Le retoriche di Manifesta. (Un)pinning the butterfly

“Come è possibile tacere, censurare o cancellare i soggetti e gli oggetti che raccontano la costellazione dei rapporti economici, politici e di potere che manovrano la macchina espositiva?”

Nel 1923 Aby Warburg annotava, nei diari medici del sanatorio, la visione di una ninfa che in forma di una bella farfalla gli sfuggiva: «la più bella farfalla che io abbia mai puntato (fissato con uno spillo), all’improvviso irrompe attraverso il vetro e balla beffarda verso l’alto nell’aria blu. (…) Ora dovrei catturarla di nuovo, ma non sono equipaggiato per questo tipo di locomozione. O per essere precisi, mi piacerebbe, ma la mia formazione intellettuale non mi permette di farlo».

Così conclude Vesna Madžoski il suo testo De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement, pubblicato nel 2013, il cui nucleo centrale è costituito da una feroce disamina di Manifesta (che definisce come “lo spettacolo della cancellazione”) e che insieme a Il brand Manifesta. La versione cinica dell’exhibition making di Marco Scotini ha costituito, tra le altre, alcune delle letture da cui il seminario (Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta ha preso le mosse. Per conoscere i processi di produzione artistica anche dalla prospettiva del sistema espositivo contemporaneo, attraverso il fenomeno di biennali e large-scale exhibitions, si è tentato di decostruire, proprio a partire dal caso studio di Manifesta, la sua storia, la mission e le retoriche ufficiali che l’hanno legittimata (o auto-legittimata). E tra queste retoriche, alcune controverse questioni che Vesna Madžoski, ricercatrice di origini serbe con base ad Amsterdam, non esita a definire come “i crimini nell’archivio di Manifesta”:

  1. l’intenzione da parte di Manifesta di detenere il pieno controllo della propria immagine storica (governare le narrazioni del suo recente passato e trarre vantaggio da una sorta di “mandato” storico auto-istituito sulla propria mission, in relazione alla nuova identità europea e proteggendo qualsiasi documento che possa minare l’immagine proiettata desiderata).

Cecilia Meroni, Il sentiero di velluto (17/11/1989-01/01/1993), penna nera su carta, 21×29,7 cm, 2018.

  1. la democrazia – insieme al network for exchange e al new model of mutual cooperation – e nonostante resti ancora la metafora associata ai discorsi ufficiali e all’immagine culturale di Manifesta, a dispetto dell’apertura le è stato impedito, durante le sue ricerche di dottorato, di accedere a una parte dei documenti per la consultazione nell’archivio, di quello che indica come Forbidden Archive:

«Poiché il mio interesse principale era nelle pratiche curatoriali delle biennali Manifesta, durante la mia visita ho chiesto il permesso di guardare i documenti sulla procedura di selezione dei curatori e delle città ospitanti. Tuttavia, mi è stato negato l’accesso a questi documenti, perché, mi è stato detto che era per la “protezione dei diritti dei curatori”. Mi è stato concesso un accesso limitato alla corrispondenza e-mail tra i membri del consiglio di amministrazione sulla selezione dell’ultima città ospitante, Nicosia a Cipro».

Manifesta ha dedicato sé stessa allo sviluppo di un gioco linguistico, quello delle «open-ended, democratic procedures», così Camiel van Winkel argomenta la costruzione retorica del successo di Manifesta, nei discorsi dominanti e nell’auto-rappresentazione dell’immagine pubblica della biennale, dove la metafora dei principi e postulati democratici è sempre accompagnata a quella del network [van Winkel, 2006:220].

