C’est une époque qui se termine*

di Paolo Emilio Antognoli.

Da qualche tempo raccolgo le mie annotazioni edite e inedite dalla fine anni novanta agli anni zero. Le rileggo come fossero di un altro. Gli eventi dell’ultimo decennio, fra crisi economiche, conflitti e rivoluzioni colorate, ci hanno costretti al cambiamento, a un nuovo punto di vista sulla realtà, dalla geopolitica alle arti.

Proprio in questi giorni Yves Michaud su una rivista belga dichiarava “c’est une époque qui se termine”. Lo stesso, nell’intervista, dice di prendere atto della fine del dissenso da parte degli artisti: “Aujourd’hui, l’engagement politique des artistes est égal à zéro”. Se ne potrebbe discutere, ovviamente, ma nella sostanza, se è il valore finanziario che predomina sulla politica e la cultura, al sistema dell’arte non resta che produrre valore economico, oscillando fra intrattenimento e mercato del lusso. Era già chiaro da Guy Débord, forse da Marx (“artisti di tutto il mondo arricchitevi!”).

La stagione degli altri mondi possibili è ormai finita – appare chiaro. La fine delle utopie si è conclusa nel 1978, e quella delle utopistiche, citando Immanuel Wallerstein, nel 2008. E proprio questa cesura, nella sua nettezza – nel suo funebre pallore – porta a riguardarci in quei momenti in cui ci portavamo ancora sulla breccia a interpretare il mondo.

L’occasione di questo vecchio scritto era una Biennale per giovani artisti che si svolse nell’inverno 2007. Intendeva proporre una riflessione su quanto era avvenuto in una città come Pisa nel Sessantotto e riconnetterla al presente, a quanto vedevo accadere in quegli anni.

Per “creatività” intendevo allora un’onda diffusa che attraversa e travolge i più diversi campi disciplinari.

Fra gli eventi che allora mi avevano colpito c’erano Documenta 11 a cura di Okwui Enwezor e la riapertura del Palais de Tokyo, entrambi del 2002, tra arte politica e estetica relazionale, che erano i punti di partenza di queste note – poi rimaste confinate in un catalogo mal confezionato. Sono ormai trascorsi dodici anni da questo scritto, diciassette dalla mia visita a Kassel. Oggi l’avrei scritto diversamente. Gli avrei dato un altro titolo. Il termine “conviviale” è un ovvio riferimento a Tools for Conviviality di Ivan Illich – tra le mie letture più importanti in quel decennio.

In ogni caso queste note nei loro limiti costituiscono una testimonianza, una memoria ancora a caldo e vissuta intensamente, che fissa in qualche modo una stagione che appare già lontana, quasi per nulla storicizzata, auspicando che altri testimoni di quel tempo rispolverino i loro scritti, le foto o i loro diari per un confronto.

Apprendendo della scomparsa di Okwui Enwezor, ho pensato di farne un omaggio personale.

(Bruxelles, 18 marzo 2019)

 

Per una creatività conviviale

Sette annotazioni per una Biennale giovanile a Pisa, del 2007

 

Non devi mai rinunziare. Fino a che una persona è viva, da qualche parte sotto la cenere arde del fuoco, e tutto quello che dobbiamo fare è…soffiare… con attenzione, molta attenzione, soffiare e soffiare… e vedere se si riaccende” (Helder Camara a Ivan Illich)

 

1.

Solo ripensando a Pisa e alla sua storia recente mi sembra sia possibile riallacciare un dialogo sulla creatività che possa far luce sulla condizione reale della città. Ricordando alcuni articoli su una rivista, scritti a seguito di un convegno pisano dedicato agli anni della rivolta e al Sessantotto[i], guardando foto di cortei e manifestazioni di quel tempo, mi sembra che non sia più possibile disgiungere la creatività politica e sociale dalla creazione artistica (…). Solo ritornando a cercare le costellazioni in cui quelle lotte sociali riaffiorano adesso alla memoria è possibile valutarne il contenuto di attualità (…).

