La decisione dei curatori di creare una scuola, e di escludere l’attenzione a concentrarsi sulle specifiche circostanze storiche e politiche di quest’isola, ha trasformato la loro impresa in una vacanza che avrebbe potuto aver luogo in qualsiasi altro posto “esotico” della Terra. Così com’era, la decisione di interrompere oggetti d’arte ha anche cancellato qualsiasi possibilità di una riflessione critica sulle circostanze in cui Cipro si trovava”.
Seguendo il testo di Wandvogel Each one teach one era chiaro che nella struttura d’integrazione comunitaria e sociale i curatori di Manifesta 6 avevano incluso la parte turca e quella greca, ma non quella britannica. Il programma scolastico dell’exhibition-talk doveva avvenire in un quadro senza cornice perché la partecipazione alle lezioni era gestita tramite connessione internet. Un luogo privo di geografie – ? – e all’interno del quale lo studente – e il visitatore? – poteva seguire i corsi e partecipare alle discussioni. All’interno di questa architettura fatta di connessioni, classiche impostazioni accademiche standard, tra cui segreteria e biblioteca, si sentiva un’atmosfera da college americano, data anche dalla radio Manifesta School, ovviamente tutto in lingua inglese.
Camiel van Winkel sottolineava come: “questa generazione di curatori allude a malapena al fatto che la curatela consiste nel mostrare le opere d’arte a un pubblico; essi sembrano essere più interessati ad altri aspetti del proprio lavoro […]. Questo spiega anche perché il desiderio di generare esperienza estetica sia completamente assente dal discorso di Manifesta. I curatori vedono l’esperienza estetica come statica e il processo di dialogo e lo scambio creativo – quindi le dimensioni sociali dell’opera d’arte – svoltare verso l’interno ed evaporare” [x].
Attorno a questa gravità della rete doveva ruotare il sistema didattico della Manifesta del 2006 che citando Wandvogel sarebbe stata: una lotta auto-organizzata per le libertà culturali, un possibile sviluppo per modelli risolutivi, un significato politico assegnato alla vita quotidiana della gente comune, una fonte d’esame per i meccanismi attraverso i quali le persone esperiscono le strutture culturali, una revisione critica del concetto di cultura, un collegamento per tutti i contesti del sapere, etc…
La «scuola delle scuole» avrebbe potuto dunque segnare il destino accademico di tutte le istituzioni di Belle Arti del pianeta, eppure per motivi mai ben chiariti non è potuta avvenire.
Dopo il fallimento i curatori scrissero una lettera di congedo pubblicata su e-flux, solamente Vidokle persistette nella sua impresa didattica e, alla fine del 2006, a Berlino aprì Unitednationplaza dove alcuni degli artisti e intellettuali, convocati in precedenza per la Manifesta 6, diedero il loro contributo.
[Giada Olivotto]
Mauro Valsecchi, Goodbye Margaret, polvere di pigmento su carta, 2018.
SCHOOL’S OUT. La cancellazione di Manifesta 6
«La scelta di Nicosia – la città è divisa in due – è stata dettata dalla sua complessa identità, che l’Occidente definisce come il limite geografico estremo dell’UE. Al tempo stesso, il passato di Nicosia rivela un rapporto molto stretto col Medio Oriente ma continua coscientemente a mantenere la propria identità, dopo duecento anni di coesistenza con i suoi invasori. […] Nicosia è colta in un processo di ri-identificazione e riconciliazione con i suoi vicini più prossimi. Manifesta 6 a Nicosia è da intendersi come una sfida per Manifesta a rinnovarsi sotto diversi aspetti, a cambiare la propria struttura e a creare una relazione più stretta con la comunità artistica mettendo l’accento su necessità educative a lungo termine. L’aspetto di diversità culturale è molto presente nella regione perciò giocherà un ruolo decisivo nel ripensare a una futura integrazione europea» [xi]. Con queste parole Hedwig Fijen dichiarava la posizione di Manifesta e dell’Europa, non solo territoriale e geografica, che sfrutta il suo margine estremo per sporgersi a osservare l’Altro. Così se per la sesta edizione del 2006, la città di Nicosia era scelta come host battendo Tallin, questa decisione era anche la conferma metaforica dell’espansione europea e della sua cultura. La politica della cancellazione nel sistema dell’arte è un raffinato meccanismo che induce a pensare che ciò non possa più avvenire, o meglio, che questo possa avvenire solo in Stati e contesti geo-politici sottoposti a censura, e che il periodo dei grandi movimenti ideologici del Novecento, essendosi oramai affievolito, abbia reso l’arte libera. L’arte e la politica sono sistemi che si elidono e sono l’uno lo specchio dell’altro se li analizziamo dal punto di vista del loro funzionamento, come istanze avanzate del neoliberismo.
