What is the sound of _____________?

di Giulia Mengozzi.

 

Quello che segue, a farvi compagnia per oltre 33300 battute, è un testo tratto dalla mia tesi di laurea magistrale in Arti visive e studi curatoriali, conseguita nell’ormai lontano 2014. La tesi si intitolava Pianissimo / Fortissimo ed era dedicata all’uso della voce collettiva nelle arti visive, nella musica e negli spazi interstiziali tra arti visive e musica, assumendo l’opera di Luigi Nono come punto di partenza. All’analisi di certi aspetti de La Fabbrica Illuminata, avevo scelto di affiancare alcuni casi studio relativi alle strategie di inclusione di figure estranee all’ambito artistico nel processo di produzione e messa in atto di un lavoro e, viceversa, del diretto coinvolgimento di un’operazione artistica nel frame di specifiche contingenze politiche e sociali. Passando dalle esperienze di Officine Schwartz e Test Dept, ero infine approdata all’esempio degli Ultra-red. Il termine ‘gruppo’ è, in effetti, una semplificazione di quel che andrebbe definito come un network di artisti, musicisti, ricercatori, attivisti e persone qualunque: un insieme dinamico ed eclettico, che, negli anni, vede avvicendarsi una numerosa serie di figure legate alle lotte nell’ambito dell’immigrazione, dell’anti-razzismo, dello spazio pubblico, della globalizzazione e delle politiche concernenti l’emergenza dell’AIDS.
Ho pensato che il workshop ultra-dergano: laboratorio di investigazione sonora con gli ultra-red, organizzato da standards, potesse costituire una buona occasione per rispolverare questo scritto un pò datato e provare a raccontare un pezzetto della storia di un’esperienza artistica e politica così importante.

Vorrei menzionare brevemente lo scritto dedicato alla genesi del progetto, Introduction: noise and public space three years later, nel quale gli Ultra-red riflettono sul giudizio ‘quasi escatologico’ che Adorno applicava alla musica. Lo riassumono, sostanzialmente, nell’idea che la musica sia vincolata a riflettere le tendenze storiche insite alle sue condizioni materiali, senza contraddizioni. Per gli Ultra-red, queste osservazioni corrispondono esattamente al punto in cui risiede – per i musicisti, in quanto attori sociali – il potenziale di rottura del monopolio dei significati, universalmente detenuto dal capitale, attraverso la radicale trasformazione dei paesaggi sonori della vita di ogni giorno. Forse, scrivono, questa forma mentis generativa ed ottimistica deriva proprio dalla loro esperienza di attivisti: «eravamo musicisti e promoters di un club, prima ancora che teorici. Ed eravamo attivisti (così come dimostra la nostra fedina penale), ancor prima che promoters». Così lo scopo degli Ultra-red si determina non in virtù della produzione di oggetti (dischi o oggetti artistici che siano, nello scritto vi si fa riferimento utilizzando esplicitamente il termine commodities), ma, piuttosto, della produzione di spazi. Spazi sociali, relazionali e politici, definiti dalla presenza di specifiche lotte e sensibilità. Collettivamente, il gruppo Ultra-red produce programmi radiofonici, performance, registrazioni, installazioni, testi ed azioni nella dimensione dello spazio pubblico. Esplorando lo spazio acustico come enunciato delle relazioni sociali, gli Ultra-red creano una mappa acustica dei territori di contestazione e delle relative storie, focalizzando le loro ricerche sul dato sonoro (auto-definite Militant Sound Investigations, che potremmo tradurre come inchieste sonore militanti) e toccando direttamente, in questo processo, l’organizzazione e l’analisi delle lotte politiche.

 

Secondo il governo messicano, l’identità celata dall’iconico passamontagna del subcomandante Marcos, rivoluzionario portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, sarebbe quella di Rafael Sebastián Guillén Vicente. Probabilmente la risposta alla domanda chi è Marcos?, costituisce un dato di fondamentale importanza per le autorità.  Quanto a coloro che, nel corso degli anni, si sono mostrati solidali con la causa del movimento zapatista, la questione risulta pressochè politicamente irrilevante. Già nel 1994, anno della prima insurrezione armata nel Chiapas, Marcos scriveva di essere «un gay a San Francisco, nero in Sudafrica, un asiatico in Europa, un Chicano a San Ysidro, un anarchico in Spagna, un palestinese in Israele, un indio maya negli stretti di San Cristobal, un ebreo in Germania, uno zingaro in Polonia, un mohawk in Quebec, un pacifista in Bosnia, una donna sola in metropolitana alle dieci di sera, un contadino senza terra, un membro di una gang in una baraccopoli, un operaio senza lavoro, uno studente infelice e, naturalmente, uno zapatista sulle montagne. In altre parole» conclude, «Marcos è un essere umano di questo mondo. Marcos è tutte le minoranze rifiutate e oppresse, resistendo, esplodendo, dicendo ‘Ora basta!’[i]».