 

  1. la preistoria di Manifesta non è mai stata resa pubblica, come la stessa direttrice Hedwig Fijen ribatteva a una domanda provocatoria: “La preistoria di Manifesta non è per nulla nebulosa, tuttavia non è mai stata messa per iscritto e resa disponibile al pubblico”. Perché queste omissioni? Non era Derrida a sostenere che non c’è potere politico senza controllo dell’archivio? Controllo non solo fisico ma anche dell’ordine del discorso storico – mai reso visibile nemmeno quando i curatori di Manifesta 4 fecero dell’archivio stesso un oggetto espositivo (definito un “monumento amministrativo”, van Winkel, 2005). E a dispetto di quello che sostiene Barbara Vanderlinden, una delle due curatrici della corposa pubblicazione Manifesta Decade, l’archivio è in grado di dare “un atto di ri-esperienza” anche a chi non ha mai visto le mostre[i].

 

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, veduta installazione con bandiere di Carmine Agosto, ph. Daniele Marzorati.

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, veduta installazione con bandiere di Carmine Agosto, ph. Daniele Marzorati.

“Il brand Manifesta, con una donna come imprenditore, ha il suo quartier generale nel cuore dell’Europa, in quella stessa regione olandese che incorpora, con Maastricht, la sede storica del Trattato dell’Unione europea del 1992. Non a caso lo slogan del brand Manifesta è, fin dall’origine, quello di essere un evento artistico «pan-europeo».

La definizione di «brand» nel caso di Manifesta allude alla duplice capacità simultanea di produrre identità ed estensibilità geografica. Con il brand abbiamo la rappresentazione della dimensione territoriale del processo di valorizzazione che un’impresa di «merci simboliche» come Manifesta promuove. La potenza e l’intensità comunicativa devono tenere insieme le più diverse piattaforme socio-economiche che ogni due anni vengono assorbite all’interno del processo produttivo”[ii].

Con queste parole, Marco Scotini ha parlato del «brand Manifesta» definendola come un’impresa post-fordista dell’Unione Europea, insieme alla gestione dei molteplici episodi di governo dei pubblici dentro al fenomeno della ‘biennalizzazione’ della macchina espositiva che rappresenta meglio di ogni altro il sistema attuale, quel presidio sul tempo che la sua periodicità garantisce: macchine estrattive di valore e di denaro che fissano proiezioni, desideri e sistemi di attese, creano un alto numero di pubblici, sono il motore dell’industria del turismo e del marketing urbano nella logica dell’economia evenemenziale.

“Manifestology”[iii] è il neologismo con cui Marina Gržinić propone di pensare alla biennale europea: la genealogia di una specifica condizione capitalista globale che produce questo tipo di esposizioni, suggerendo non solo di rintracciarne le origini e le sue connessioni con l’Unione Europea, ma anche di indagare l’emersione di specifici discorsi e piattaforme espositive in rapporto con il capitale, il mercato dell’arte, in quanto punta avanzata del neoliberismo e le condizioni di lavoro precarie.

Timeline, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, ph. Kim Yoogin.

Timeline, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, ph. Kim Yoogin.

 

Manifesta, la Biennale “pan-europea”, itinerante, nomadica e trans-nazionale, nasceva nel ‘92, su iniziativa del governo olandese, come piattaforma per gli scambi culturali tra i nuovi paesi europei unificati dopo l’89 e in risposta ai cambiamenti politico-economici avvenuti con la fine della Guerra Fredda e con l’integrazione europea. Il progetto avrebbe dovuto tenere conto del cambiamento generato dalla caduta del Muro mentre sul piano artistico, dello smantellamento della Biennale di Parigi (dopo il 1985) e la cancellazione di Aperto alla Biennale di Venezia. Nel 1992 si costituì la European Art Manifestation o EAM, composta da membri olandesi e strutturata secondo il modello Open Society Institute. La prima edizione di Manifesta si tenne a nel 1994 a Rotterdam. Ma il carattere nomadico richiedeva un’infrastruttura amministrativa centralizzata e permanente (International Foundation Manifesta con base fisica e sede legale ad Amsterdam creata nel 1999).