Pisa, facciata del palazzo ex Tohuar, a sinistra dell’ingresso principale, Piazza S. Silvestro [Piazza F. Serantini].
Lapide a Franco Serantini. 1972. Un momento dell’inaugurazione. Foto di Antonio Vinciguerra tratto dal libro di Franco Bertolucci, Documenti di pietra, in “A” rivista, n.400, 2015.

Ci conosciamo attraverso un confronto che non può essere più misurato da un’unica prospettiva centrale, come nelle grandi narrazioni del modernismo, ma secondo i modi multiformi e provvisori del nostro tempo. Perciò, se l’angelo della storia di Walter Benjamin era rivolto all’indietro, alle rovine del passato, una strategia a noi più consona può essere quella del granchio, che nei momenti di pericolo indietreggia fissando il nemico. Guardare fissi il presente riportandoci indietro nel passato.

(…)

Mi sembra talvolta che solo riflettendo alle varie dimensioni del presente e del passato, come a un’archeologia di parole e di fantasmi, sia possibile afferrare qualcosa che ci sfugge. Solo pensando all’arte, alla vita quotidiana e alle lotte politiche e sociali come un insieme unitario, mi sembra possibile scongiurare quella narrazione alienante che prevede per questo incontro con la storia un significato già pronto. (…)

Copertina del catalogo Biennale Giovani artisti, Pisa 2007, con la foto di Antonio Vinciguerra tagliata e visibile solo a metà.

Vorrei quindi partire da un’immagine degli anni settanta, per aprire una riflessione che riallacci fili recisi, rimozioni, memorie interrotte; che permetta di inquadrare quella che noi chiamiamo creatività in un modo più largo [ii]. Pur non conoscendo le vicende storiche in cui è stata scattata ho voluto questa immagine in copertina per diversi motivi. Oltre a innegabili motivi estetici, quello che mi affascina della foto credo sia innanzitutto questo monumento provvisorio eretto nel cuore della città, nel cortile della Sapienza. Un contromonumento di bandiere, di corpi e di striscioni che eclissano la statua sottostante. È un’immagine molto suggestiva. Riguardo ai dimostranti, ognuno di loro è sospeso in una diversa espressione. L’uno concentrato in un’azione, l’altro nervoso, diffidente, la terza seduta sul basamento, frontale, come la figura lungamente assorta di un’elegia funebre. Al di là dei motivi storici e politici contingenti di questa manifestazione (che era di protesta sul caso Pinelli), mi sembra una riflessione di per se stessa sulla memoria, sull’arte monumentale e ambientale, come l’incipit di un discorso ancora aperto, non-finito, capace di reinventare un nuovo link tra passato e presente. Utile a mostrare la realtà artistica come qualcosa di molto più amplio dei contenitori standard in cui si viene a collocarla.

 

Copertina Albert Camus, L’homme revolté, Gallimard, 1951.

2 (…)

Albert Camus si chiedeva, ricordando Pisarev e i nichilisti russi, se non fosse più importante un ciabattino di un Raffaello. Porre adesso tale questione non sarebbe più possibile, ma allora Pisarev, contrapponendo l’utile alla contemplazione estetica, finiva per affermare: meglio un paio di stivali di tutto Shakespeare! [iii]

(…) Al presente, il modo postmoderno di produzione, centrato sulla valorizzazione del cosiddetto capitale immateriale (o capitale umano, o ancora capitale conoscenza o intelligenza) lascia disperdere nel passato tali pensieri, imponendo una diversa valutazione dell’arte (…).

Quando il lavoro in forma immediata cessa di essere la misura della ricchezza creata, sempre meno dipendente dal tempo e dalla quantità di lavoro impegnato, esso non è più l’elemento determinante della produzione. Gli subentra un modo nuovo di produzione che dipende soprattutto, come scriveva Marx, “dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia”. Ma ciò non basta. “Il valore trova oggi la sua fonte nell’intelligenza e nella immaginazione. Il sapere dell’individuo conta più del tempo della macchina. L’uomo portando il proprio capitale, porta parte del capitale dell’impresa”[iv]. È dunque il cosiddetto capitale umano che alimenta il nuovo modo di produzione, fatto non solo di scienza ma di conoscenza e di immaginazione.