Il subcomandante non è mai stato il comandante. Il prefisso ‘sub’ stava lì a testimonianza della sua volontà di rimanere al di sotto del popolo. Con un comunicato diffuso lo scorso 24 Maggio, Marcos ha annunciato il suo ritiro dalle scene, la morte simbolica del personaggio. Non ce n’è più bisogno: «esiste una nuova generazione che può guardarci in faccia e ascoltarci e parlarci senza attendersi né na guida, né una leadership [ii]». La storia del movimento zapatista comincia ben prima del 1994, gettando le proprie radici nella storia delle popolazioni native messicane e nelle lotte portate avanti nel corso dei secoli. Nondimeno, la plateale ‘presa’ di cinque comuni del Chiapas dell’EZLN, il primo gennaio del 1994, avviene in concomitanza con l’entrata in vigore del North American Free Trade Agreement. Erano gli anni in cui i movimenti di resistenza andavano travalicando i confini dei singoli paesi, a fronte della necessità di ricollocare le istanze e le necessità locali in un movimento dall’afflato internazionale. In molte parti del mondo, di lì ad una manciata di anni, si è sentito l’eco del grido ¡Ya basta!, lanciato nel 1994 dall’EZLN.

Le stesse parole riecheggiavano nel titolo della traccia audio (Esta gran humanidad ha dicho) ya basta!, pubblicata nella compilation Clicks & Cuts (Mille Plateaux, Gennaio 2000). Il pezzo, composto da materiali sonori registrati nella sede della World Bank di Washington, era dedicato all’organizzazione 50 Years is Enough, realtà locale di opposizione alla World Bank e all’International Moneray Fund, le cui brutali politiche di austerità favorivano il capitalismo globale a discapito dei più basilari diritti umani. Autori del brano, il gruppo di audio-attivisti Ultra-red, formato a Los Angeles nel 1994.
Le indagini del gruppo relative al fenomeno della globalizzazione avevano conosciuto un primo risultato nella compilation Modulation & Trasformation (Mille Plateux, 1999), nella quale era inclusa Esperanza (en la frontera), composta da materiale sonoro registrato tra il 1997 il 1998 nell’area di Tijuana. Attorno a Tijuana, dove correva e corre la frontiera con Stati Uniti, gravitavano le attività delle maquiladoras, stabilimenti industriali controllati da soggetti stranieri che, pur godendo di un cospicuo regime di esenzione fiscale, violavano costantemente i diritti dei lavoratori. Tra la pubblicazione di Esperanza (en la frontera) e l’uscita della compilation Clicks & Cuts, era intercorso un avvenimento di straordinaria importanza: il 30 Novembre 1999, le strade di Seattle vengono saturate dalla marcia di circa cinquantamila persone in protesta contro la terza conferenza della World Trade Organization. In mezzo a quella marea, c’erano anche i membri degli Ultra-red.

«Non date troppo peso all’EZLN» dichiarava il subcomandante Marcos «non è nulla se non il sintomo di qualcosa di più. D’ora in avanti, che l’EZLN sia ancora in giro o meno, ci saranno proteste e fermenti sociali in molti luoghi. Lo so perché, da quando ci siamo sollevati contro il governo, abbiamo cominciato a ricevere manifestazioni di solidarietà e simpatia non solo dai messicani, ma anche da persone del Cile, Argentina, Canada, Stati Uniti ed America centrale. Ci hanno detto che l’insurrezione rappresenta quello che avrebbero voluto dire, ognuno nei rispettivi paesi. Io credo che la fallace nozione di fine della storia sia finalmente stata distrutta». [iii]