Nel primo decennio di Manifesta, la curatela indipendente è diventata un «full-blown institutionalized affair», la logica istituzionale e l’auto-rappresentazione ufficiale richiedeva che i curatori fossero selezionati per la loro indipendenza e autonomia, oggi potremmo dire ‘apparenti’, così “il discorso di Manifesta è principalmente un metadiscorso, ossia un discorso su Manifesta stessa, intorno al network e al curating, alla negoziazione culturale delle differenze” [van Winkel, 2005:223].

Timeline, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, ph. Kim Yoogin.

“Ci si chiede cosa sia così pioneristico nel suo cosiddetto nuovo modello di pratica espositiva, al di là del fatto che si consolida come un’estensione della politica culturale di Bruxelles” e “complice dell’attuale scomparsa ufficiale degli immigrati in Europa dalle sue istituzioni culturali” [Enwezor 2006: 184]. La dodicesima edizione di Manifesta ha inaugurato a Palermo e in questi giorni i resoconti della stampa italiana e internazionale associano la manifestazione artistica all’ordine del discorso umanitario e alle vicende dell’Acquarius, la chiusura dei porti e il ruolo delle Ong, il razzismo aggressivo salviniano e le dichiarazioni del sindaco di Palermo Leoluca Orlando. L’immagine dell’accoglienza negata è l’immagine dell’Europa che Manifesta rappresenta. Ma a parte i toni entusiasti dei portavoce locali, che ne sono largamente finanziatori, con quali strumenti si giudica il successo di Manifesta? Perché sono scomparse dalle narrazioni ufficiali le tracce della sua storia?

Timeline, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, ph. Kim Yoogin.

Il modello finanziario, come il processo di candidatura e selezione delle città ospitanti è simile a quello dell’assegnazione delle Olimpiadi o di manifestazioni come Expo: “Costruita come una manifestazione la cui esistenza economica dipende in gran parte dal budget dell’host locale, Manifesta è stata presto trasformata in un’impresa economica e un marchio da desiderare e per cui competere per la maggior parte delle città europee, che ambiscono a promuovere la propria immagine “positiva” ed europea nel più ampio ordine politico e culturale. Da questa prospettiva, Manifesta assomiglia più a un virus […]” [Madžoski, 2013:100].

O ancora:

“Ciò che distingue questa pratica dal vecchio atteggiamento coloniale è la sua complicità: all’interno di questa costruzione, l’host partecipa volontariamente pagando a caro prezzo per i benefici ricavati dal virus che ospita. Messi al lavoro entro i limiti di questa costellazione, i curatori si rivelano nient’altro che turisti culturali, che alla fine del processo portano a casa la propria immagine, proiettata su diversi contesti locali” [Madžoski, 2013:100]. Infine, perché, nonostante la retorica dello scambio con l’Est Europa, a parte Ljubjana nessun’altro Stato del Patto di Warsavia ha mai ospitato un’edizione di Manifesta?

Madžoski si riferisce, nella parte conclusiva e in un paragrafo significativamente intitolato Manifesta Democracy Revised, a quella che Yosefa Loshitzky ha definito “l’immagine iconica della Fortezza Europa”, raccontando la scena della piscina del film Journey of Hope (1990) che narra le tragiche vicende di una famiglia turca che tenta di entrare illegalmente in Svizzera; congelati e affamati, appena sopravvissuti a una tempesta di neve, i rifugiati bussano disperatamente alle finestre con doppi vetri di una calda piscina coperta all’interno di un hotel termale alpino. Vedono il proprietario dell’hotel che nuota in piscina, ma a causa delle pareti di vetro insonorizzate, non riesce a sentire le loro grida disperate. La voce è scomparsa, il doppiovetro insonorizzato nega ogni possibilità di comunicazione e richiesta di aiuto, i subalterni urlano ma nessuno li sente. Così avviene per le opere d’arte, con una sorta di analogia di “tolleranza”: “le opere si trovano sul piedistallo, ma sono protette da un doppio vetro che non ci permette di sentire la loro voce. La censura non significa più distruzione o cancellazione radicale di opere d’arte; piuttosto, le stesse opere sono trasformate in illustrazioni di sfondo, nelle immagini di un wallpaper su cui non si può riflettere”. La scena della piscina potrebbe essere una metafora della posizione degli artisti, dentro queste enormi ed economicamente vantaggiose macchine governamentali (biennali, festival, fiere) che possono anche affrontare stringenti questioni sociali ma chi potrà udire la loro voce? E infine, come recitava il primo statement dell’Advisory Board scritto per Manifesta 1: Why another Biennal called Manifesta?