La decisione presa il 6 giugno 2006 in seno a Nicosia for Art (il nucleo di coordinamento dell’evento congiuntamente alla Manifesta International Foundation) di allontanare definitivamente dal progetto i tre principali curatori Mai Abu ElDahab, Anton Vidokle e Florian Waldvogel diede un deciso colpo all’intera organizzazione, procurando una lacerazione che non si sarebbe più rimarginata[xii].
La motivazione assunta dalla città di Nicosia per fermare i lavori era di tipo amministrativo-burocratico; naufragò così quello che avrebbe dovuto essere l’obiettivo principe della manifestazione, ossia offrire ampie possibilità di dialogo tra pubblico/artisti/sistema dell’arte e le due parti divise (e lacerate) della città, quella turca e quella cipriota. Il piano di Manifesta era decisamente ambizioso; purtroppo, le relazioni tra le parti contrapposte erano compromesse dal 1974, quando la cosiddetta Linea Verde era servita da spartiacque tra i territori dell’una e dell’altra nazione, e riporre speranze nell’arte come elemento di confronto unificante fu una ingenua utopia di matrice modernista.
Le parole con le quali Anton Vidokle definì il disegno nato nei primi anni novanta sono particolarmente efficaci per delinearne il profilo: “Manifesta è un’istituzione culturale piuttosto fragile, non le Nazioni Unite”[xiii].
L’edizione di Manifesta 6 poggiava le proprie fondamenta sull’idea di scuola intesa come ambito in cui è il confronto a essere il soggetto preminente e la dialettica tra le parti la sua arma vincente, abolendo la parte espositiva sulle opere d’arte. Per fare questo, i tre curatori avevano preso la decisione di “rimuovere” per l’occasione le divergenze tra i due Paesi, evitando le questioni storico-politiche più conflittuali, in favore di un edificio neutrale (l’obsoleta concezione dell’autonomia estetica). Ma, come sottolineato da Vesna Madzoski “abortire le opere significa abortire qualsiasi possibilità di lettura critica del contesto” [xiv], e quindi le basi del progetto risultavano già minate in partenza. In aggiunta, subentrò anche un aspetto di natura prettamente economica: una parte dei finanziamenti destinati al progetto sarebbero stati drenati dalla parte meridionale Turca, destinata ad ospitare una nuova sezione della scuola.
Carmine Agosto, Brexit, flag, 2017.
La natura nomade della biennale europea aveva scelto un contesto che si affacciava su uno scenario ideale: la Repubblica di Cipro aveva fatto il suo ingresso nell’Unione europea nell’aprile 2004 e la Turchia si apprestava alla sua candidatura per diventarne nuovo membro, con i negoziati già prossimi ad affrontare il “capitolo culturale”.
Le ragioni ufficiali della cancellazione erano state il rifiuto della parte della Grecia di supportare finanziariamente una parte della scuola che doveva aver luogo nella zona turca della città.
“È emerso un conflitto tra Manifesta e Nicosia for Art Limited (NFA). Manifesta sostiene che l’NFA, un’entità giuridica speciale creata dai rappresentanti della Municipalità di Nicosia e dal Ministero della Cultura e dell’Istruzione cipriota per amministrare Manifesta 6 nell’autunno 2006, non abbia adempiuto ai suoi obblighi contrattuali di assicurare le sedi selezionate dai curatori in tutta la città, cioè nella Nicosia settentrionale e meridionale ” – come era riportato nella comunicazione mediatica di allora. Così la principale preoccupazione che ha dominato i discorsi ufficiali sul dibattito intorno alla cancellazione di Manifesta 6 era stata la totale insistenza sul fatto che la causa del “misunderstanding” doveva essere rintracciata nel contesto locale. «Il conflitto tra la parte greca e quella turca era costantemente al centro dell’attenzione, ma ciò che restava nascosto per tutto il tempo era il fatto che Cipro fosse in realtà divisa in tre parti: quella greca, quella turca e quella inglese. Da questa prospettiva l’indipendenza conquistata da Cipro nel 1960 dovrebbe essere percepita come il momento in cui sono iniziati tutti i problemi» [xv].