Quello a cui Marcos faceva riferimento, secondo Joel Harden, attivista e scrittore autore di Quiet No More: New Political Activism in Canada and Around the Globe, è l’emergere, in molti paesi, di un’ondata di movimenti in conflitto con le politiche neoliberiste. La loro voce, a cavallo degli anni Novanta, andava moltiplicandosi ed amplificandosi. In questo scenario, era fondamentale il ruolo delle organizzazioni ispirate dall’esperienza zapatista, successivamente confluite nella rete internazionale People’s Global Action: «dobbiamo partire mirando alla testa» dichiaravano senza mezzi termini da Ginevra, nel 1998 «abbiamo militato nelle lotte contro il nucleare, per il diritto alla casa, contro il sessismo – i differenti tentacoli del mostro. Non ce la faremo mai in questo modo, dobbiamo mirare alla testa» [iv]. L’occasione di colpire la testa del mostro si presentava a Seattle, il 30 Novembre del 1998, storica data delle proteste contro la conferenza del World Trade Organization [v].
«Affermare che la guerra contro il WTO sia cominciata ora, significa ignorare i decenni di lotta portati avanti nei paesi sottosviluppati contro secoli di dominazione colonialista e neo-colonialista. Ciononostante, quello che è emerso come risultato della manifestazione di Seattle del 29 Novembre è un colpo schiacciante alla più potente difesa del WTO: il silenzio» [vi]


Così gli Ultra-red commentavano gli avvenimenti di Seattle, il primo Dicembre del 1999; a partire dal materiale sonoro registrato durante quelle convulse giornate che realizzeranno le quattro tracce N30, pubblicate nell’Aprile del 2000 in forma di CDR per Comatonse Recordings, label dell’amico e sodale Terre Thaemlitz. Il racconto di quell’esperienza (scritto «con gli occhi che ancora bruciano a causa dei gas lacrimogeni e le orecchie che ancora fischiano a causa dei sonic disrupters degli agenti di polizia SWAT» [vii]) costituisce un’analisi lucida e utile tanto dal punto di vista politico quanto in termini estetici. Non a caso, il silenzio costituisce l’innesco dell’intera riflessione. Il silenzio prodotto dalle istituzioni non democratiche, dai think tank politici e i piani portati avanti in segreto, eterodiretti dalle multinazionali, mentre i capitali si accumulavano all’infinito, nel silenzio del commercio globale, tra gli abusi ai danni dei segmenti più svantaggiati delle popolazioni del mondo [viii]. Si accumulavano, fino al punto di esplodere.

La prima grande vittoria dei manifestanti arriva dal momento in cui il presidente del WTO Michael Moore venne costretto a cancellare le cerimonie inaugurali della conferenza, risultato dello sforzo corale di cinquantamila persone. Gli Ultra-red riportavano questo successo sbalorditi, colpiti dalla capacità di superare le spesso ampie discrasie tra gli interessi, le problematiche, le preoccupazioni e le istanze ideologiche di cui i gruppi scesi per le strade si facevano portavoce. Destreggiandosi tra i gas lacrimogeni e la tensione palpabile, il gruppo di audio-attivisti ha registrato canti spontanei, il riecheggiare degli slogan nelle strade, un rave estemporaneo partito da un van dotato di turntables, una banda musicale antifascista che eseguiva l’Internazionale e il suono dei passi di migliaia di persone.

Proseguendo nella lettura di Joshua Harden, ci si imbatte in quella che lui definiva «la prima aperta frattura tra gli attivisti » [x]. Se è vero che le manifestazioni di Seattle e quelle dell’anno successivo riuscirono ad incrinare la certezza che globalizzazione e libero mercato fossero espressione del migliore dei mondi possibili, è altrettanto vero che il proseguire del conflitto, specie in occasione dei grandi appuntamenti internazionali, imponeva al movimento un serio dibattito sul piano metodologico. Contraddizioni platealmente emerse in occasione delle proteste contro l’incontro del Free Trade Area of Americans (FTAA), tenutosi a Quebec City nell’Aprile del 2001. Posto che qui si intende lasciare del tutto sospeso un eventuale giudizio sull’utilità strategica delle metodologie di lotta più radicali, il testo che accompagna il lavoro audio-video degli Ultra-red Imperial Beach, offre un interessante spunto di riflessione in tal senso, a partire proprio dall’esperienza delle manifestazioni contro il summit delle Americhe. Imperial Beach, ‘colonna sonora con immagini’ [xi], va ad inserirsi nella serie di azioni nello spazio pubblico Value Systemanti-imperialism and boombox politics, condotta a partire dal 1998. Value System indagava la relazione tra l’evolversi della scena elettronica internazionale e il contestualizzarsi dei suoi sviluppi nel frame del capitalismo globale. La serie è suddivisa in ‘dispacci’, ognuno dei quali derivava da registrazioni effettuate in alcune località del Nord America: una sorta di ‘arcipelago imperialista’. Da Wall Street alla zona di confine di Tijuana, dalla Scuola delle Americhe sino al palazzo della World Bank, il lavoro degli Ultra-red assumeva il suo posto nella crescente opposizione contro il mito di una fantomatica globalizzazione benigna [xii].