[Elvira Vannini]

Carmine Agosto, Cleaning Europe, flag, 2017.

TO BRIDGE THE GAP. La storia di Manifesta

Se molte delle biennali (come Istanbul o Sidney) nascono a partire da progetti essenzialmente di natura privata, Manifesta venne creata agli inizi degli anni ’90 come un’esposizione itinerante e nomadica, su iniziativa del governo olandese. Nel dipartimento culturale del Ministero degli Esteri si può rintracciare il germe di Manifesta – scrive René Block tra i membri dell’Advisory Board della prima edizione – non da parte del ministro dell’istruzione ma dall’idea di due appassionati d’arte come Gijs Van Tuyl e Els Barents che lavoravano nell’Ufficio olandese per le Belle Arti – diretto al tempo da Robert de Haas – e che intendevano reagire alla svolta reazionaria e conservatrice nel sistema espositivo internazionale che aveva portato allo smantellamento della Biennale di Parigi (dopo il 1985) e alla chiusura definitiva di Aperto – sezione della Biennale di Venezia dedicata ai giovani artisti. Il nuovo progetto artistico europeo in Olanda avrebbe dovuto tenere conto del cambiamento generato dalla caduta del Muro per creare un format di Biennale che potesse rispondere ai bisogni della nuova situazione europea e rifletterla in termini di politica culturale, con una struttura che si differenziasse da quella dei large-scale exhibition events.

Nel 1992 De Haas chiese all’attuale direttrice Hedwig Fijen di sviluppare una fondazione indipendente, rispetto all’Ufficio per le Belle Arti, dedicata alla creazione della biennale, così nel 1992, nasceva la European Art Manifestation o EAM e composta da membri olandesi.

Nel 1993, inoltre, l’Ufficio per le Belle Arti fu costretto, a causa di cambiamenti nella policy del governo olandese, ad abbandonare la propria funzione di presentazione e rappresentanza dell’arte olandese all’estero. Le finalità artistiche di Manifesta vennero definite dai primi e successivi quattro incontri del Board.

La prima ipotesi di titolo doveva essere Jeugd Biennal (una traduzione olandese della biennale per i giovani di Parigi) poi si passò a European Manifestation e fu René Block, infine, a proporre il titolo Manifesta nel 1994[iv], che conteneva le due accezioni lessicali di “manifesto”, nel senso di rendere il presente visibile, con l’aspetto nomadico derivante dalla radice movēre, insieme all’associazione del “manifesto” come strumento programmatico nella tradizione avanguardistica.

Manifesta nasce in risposta al cambiamento politico, economico e culturale avviatosi alla fine della Guerra Fredda, con il desiderio di reagire alla nuova situazione politica che si era creata in Europa dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica. L’esposizione ha preso avvio a Rotterdam nel 1996 e si è caratterizzata per la sua peculiarità nell’affrontare tematiche legate alla costruzione delle diverse identità che formano l’immagine della Nuova Europa. Dopo l’esordio ad Amsterdam, dove si trova la sede principale dell’omonima fondazione, le successive edizioni si sono svolte sempre in città diverse: Lussemburgo (1998), Lubiana (2000), Francoforte (2002), San Sebastian (2004), Nicosia (2006), Trentino-Alto Adige (2008), Murcia (2010), Genk (2012), San Pietroburgo (2014), Zurigo (2016), Palermo (2018).