Lo sguardo odierno è facilitato a cogliere vantaggi, svantaggi ed incongruenze proprio attraverso una visione diacronica, e critica, non possibile allora, in cui la lente utilizzata era di tipo sincronico e risulterebbe difficile accettare l’ostracismo applicato alle opere d’arte come mezzo interpretativo dei problemi socio-politico-culturali da cui è di volta in volta la sfera pubblica è attraversata.
Quindi, l’esposizione -per così dire- sarebbe stata la scuola stessa e l’analisi dei corsi proposti a destinatari (che non furono mai individuati), ma che avrebbero potuto frequentare un ventaglio relativamente ampio di programmi educativi finalizzati a fornire le basi per un progresso intellettuale, partendo dalla produzione culturale-politica e dando gli strumenti critici per muoversi con maggiore autonomia e libertà all’interno degli ambiti sociali. Fu una questione affrontata con attenzione alla parte teorica, mentre mancò quasi totalmente la parte pragmatica.
«La decisione dei curatori di formare una scuola ed escludere tutte le circostanze storiche e politiche dal loro focus ha trasformato Manifesta in una sorta di vacanza, attuabile a Nicosia come in qualsiasi altro posto “esotico” sulla Terra» [xvi] continua Madžoski, quella che poteva essere una grande opportunità divenne simbolo di una disfatta che coinvolse l’Europa intera. Eppure, vi è un ulteriore aspetto da prendere in considerazione: come dice il curatore Wu Hung, “una cancellazione non significa fallimento. Infatti, una cancellazione arricchisce sempre il significato di una mostra annullata: conferma la natura sperimentale della mostra e ne accresce l’impatto sulla coscienza pubblica. Conferma anche l’identità non ufficiale del curatore e degli artisti partecipanti e rafforza la loro determinazione a cambiare il sistema” [xvii].
[Emanuele Tira]
Benedetta Incerti, Irreversible, materiali d’archivio, 2018.
IRREVERSIBLE
Gli agenti dell’arte devono decostruire l’immagine che l’archivio proietta
“Nel tentativo di estrarre dall’archivio la parola greca arkh ̄e come origine degli usi attuali di questo termine, Derrida ci ricorda il suo doppio significato, o due principi in esso contenuti: principio di inizio e principio di comandamento. In base a questo, l’archivio si trova nella casa di chi comanda, che non sono solo i custodi dei documenti ma anche quelli a cui viene dato “diritto e competenza ermeneutica” che conferisce loro il potere di consegna: dell’unificazione, identificazione, classificazione e interpretazione dell’archivio (Derrida). Questa posizione significa il potere non solo sugli oggetti fisici, ma anche sul discorso storico o sul discorso dell’inizio, dell’origine basata sulle tracce materiali custodite nell’archivio. […] La posizione fisica dell’archivio può essere vista come la posizione da cui viene distribuito il potere, dando o negando il mandato simbolico a coloro che vogliono per entrare e interpretarlo” [xviii].
Benedetta Incerti, Irreversible, materiali d’archivio, 2018.
La paura della perdita radicata nell’essere umano ed incrementata nei secoli da valori psico/eco-nomici, oggi più che mai, si rispecchia nella dissipazione. Non esiste tanto più la paura di perdere qualcosa, quanto di non poterla più recuperare poiché incontrollata. L’entità incontrollata assume così un’aggettivazione dicotomica: porta con sé la paura della perdita e la forza della trasformazione. Non poter più riconoscere un volto, non riuscire ad identificare un luogo, raschiare dalla memoria visiva l’oggetto attivatore di ricordo, alterare la forma per rivoluzionare il senso primario, sfuggire ad una tradizione, scavalcare un’istituzione, scardinare il peso della conservazione, mettere in movimento dunque l’archivio.