Di conseguenza non appare più possibile distinguere al modo ottocentesco attività umane quali fare arte o fare stivali come campi lontani, esercitati l’uno nella realtà, l’altro nell’immaginario. La cornice si è rotta e con essa la finzione[v].

Se ogni azione umana è messa in produzione, con conseguenze globali, qualsiasi attività non può essere più distinta sulla base della vecchia gerarchia che privilegiava ancora materiale a immateriale e l’autonomia di ogni singolo campo del sapere. Ogni nostra azione, anche la più quotidiana, è nel medesimo tempo economica quanto politica, tanto etica quanto sociale, etc.. La libertà di ogni campo difatti non implica necessariamente una separazione.

(…) L’arte è produttrice di realtà, in quanto agisce nella realtà in modo diretto, senza pensarsi più separatamente dal contesto multiforme in cui agisce. Non è quindi più possibile parlare dell’albero dell’arte senza vedere il bosco che la circonda.

 

3.

Joseph Beuys ha definito scultura sociale il lavoro dell’artista, che superando il suo confinamento nelle belle arti si trova a operare direttamente alla rimodellazione collettiva della realtà del suo tempo (…): dall’economia all’agricoltura, dalla filosofia all’urbanistica. Quindi ogni uomo, nel suo campo specifico di applicazione, può essere considerato un artista. Con l’elaborazione di tali obiettivi – al di là di una valutazione teorica e storica dello specifico punto di vista beuysiano (…) – dovremmo oggi essere in grado di valutare gli apporti che la produzione artistica (…) ha prodotto e produce sulla realtà. Potremmo dire che l’arte non si pone più semplicemente come luogo di rappresentazione (…), ma come produzione diretta di realtà.

L’arte, per la sua capacità di proposizione, sperimentazione, innovazione e come veicolo relazionale e di stimolo culturale, specie in un momento storico in cui la cultura viene anche definita capitale culturale immateriale, diventa uno degli imput maggiori del processo produttivo[vi].

Occorre aggiungere che la cultura, e che allora Althusser leggeva come apparato ideologico dello stato (dal punto di vista marxista dell’autore è la struttura a produrre la sovrastruttura) (…), non riflette la società ma la produce[vii]. Ne deriva che solo attraverso una nuova democrazia delle forme sociali possono prodursi nuove relazioni umane: rinnovando la cultura attraverso la sfera sociale. (…)

 

4.

Nel corso dei primissimi anni duemila si conclude la prima fase di un processo iniziato anni prima e che potremmo far coincidere indicativamente con due avvenimenti coevi: l’undicesima edizione di Documenta del 2002 e l’apertura nello stesso anno del Palais de Tokyo a Parigi. (…) Vorrei prenderli come punti di riferimento per l’enucleazione di due diversi modi e contrapposti modi di pensare all’arte. Non sono fenomeni contrapponibili di per sé stessi. Lo sono piuttosto per quei recensori che, evidenziando più i punti di frattura che quelli di contatto, hanno enfatizzato l’opposizione tra ciò che si veniva a definire arte sociale e la cosiddetta estetica relazionale – titolo del fortunato saggio di Nicolas Bourriaud[viii].

È Pierre Restany, che io sappia, in un editoriale sulle pagine di “D’Ars”, n.170, il primo in Italia a contrapporre Documenta 11 di Okwui Envezor, al nuovo Palais de Tokyo di Bourriaud e Jerôme Sans[ix].

Okwui Enwezor di fronte al Museum Fridericianum durante Documenta11, 2002. Photo: Ryzard Kasiewic. Courtesy Archivio documenta.