Nel 1980, scrisse René Block a proposito dell’idea di rendere itinerante l’esposizione: “ancor prima della caduta del muro, l’artista francese Rober Filliou ebbe l’idea di creare una biennale che avrebbe viaggiato in tutte le parti d’Europa, con il nome di Art of Peace Biennal. La sua prima edizione aprì ad Amburgo con il titolo Approaching a Biennal of Peace e la tappa successiva doveva essere Amsterdam ma non ebbe seguito dopo la morte di Filliou nel 1987”[v].

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, veduta installazione con bandiere di Carmine Agosto.

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, veduta installazione con bandiere di Carmine Agosto, ph. Daniele Marzorati.

Manifesta è un’istituzione creata sulla base di una critica alle istituzioni [vi]. Secondo lo statement del 1996, le biennali non erano più in grado di rispondere ai cambiamenti sociali, politici e culturali dopo il collasso del patto di Varsavia nel 1989, viene quindi fondata come alternativa alle biennali tradizionali di Venezia e Documenta. L’esposizione di Manifesta pensa a sé stessa come ad un organismo in costante cambiamento e questo insieme all’aspetto nomadico e ai curatori internazionali, sono caratteristiche che la differenziano dalle biennali tradizionali; la criticità è che questi eventi periodici e su vasta scala, a metà tra la fiera d’arte e il sacro sanctum del museo, finiscono per nascondere i problemi reali dietro l’accecante carosello della macchina espositiva (che Camiel van Winkel definisce come the bedazzling merry-go-round[vii]).

Manifesta è stata immaginata come una biennale limitatamente istituzionalizzata, con la collaborazione di artisti e professionisti provenienti da luoghi geografici diversi e con l’intento di instaurare un dialogo tra artisti, curatori e pubblico (tra le parole d’ordine presenti nella mission: network for exchange, new model of mutual cooperation, collaborative working platform, international dialogue, etc.). Il ruolo del curatore è fondamentale infatti la kermesse è stata definita come un “curator affair”[viii], Manifesta non ha mai adottato il modello di un singolo direttore artistico ma piuttosto ha creato una piattaforma di lavoro collaborativa. L’idea era di riunire curatori provenienti da diverse parti d’Europa e che possedessero un tipo di preparazione eterogenea in modo da produrre nuove prospettive e metodologie di lavoro. La curatrice slovena Nataša Petrešin-Bachelez afferma che Manifesta è più che un’esibizione, è un’interfaccia potenzialmente produttiva tra il mondo dell’arte internazionale e locale. La questione su quanto sia produttiva questa connessione tra arte internazionale e locale ha portato a una serie di reazioni. Da qui l’’idea di un gruppo di artisti di Rotterdam nel realizzare un progetto chiamato “NEsTWORK”[ix]. Lo scopo del progetto era quello di creare un’interazione tra gli artisti locali di Rotterdam e gli artisti stranieri che avevano preso parte a Manifesta. L’intento era quello di concepire un lavoro che funzionasse oltre la durata dell’evento e ciò fu l’unica cosa che venne ricordata a distanza di anni. I nomi degli artisti coinvolti, i progetti artistici presentati, le questioni affrontate durante il dibattito, tutto venne dimenticato.

* To bridge the gap: letteralmente significa “colmare la distanza” e si riferisce a uno degli aspetti fondativi di Manifesta, quello di creare un network e soprattutto, dopo la caduta del Muro, di creare punti di contatto tra le varie parti di Europa.

[Beatrice Mantovani]

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, veduta installazione con bandiere di Carmine Agosto.

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018.

Il seminario (Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta, da cui si sono sviluppati i termini del glossario e i contributi visivi e testuali, si è svolto durante il corso di Allestimento II tenuto da Elvira Vannini con gli artisti e curatori del II anno del Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali di Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Con testi di: Antonia Algeri, Lisa Barbieri, Giulia Carletti, Veronica Franzoni, Maria Teresa Lattarulo, Carolina Mancini, Beatrice Mantovani, Giada Olivotto, Laura Pessina, Roberta Riccio, Daniela Sangiorgio, Emanuele Tira.