L’archivio proprio come un corpus che “non si riduce mai alla mnémè o all’anamnésis”[xix] porta con se sempre la silenziosa “pulsione trina”[xx]che costantemente viene soffocata dall’ancor più forte pulsione di controllo e sopravvivenza. La forte valenza eco-nomica dell’archivio è pari al valore affettivo che viene proiettato sugli oggetti stessi dell’archivio. Si trattiene ciò che si ha paura di perdere o funga da surrogato di presenza di qualcosa che si ha la certezza di aver perduto e così l’oggetto viene investito di valore, la scatola archiviale tanto più ha valore, tanta più fragilità porta con sé, nella memoria. Si conserva ciò che arriva da fuori e che fisicamente non ci appartiene “Niente archivio senza un luogo di consegna, senza una tecnica di ripetizione e senza una certa esteriorità. Niente archivio senza fuori.” [xxi] Ma da dove comincia il fuori? si chiede Derrida.
La costruzione e quindi la manipolazione nella costruzione dell’archivio stesso implica un potere politico intrinseco. L’atto di costruire una memoria che si tramanderà spinge l’essere umano a intrecciare passati di sguardi inevitabilmente personali che violentemente creano uno sguardo comunitario. Ciò che siamo abituati a sfogliare con i guanti tra le pagine di documenti ingialliti dal tempo e oggetti da poter solamente guardare e non toccare non sono altro che “esposti alla distruzione” [xxii] e ciò che minaccia di distruzione, che conduce verso l’oblio [xxiii], ma persino nell’oblio – che efficacemente rimanda ad una cancellazione profonda, radicale – risiede un duplice sguardo da indagare: “può sanare ferite, sostituire parti perdute o ripassare in sé forme spezzate” [xxiv], l’oblio diretta un “diritto” , il diritto di essere dimenticati.
Persino questa irreversibilità “può ancora essere reinvestita in un’altra logica, nell’inesauribile risorsa economista di un archivio che capitalizza tutto, ivi compreso ciò che lo rovina o ne contesta radicalmente il potere: il male radicale può ancora servire, l’infinita distruzione può essere reinvestita in una teodicea, Il Diavolo può così giustificare” [xxv]. Pertanto, l’archivio è costruito su un terreno instabile che è costantemente minacciato dalle sue intrinseche contraddizioni, vale a dire il desiderio di ricordare e la spinta a cancellare la memoria. Tuttavia, questa contraddizione non è negativa, modula e condiziona la stessa formazione del concetto di archivio. Il non identificabile è nato dal vuoto, dalla possibilità che il vuoto produce, proprio come un fantasma. Questo fantasma dell’archivio autorizza tutti noi ad entrare senza il controllo dei guardiani.
Secondo Derrida, viviamo in un’epoca in cui tutti bruciamo con il desiderio di archiviare, ognuno di noi è posseduto da un mal d’archivio o da una febbre d’archivio. Un desiderio compulsivo, ripetitivo e nostalgico di tornare alle origini, di avere potere attraverso l’unicità dell’archivio che sottende un processo violento. Processo che sottolinea la sua violenza nella ripetizione. Per esistere un evento, un’istituzione, deve ripetersi, poiché l’esistenza stessa e la ripetizione dell’essere in sé generano valore, poiché l’archivio non cataloga e inscatola soltanto eventi passati, ma genera una nuova formalizzazione di archiviazione per eventi futuri.
Da sempre l’esercizio di potere e di controllo sull’archivio ha generato il controllo sul passato, sulla memoria collettiva e sulla costruzione del “concetto di storia”, ma anche il controllo sul futuro, poiché “Non si rinuncia mai, è l’inconscio stesso, ad appropriarsi di un potere sul documento, sulla sua detenzione, sulla sua ritenzione o interpretazione” [xxvi]. Irreversible non lascia spazio a riletture nostalgiche, anzi, apre nuove modalità di pensare il presente e il futuro, al concetto di “impressione” che trova proprio nel corpo della foto il palesarsi del processo violento e totalizzante dell’archivio, ma anche del gesto del grattare elementi identificabili rispetto ad un luogo, ad un contesto sociale e persino del soggetto stesso che diventa una sagoma, una forma, un fantasma.