Nell’incipit di Imperial Beach emerge una voce, che gradualmente si moltiplica e si accumula fino all’inintelligibilità dell’affermazione ripetuta. Poi, il silenzio. This is what democracy looks like, recita la voce. Una panoramica della costa assolata si sostituisce allo schermo nero. La visione del paesaggio tropicale risulterebbe estremamente gradevole, se questo non fosse letteralmente tagliato in due da quel che qui viene definito «un infausto muro nero di metallo arrugginito» [xiii]. L’intervento di un frastuono di slogan e grida, pesantemente distorto, ci porta ad abbandonare la spiaggia imperiale, catapultandoci nel bel mezzo delle manifestazioni di Quebec City, il 21 Aprile del 2001. Un viaggio che stava soltanto nel corpo immateriale di una telefonata: gli Ultra-red si trovavano davanti al muro di frontiera tra Messico e Stati Uniti, mentre qualcuno, dal Canada, comunicava le evoluzioni della protesta. Pare che si stesse cercando di fare breccia nei cinque chilometri della barriera difensiva di cemento e reti innalzata al fine di proteggere i delegati del summit delle Americhe dai manifestanti. Qualcuno dichiara che è in corso il lancio orsetti di peluche. Decine di orsetti di peluche. Lo sfondo della comunicazione è intenso, la manifestazione sonora di una folla, del lancio di migliaia di latte di gas lacrimogeno, di seimila poliziotti in marcia.

I membri degli Ultra-red erano parte dei circa duemila manifestanti arrivati alla dogana di San Ysidro. La loro era una protesta gemella e contemporanea a quella di Quebec City: la differenza principale tra le due situazioni non stava tanto nei numeri, quando nell’evidenza schiacciante costituita dal muro tra Stati Uniti e Messico, che, a differenza di quello eretto a difesa del summit FTAA, era inattaccabile e permanente. Erano e sono tutt’oggi in molti a tentare il valico di questo muro. Non sono orsetti di peluche: le condizioni economiche spingono migliaia di migranti a cercare un futuro al di là del confine. «Eravamo collettivamente impegnati a lottare contro un qualche tipo di barriera, confine, muro e perimetri» scrivevano gli Ultra-red «siamo così focalizzati sulle barricate temporanee che stiamo dimenticando la realtà quotidiana dei confini permanenti?» [xv]. Le immagini del video tornano sulla porzione statunitense della spiaggia divisa dalla barriera. Imperial Beach. Ironicamente, il titolo del video degli Ultra-red corrisponde al nome del posto. Un uomo, un giovane messicano, sta guardando dall’altra parte. Forse sta pensando di passare dall’altra parte. Si diffonde un suono non congruo a quel che vediamo. Una voce grida di abbattere la barriera, ragazze agguerrite intonano slogan, le reti della barriera, agitate dai contestatori, risuonano come le sbarre di una gabbia. L’uomo rimane immobile.

«Che sia in primavera, o in pieno inverno, individui ed intere famiglie partecipano ad una forma di disobbedienza civile ben più radicale di qualsiasi cosa si sia vista in Quebec. […] L’uomo rimane immobile. Immagina di fare il primo passo, libero da ogni ostacolo, senza rischiare la propria vita e senza vedere altri perdere la propria. La barriera metallica vibra all’unisono con il sogno dell’uomo. È un sogno che trova posto, ogni giorno, lungo quel confine. Da Brownswille, in Texas, a Calexico, in California. Da Imperial Valley ad Imperial Beach» [xvi]