Nel 1989 inizia simbolicamente il conteggio del tempo di Manifesta e può essere letto come un momento traumatico nel discorso dell’arte occidentale, come un momento di grandi cambiamenti politici e sociali nel recente passato europeo. Gli artisti hanno realizzato una timeline dedicata ai fatti e alle figure selezionate dal mondo dell’arte e dalla politica dopo il 1989.

Timeline: Isabella Boghetti, Federico Catagnoli, Kim Yoogin, Cecilia Meroni, Mauro Valsecchi |||| Performance: Benedetta Incerti con Roberta Riccio |||| Installazione: Carmine Agosto |||| Mappa delle Biennali nel mondo: Oliviero Fiorenzi e Maria Chiara Baccanelli |||| Concept grafico: Ilaria Pittassi con Edoardo Manzoni.

 

L’immagine di copertina è di Benedetta Incerti, Irreversible, materiali d’archivio, 2018.

note:

[i] La pubblicazione offre un’ampia panoramica storica e un’analisi delle influenze che Manifesta ha avuto in passato, incluso, come capitolo finale, anche una panoramica sull’archivio, in The Manifesta Decade: Debates on Contemporary Art Exhibitions And Biennials in Post-wall Europe, a cura di Elena Filipovic e Barbara Vanderlinder, 2005, p.232.

[ii] Marco Scotini, “Il brand Manifesta. La versione cinica dell’exhibition making”, da Artecrazia: Macchine Espositive E Governo Dei Pubblici, 2016.

[iii] “Suggerisco di adottare qualcosa come quella che Beatriz Preciado definisce la specifica genealogia del potere, del corpo e dell’analisi dei legami col capitale. Nel suo testo “Gender and Performance Art” (2004), Preciado chiama “genderology”, una genealogia del campo del genere allo scopo di comprendere l’istituzione del potere capitalista che la esercita e la cannibalizza (e l’antopologia riguarda appunto la genealogia)”. Da cui segue il ragionamento che definisce come “Manifestology”, Marina Gržinić, in commento al testo di Thomas Boutoux, “A tale of two cities: Manifesta in Rotterdam an Ljubljana”, in Manifesta Decade: Debates on Contemporary Art Exhibitions And Biennials in Post-wall Europe, a cura di Barbara Vanderlinden, Elena Filipovic, MIT Press, 2005, p.207.

[iv] René Block, in How a European Biennial of Contemporary Art Began, conversazione tra René Block, Hedwig Fijen, Henry Meyric Hughes e Katalin Néray, sulla creazione di Manifesta, la sua storia e i personaggi del sistema dell’arte che hanno giocato un ruolo cruciale, contenuta in The Manifesta Decade: Debates on Contemporary Art Exhibitions And Biennials in Post-wall Europe, a cura di Elena Filipovic e Barbara Vanderlinder, 2005, pp. 192.

[v] René Block, in How a European Biennial of Contemporary Art Began, ibidem, p. 195-196.

[vi] Camiel van Winkel, “The Rhetorics of Manifesta”, in The Manifesta Decade, ibidem, pp.219-228.

[vii] Camiel van Winkel, ibidem, p.219.

[viii] Thomas Boutoux, “A Tale of Two Cities”: Manifesta in Rotterdam and Ljubjana, in The Manifesta Decade, ibidem, pp.208-209

[ix] Thomas Boutoux, “A Tale of Two Cities”, ibidem, p.209; tra gli artisti c’erano Jeanne van Heeslwijk, Wapke Feenstra e Karin Arink.

Carmine Agosto, H DOCUMENTA fuck off, intervento su poster, documenta 14, Atene, 2017.

 

 

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