L’edizione di Documenta curata da Enwezor in Italia è stata recensita sui media di settore in modo molto freddo, quando non ostile. Della curatela di Enwezor si sono messi in evidenza soprattutto limiti e contraddizioni, evidenziando, oltre a un carattere politically correct della presentazione, un’altrettanto presunto segno negativo all’insegna del quale veniva offerta l’enorme panoramica dedicata agli effetti della globalizzazione e alle sue reazioni alternative. (…) In Italia, dopo l’11/9, urtava soprattutto il realismo, la prospettiva critica e l’impegno politico, percepito come sfrontatezza, che si evidenziava in una mostra in cui a prevalere erano piuttosto le idee delle opere. Quello che, nella psicosi post-terroristica, veniva avvertito dai recensori italiani come un atto d’accusa verso l’occidente, veniva adesso contrapposto al nuovo sito parigino di creazione contemporanea.

Pierre Restany definiva l’edizione di Documenta «litania investigativa sull’umanità sofferente». Altri come Robin Van Arsdol definivano la piattaforma di Kassel niente più che «propaganda».

Alcune testate italiane manifestavano un certo timore nei confronti della carica politica di Kassel, dove una forte energia critica si evidenziava egregiamente nelle piattaforme preparatorie. Ciò che veniva recepito e trasmesso da questi giornali di Documenta 11, in modo strumentale, era come una sorta di una riproposizione dell’arte impegnata dei tempi passati, come una sorta di ritorno del represso freudiano osservato con le lenti postume della guerra fredda!

Thomas Hirschhorn, Bataille Monument, 2002 (Taxi-Shuttle Service) Documenta 11, Kassel, 2002. Photo: Werner Maschmann. Courtesy Archivio documenta.

 

5.

Il Palais de Tokyo viene inaugurato nel gennaio 2002. Colpisce da subito la carica innovativa in cui fin da subito appare. La decisione di contrastare l’idea ormai ingessata del white cube, lasciando non-finito il palazzo, distanziandosi dalla prosaicità in cui manifestazioni importanti come la passata Documenta rischiava di cadere. Al contrario: interattività con il pubblico del Palais, apparenza trasgressiva da cantiere, art factory, spazio laboratoriale. Il che significava work in progress, flusso continuo fruitivo e concettuale processuale di esperienze a ruota libera. Ciò finiva per far cadere quell’idea di identità, meno mobile e più introversa, che aveva caratterizzato molta dell’arte degli anni 90.

Inoltre (…), si apriva adesso nell’immaginario lo stesso cosmo di esperienze alla portata che aveva caratterizzato l’avvento dell’economia creativa degli anni 90. Quell’economia appunto di esperienze, che si dischiudeva dal Palais (…), finalmente liberati dalle contrapposizioni degli anni Settanta, dai riflussi degli anni ottanta e dalle crisi a cui ci avevano abituati gli anni novanta. Ormai figli di un marketing minore, superato dalle strategie definite adesso conviviali dai curatori del Palais.

Dal Reportage dell’inaugurazione Palais de Tokyo:  Evocation de l’inauguration du Palais de Tokyo à Paris, trasmesso alle 19,20 dell’ edizione nazionale del canale tv francese France 3, video 21 gennaio 2002.

 

Surasi Kusolwong, Emotional Machine VW, 2002-2004, Palais de Tokyo.

Se l’arte è relazione, non c’è arte senza gente. I servizi diventavano opera d’arte e così gli spazi lounge progettati da artisti, artists in residence, stages. L’arte perdeva le coordinate identitarie moderniste e si dilatava, privilegiando le esperienze di incontro intersoggettivo rispetto allo spazio privato (…).

Nicolas Bourriaud, Esthétique relationnelle, Les Presses du réel, Dijon 2001, copertina del libro.

Potremmo anche dire che l’arte relazionale proposta da Bourriaud era innovativa nella misura in cui si sintonizzava con l’innovazione apportata dalle tecnologie user friendly nella vita quotidiana, quelle che permettono l’interazione istantanea tra gli utenti.