Il movimento no-global non è certo l’unica destinazione degli sforzi e le pratiche del gruppo. Come già accennato, la loro esperienza cominciava già nel 1994, nei club Los Angeles travolti dallo stato d’emergenza causato dal diffondersi dell’AIDS. Qui si colloca la prima azione intrapresa, esplicitamente intitolata Soundtrax – needle exchange and mapping the city e realizzata in collaborazione con il collettivo Clean Needles Now.
In Public space is the place, articolo pubblicato sulla rivista THE WIRE nel Settembre del 2008, Mark Fisher scriveva del lavoro degli Ultra-red nei termini di una sintesi strana (queer, specifica in un inciso) che non poteva essere comodamente classificata né come sound art, né come musica elettroacustica, né come ambient, né unicamente come intervento politico. Sottoponendo la spontaneità delle manifestazioni in strada a processi di manipolazione, gli Ultra-red incorporavano la viva voce tramite interviste e registrazioni effettuate sul campo, per poi sottoporle ad un’attenta fase di post-produzione [xvii], nella quale cut-up, sovrapposizioni, loop ed effetti di glitch seguivano una logica inscindibilmente estetica e politica.
Dal 2004 si avvicendano una serie di azioni nello spazio, formalizzate in diversi album pubblicati prima per l’etichetta Mille Plateaux e poi con Public Record, fondata dagli stessi Ultra-red. Programmaticamente, Public Record era ben più di una label. Si proponeva come archivio online dell’organizzazione, creato per distribuire i lavori dei membri degli Ultra-red e dei loro ‘alleati’ e costituire una piattaforma in grado di facilitare la cooperazione tra artisti e movimenti sociali, occupando lo spazio interstiziale tra arte ed organizzazione politica e radicalizzando in tal senso le convenzioni della musica elettronica e della sound art. Tra gli artisti coinvolti, Elliot Perkins, Kanak Attak, Manoa Free University, Terre Thaemlitz, Pet Shop Beuys, Jack Tactic, Aeron y Alejandra, Needle and Sony Mao. L’ampio range di provenienza degli artisti citati ci racconta come, sin da subito, i progetti degli Ultra-red scaturissero da lotte radicate in territori specifici, immediatamente messi in relazione fino a costituire un intreccio di precise istanze politiche internazionali. Questa capacità di lavorare ben fuori dai confini statunitensi viene citata dal membro degli Ultra-red Manuela Bojadžijev nel corso dell’intervista con Fisher: «uno degli elementi più interessanti degli Ultra-red» sostiene Bojadžijev, docente di sociologia alla Goldsmiths University of London e membro del gruppo anti-razzista berlinese Kanak Attak «è che si riesce a lavorare a livello internazionale, così ci sono persone negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito ed in Germania che sono in grado di comunicare ed eventualmete realizzare progetti insieme» [xviii].

Dal 2004, gli Ultra-red scelsero inoltre di sottrarsi alla definizione di audio-attivisti, ri-determinandosi come ‘organizzazione politico-estetica’. È da questa posizione che affermano l’impatto potenzialmente insito alle pratiche sonore sperimentali – che troppo spesso, come ci ricorda Fisher, vengono depotenziate dagli stessi autori, che le considerano socialmente irrilevanti. Dont Rhine, membro fondatore degli Ultra-red, dichiara che molte delle istanze portate avanti dal gruppo rimandano in qualche modo a Cage, al quale si riferisce come ad una «presenza permanente»[xx] in aperta critica al rapporto tra il suono e la cultura del consumo. Fisher nota come l’idea che esista una dimensione politica dietro ad ogni processo estetico sia ormai diventato una sorta di luogo comune nel discorso curatoriale, sottendendo, purtroppo, l’assunto secondo il quale l’arte non necessiti di schierarsi politicamente, essendo già inerentemente politica: dinamica di pensiero che troppo spesso fornisce un alibi per l’istituzionalizzazione e l’isolamento dell’arte dalla contingenza delle lotte [xxi]. Le pratiche degli Ultra-red rovesciano diametralmente questa prospettiva. Distanti da quegli artisti che si confinano all’interno di spazi e realtà istituzionali, concentrandosi al massimo su idee ed immagini prelevate dalla sfera politica, si inseriscono attivamente in dinamiche partecipative. Così il quid della loro ricerca, non risiede tanto nella dimensione politica dell’arte, quanto in quella dimensione estetica che già appartiene alle lotte reali. Seguendo la lezione di Cage, per il quale il compositore non crea suoni, bensì nuovi modi di ascoltare, Rhine afferma che, tramite l’organizzazione dell’ascolto, un artista possa incanalare i suoni in direzione di una strategia politica: «se intendiamo prendere seriamente [questi presupposti], allora chi si occupa di azioni politiche è già coinvolto in un’operazione estetica» [xxii].