[Roberta Riccio]
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018. ph. Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph. Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph. Daniele Marzorati.
Benedetta Incerti, Irreversible, performance con Roberta Riccio, materiali d’archivio, Naba, 2018, ph. Daniele Marzorati.
Gli interventi e le voci del glossario di Giada Olivotto, Emanuele Tira e Roberta Riccio sono tratti dal seminario (Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta che si è svolto il 18 luglio presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. La performance Irreversible di Benedetta Incerti con Roberta Riccio.
L’immagine di copertina è di Benedetta Incerti, Irreversible, materiali d’archivio, 2018.
note :
[i] Dal dizionario online Treccani
[ii] Titolo del testo di Florian Wandvogel dedicato al fallimento di Manifesta 6, scaricabile dal sito ufficiale
[iii] Stachelhaus, Joseph Beuys, Una vita di controimmagini, pag. 81, Johan&Levi, 2012.
[iv] estratto dal sito ufficiale di Manifesta
[v] Mai Abu ElDahab, nato al Cairo, vive e lavora a Brussels. É stato, dal 2007 al 2012, direttore della Objectif Exhibitions ad Antwerp, dove ha curato un programma di mostre solo show.
[vi] Anton Vidokle, nato a Mosca, co-fondatore della piattaforma e-flux, vive e lavora fra New York e Berlino.
[vii] Florian Waldvogel, nato a Offenburg, è stato, fino al 1998, assistente di Kaspar König presso l’Accademia di Francoforte
[viii] Jara Boubnova, corrispondenza per posta elettronica 12 Maggio 2004, Manifesta Archive, in Vesna Madžoski, De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement, Atropos Press, 2013, p.100.
[ix] Metropolis M, Expanded Academy, 2006.
[x] Camiel van Winkel, “The Rhetorics of Manifesta”,in The Manifesta Decade: Debates on Contemporary Art Exhibitions And Biennials in Post-wall Europe, a cura di Elena Filipovic e Barbara Vanderlinder, 2005, p.228.
[xi] How a European Biennial of Contemporary Art Began, conversazione tra René Block, Hedwig Fijen, Henry Meyric Hughes e Katalin Néray, in The Manifesta Decade, ibidem, p. 199.
[xii] Letter from former curators of Manifesta 6, 7 giugno 2006. E-flux, https://www.e-flux.com/announcements/41260/letter-from-former-curators-of-manifesta-6/
[xiii] Vesna Madžoski, “De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement”, Aborted object.
[xiv] Ibidem
[xv] Madžoski, ibidem, p.101.
[xvi] Madžoski, ibidem, p.101.
[xvii] Laura van Haaften-Schick, “Canceled: Alternative Manifestations and Productive Failures”, Paperback, 2012.
[xviii] Vesna Madžoski, “Deleted Subjects”, in De Cvratoribvs, ibidem, p.88.
[xix] Jacques Derrida, Mal d’archivio un’impressione freudiana, Filema, Napoli, 1996, pag. 22.
[xx] Pulsione di morte – Pulsione di distruzione- Pulsione di aggressione, in Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, edizioni varie.
[xxi] Jacques Derrida, Mal d’archivio un’impressione freudiana, ibidem, pag. 23.
[xxii] Jacques Derrida, Mal d’archivio un’impressione freudiana, ibidem, pag. 22.
[xxiii] Paul Ricoeur, La memoria, La storia e L’oblio, Cortina Raffaello, Milano, 2003, pag. 87-88, Ricoeur cita Nietzsche.
[xxiv] Paul Ricoeur, La memoria, La storia e L’oblio, ibidem, pag 87 -88.
[xxv] Jacques Derrida, Mal d’archivio un’impressione freudiana, ibidem, pag. 24.
[xxvi] Jacques Derrida, Mal d’archivio un’impressione freudiana, ibidem, pag. 26.
Benedetta Incerti, Irreversible, materiali d’archivio, 2018.