Mi sono chiesta più volte fino a che punto fossero determinanti le fasi di formalizzazione del lavoro in questione. La mia impressione è che non esista una vera e propria formalizzazione conclusiva del materiale: è forse possibile mettere una pietra sopra un processo di organizzazione politica dettato da una contingenza, fino a che lo stesso processo è ancora in corso? Certo, le fasi di post-produzione e rielaborazione del materiale sono determinanti, ma solo se considerate nel loro continuum processuale, all’interno del quale è possibile individuare una cronologia, sì, ma non una gerarchia. E se è vero che l’intento a focalizzarsi proprio sulla dimensione processuale del lavoro viene dipinto come un tratto comune di molta arte contemporanea (più o meno recente), non posso non chiedermi quanti artisti siano in grado di farlo con la stessa lucidità e la stessa onestà intellettuale dimostrata dagli Ultra-red.
«Non credo» dichiara Dont Rhine a Fisher «che saremo mai in grado […] di arrivare ad un qualche tipo di conclusione definitiva a proposito della relazione tra l’azione e il disco. E forse a quarantacinque anni dovrei anche lasciar perdere. O forse è proprio questa tensione a risultare produttiva. Ma quando abbiamo fatto i primi due album per Mille Plateaux, questa era la domanda, ok, cosa facciamo con questi album? Sono carini, ma cosa fanno?» [xxiii].

La questione riporta necessariamente alla sfida aperta con Value System, ovvero l’indagine relativa alle dinamiche della scena elettronica. In un certo senso, nota Fisher, la musica elettronica gioca, per le sue stesse proprietà formali, un ruolo di denaturalizzazione rispetto alle condizioni sociali esistenti. Credo si tratti di un elemento che andrebbe valutato a partire da una prospettiva che ambisca a scrollarsi di dosso i retaggi di un’annosa concezione dicotomica del rapporto tra natura e cultura. Mi chiedo, quindi, in che modo la capacità di denaturalizzazione propria dell’elettronica possa entrare in collisione con la possibilità di esprimere istanze politiche quotidiane e spontanee. Nel domandarmelo, faccio eco allo stesso Rhine, che nel corso dell’intervista con Fisher esponeva le sue preoccupazioni rispetto all’evacuazione della politica dalla scena elettronica. «C’è stato un momento in cui la musica elettronica era sede di […] una capacità di organizzazione rivoluzionaria»[xxiv], interviene Janna Graham, membro degli Ultra-red e PhD student alla Goldsmiths, già coinvolta in svariate iniziative di pedagogia radicale in Canada. «Stiamo attraversando uno strano momento» prosegue Rhine «[…] c’è sempre stata una certa nostalgia nella musica elettronica, una nostalgia per il futuro. Si prova nostalgia nei confronti del passato quando si è incerti rispetto al futuro e si diventa nostalgici nei confronti del futuro quando si è incerti rispetto al passato» [xxv].

La frase di Rhine è alla base di una riflessione piuttosto interessante portata poi avanti da Fisher, estremamente utile ad inquadrare la connessione strutturale con il capitalismo contemporaneo. Credo sia emblematico che il numero della rivista THE WIRE, nel quale è pubblicata l’intervista, uscisse proprio nel Settembre del 2008, mese in cui la Lehman Brothers dichiarava la bancarotta invocando il chapter 11, con tutte le conseguenze che questo innesterà su scala mondiale: è interessante, a posteriori, collocare le parole di Fisher in quella precisa transizione storica. Fisher sosteneva che il futuro incerto evocato da Rhine, fosse un carattere endemico e permanente dell’economia capitalista, un pattern rispetto al quale la musica non risulta certo immune. In quest’ottica, si può guardare al percorso degli Ultra-red come ad una parabola di resistenza ad uno degli strumenti più efficaci di cui disponga il capitalismo contemporaneo; ovvero la rimozione degli aspetti politici dalla sfera della quotidianità, seguendo la narrativa di una società moderna definitivamente approdata ad una fase post-ideologica. Ben prima dello stesso Fisher, è Walter Benjamin a permetterci di rovesciare questa prospettiva, svelandoci i caratteri teologici dell’ideologia capitalista. Ispirato da Spettri di Marx di Derrida, Fisher colloca il lavoro degli Ultra-red tra quelle presenze ‘spettrali’ che si ostinano a cercare di incrinare l’influenza del libero mercato, le cui istanze, vendute come scientifiche e pragmatiche, celano in verità un carattere radicalmente confessionale. In quest’ottica, più che un archivio di morte, Public Record può essere pensato come un archivio di spettri soggetto a dinamiche del tutto incompatibili a quelle museali: laddove il museo assegna agli artefatti un posto in una narrativa storica immobile, l’archivio spettrale (‘hauntological archive’ nel testo originale) svolge una funzione pratica: le sue risorse sono pronte ad essere utilizzate, applicandole a congiunture presenti [xxvi].

Secondo Fisher, questo carattere spettrale è in un certo modo endemico alla virtualizzazione della cultura, una condizione generale. A turbare Rhine, almeno nel 2008, non era certo la scomparsa delle etichette e dell’apparato di produzione e distribuzione della musica così come questo si configurava fino ad una decina di anni prima. La questione impellente toccava, piuttosto, gli spazi del discorso relativo alla musica, dove, fattualmente, fosse possibile collocare il pubblico, in un senso estremamente pratico. Il rischio di una deriva solipsistica conseguente la virtualizzazione dell’esperienza culturale (e nondimeno politica) è una questione che tutt’ora, sei anni dopo quest’intervista, non può considerarsi chiusa. «La distruzione del concetto di pubblico, relegandolo allo status di fantasma e di fantasia, ha aiutato a preparare la via per la massiccia privatizzazione che il neoliberalismo ha perseguito con tanto vigore» puntualizzava Fisher «e i progetti degli Ultra-red tracciano quale disastroso impatto tutto questo abbia avuto sulle politiche per la casa, l’educazione o la ricerca scientifica contro HIV ed AIDS» [xxvii].
L’intervento di Rhine ci porta a riflettere sulle dinamiche interne al cosiddetto spazio pubblico e ai diversi modi in cui questo viene pensato. Lo spazio pubblico viene normalmente concepito assumendo una determinata idea di sviluppo, una pianificazione, e non attorno alla pratica: chi, si chiedeva Rhine, detiene l’autorità tecnocratica di ridisporre e smantellare e ricostruire lo spazio pubblico? E, al contrario, quali pratiche determinano, fattualmente, la produzione di uno spazio pubblico? Così, quando un potente imprenditore immobiliare dice ad una comunità ‘no, vi daremo delle abitazioni migliori sgomberandovi tutti’, si tratta di una pratica, non di un’idea, un progetto. La pratica che definisce lo spazio pubblico sta tutta nello sgombero stesso [xxviii]. Una consapevolezza che dovrebbe modificare radicalmente il modo in cui guardiamo ai centri commerciali, al trasporto ‘pubblico’, alla caffetteria di un’università (che peraltro era esattamente il contesto dell’intervista con Fisher). La maggior parte dei luoghi percepiti come pubblici, vengono progressivamente acquisiti e controllati da interessi privati [xxix]. Pensare che la dimensione sonora di questo genere di spazi non abbia alcuna rilevanza dal punto di vista politico, significherebbe peccare di assoluta ingenuità. La centralità della pratica nella determinazione dello spazio pubblico, ci riporta a riflettere sul significato di una dichiarazione di Dont Rhine relativa a Public Records. L’abbiamo già citata in precedenza, ma andremo a ribadirla, in quanto estremamente utile ai fini della prosecuzione del discorso: «nell’ascolto, si rimane necessariamente catturati dal materiale registrato, con i suoi effetti politici». La parola chiave è ‘ascolto’.  Se questo ha sempre rivestito un ruolo strutturale e determinante nel lavoro degli Ultra-red, debitore del pensiero di Pierre Schaeffer, si nota una particolare inclinazione negli ultimi anni di attività del gruppo. Il workbook Pratice Sessions, del 2014 (non a caso ventesimo anniversario degli Ultra-red), può essere letto come una sorta di compendio del risultato delle pratiche sostenute. I protocolli di queste delle sessioni di ascolto vanno pensati anzitutto come strumenti che aspirano a generare nuove pratiche sociali all’interno delle comunità coinvolte e nei modi di relazionarsi a ciò che è altro da sé [xxx]. Ritroviamo questo genere di processi, presupposti e pratiche in workshop come What is the sound of austerity?, tenutosi nel 2011 presso Torbay, in Inghilterra, o What is the sound of home?, che ha luogo l’anno precedente ad Oslo. In entrambi i casi le registrazioni vengono effettuate nel corso di una soundwalk, pratica che trasforma il territorio di base della comunità in un campo d’indagine sonora – un modo di fruire dello spazio che ricorda le passeggiate psicheogeografiche dei Situazionisti.  C’è un particolare passaggio, in Pratice Sessions, che mi ha portata a riflettere a lungo. Si tratta di una delle domande utilizzate nella definizione dei protocolli d’ascolto: Dove si colloca il tuo gruppo, nel processo della propria lotta? Ha già cominciato a collettivizzare le sue preoccupazioni, i suoi bisogni e le sue aspirazioni?

Le pratiche degli Ultra-red, negli anni, sono state in grado di enfatizzare lucidamente quel seme di creazione e relazione in sé insito alle dinamiche dei gruppi di affinità, o comunità unite da un’urgenza, un desiderio comune. E credo che questo dovrebbe portarci a chiederci come mai sia così complesso riconoscere questi semi nella quotidianità, nell’articolarsi dei meccanismi che determinano le nostre relazioni sociali. Cosa succede quando un soggetto collettivo non ha percezione di se stesso e, nei fatti, non riesce a costituirsi come comunità? Perché succede? Spesso mi soffermo a concentrarmi sul perpetuarsi di una condizione monadica, anche qualora ci si trovi investiti da fenomeni oppressivi che toccano i corpi nella loro pluralità. Se ci si ferma a guardare indietro, se ci si focalizza sulla nostra storia recente, allora questa si presterebbe a venir letta come la storia di comunità sottoposte a processi di frammentazione, di isolamento indotto degli individui. Si tratta di strategie che toccano l’urbano, la gestione della vita sociale, dei momenti ricreativi, del lavoro. E, perché no, strategie che piegano lo spazio sonoro che abitiamo, inibendo le nostre capacità di ascolto e le nostre voci. E, in questo contesto, isolare una voce può voler dire condannarla a rimanere inascoltata.

 

note:

[i] SUBCOMANDANTE MARCOS, cit. in J. D. HARDEN, Quiet No More: New Political Activism in Canada and Around the Globe, James Lorimer & Compagny Ltd Publishers, Toronto, 2013, p. 24.
[ii] SUBCOMANDANTE MARCOS, El Subcomandante Marcos anuncia su desaparción, in desInformémons.org, comunicato ufficiale del Subcomandante Marcos, 28 Maggio 2014 (http://desinformemonos.org/2014/05/adios-al-subcomandante-marcos-nace-galeano/)
[iii]SUBCOMANDANTE MARCOS, cit. in J. D. HARDEN, Quiet No More: New Political Activism in Canada and Around the Globe, p. 25-26.
[iv] O. DE MARCELLUS, cit. in J. D. HARDEN, Quiet No More: New Political Activism in Canada and Around the Globe, p. 29
[vi] Cfr. J. D. HARDEN, Quiet No More: New Political Activism in Canada and Around the Globe, pp. 24-29.
[vii] ULTRA-RED, flashdispatch, 1 Dicembre 1999 (http://www.ultrared.org/pso4c.html)
[viii] Ibidem.
[ix] Ibidem.
[x] Cfr. J. D. HARDEN, Quiet No More: New Political Activism in Canada and Around the Globe, p. 35.
[xi] Definizione tratta dal titolo del testo Imperial Beach: A soundtrack with Images, in The Anti-Capitalist Reader: Imaginig a Geography of Opposition, a cura di J. Schalit, Akashic Books, NY, 2002.
[xii] ULTRA-RED, ps/04public trading valuesystem, 2000 (http://www.ultrared.org/pso4.html)
[xiii] Ibidem.
[xiv] Ibidem.
[xv] Ibidem.
[xvi] Ibidem.
[xvii] M. FISHER, Public space is the place, in WIRE n.295, Settembre 2008, p. 28.
[xviii] Ibidem.
[xix] ULTRA-RED, The Debt, comunicato stampa,  Maggio 2005 (http://www.publicrec.org/archive/2-03/2-03-011/2-03-011PR.DOC)
[xx] Ivi p. 29.
[xxi] Ibidem.
[xxii] Ibidem.
[xxiii] Ivi, p. 23.
[xxiv] Ibidem.
[xxv] Ivi, p. 24.
[xxvi] Ibidem.
[xxvii] Ivi p. 25.
[xxviii] Cfr. ibidem.

[xxix] Ibidem.
[xxx] Per tutta l’esposizione del progetto faccio riferimento ai box ‘case study’ presenti in Pratice Sessions.

 

 

 

 

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