L’audience viene ravvisato in una sorta di continuità postmoderna che unisce arte e spettatore, e che diviene comunità situazionale, temporanea, «utopica». Si badi però che Bourriaud, nel suo testo più noto, prende le distanze dal passato. L’utopia, sotto la cui insegna si prefigura anche il Padiglione Utopia della Biennale, non è un termine da lui molto amato. Alla stella utopica del passato, che sfolgora lontana, si preferisce giustamente un qui ed ora, magari meno intenso e provvisorio ma reale. Anche l’enfasi sull’immediatezza – che ci era familiare ad es. dalla body art anni settanta – si fa scambio immediato. Non più contemplativo, bensì fruitivo! L’artista diventa produttore di relazioni, soprattutto sociali, conviviali; è spesso designer di ambienti, quindi non tanto di contenuti quanto di contenitori e che a loro volta producono rapporti. Liam Gillick, addirittura, tra gli artisti di Bourriaud, ha affermato che il suo lavoro è come la luce del frigo, funziona solo quando la gente apre lo sportello.

Jean-noël Lafargue, Sala con l’opera di Michael Lin, Palais de Tokyo, Paris, 2004.

 

6.

Ma l’esperienza del Palais de Tokyo non era certo un modello di innovazione [x]. Nel corso dell’ultimo decennio le pratiche artistiche basate sulla collaborazione sono tornate all’attenzione dei media, eppure esse preesistono alla curiosità mediatica. Molte di queste esperienze vedevano la collaborazione tra artisti e altre persone più o meno organizzate in gruppi sociali, politici o culturali.

Le modalità della partecipazione artistica a queste esperienze sono multiformi e coprono un amplissimo spettro: dalla partecipazione dell’artista a progetti collettivi fino alla condivisione collettiva di un progetto artistico individuale. (…)

Il panorama geografico di questo fenomeno è inevitabilmente globale: dal gruppo di Amburgo Park Fiction, che sviluppa forme efficaci di progettazione partecipativa con gli abitanti di quartieri, creando pressione sulle autorità locali per difendere ad esempio luoghi pubblici in via di privatizzazione. Il Laboratorio Sarai, che lavora con la comunità di Delhi. La Concrete House di Chumpon Apisuk a Nonthaburi in Thailandia. Le collaborazioni con il gruppo senegalese Huit Facettes a Dakar. Navjot Altaf nell’India centrale. Il collettivo argentino Ala Plastica, che sviluppa una serie di progetti interconnessi basandosi sul principio del montaggio sociale (…). Ciascuno di essi ha lavorato congiuntamente con gruppi attivisti, ong, associazioni di quartiere e collettivi artistici. L’officina e il laboratorio diventano mediatori di interazioni che si dispiegano attraverso gesti e processi di lavoro condivisi.

Huit Facette: Dokumentation der Workshops in Hamdallaye, Senegal, dal 1999, a documenta 11.

Park Fiction a Documenta11, 2002, con Sabine Stövesand, Dirck Mescher, Margit Czenki, Christoph Schäfer, Kudret Mike, Claus Petersen, Katrin Bredemeier, Axel Wiest, Günter Greis; Foto: Werner Maschmann / Documenta-Archiv

Park Fiction presents: Unlikely Encounters in Urban Space / Video / 2003

I progetti di collaborazione e collettivi sono considerevolmente diversi dalle pratiche artistiche basate sull’oggettualità, in quanto trasformano radicalmente il ruolo tradizionale del pubblico da semplice spettatore a partecipante (…)[xi].

L’impegno del partecipante è quindi realizzato per immersione in un processo, rispetto alla contemplazione visiva (lettura o decodificazione di un testo o di un’immagine) (…) [in cui] l’artista mantiene sempre una posizione di comando semantico e la partecipazione dell’osservatore è esclusivamente di tipo ermeneutico.

(…)

Quando Nicolas Bourriaud propose il concetto di estetica relazionale, le varie pratiche collaborative erano appena emerse all’attenzione. Rivedendone adesso i contorni generali, gli argomenti di Bourriaud risultano oramai ben stabilizzati. Si trattava di rispondere alla reificazione dei rapporti sociali negli anni d’oro dell’entertainment spettacolare. Per cui molti artisti, all’inizio degli anni novanta, iniziarono a lavorare coinvolgendo l’interazione umana su piccola scala – si parlava difatti di micro-utopie o di micro-comunità. Includevano riunioni, incontri, eventi e vari tipi di collaborazione interpersonali, che aprì una ricca filiera di interazioni sociali.

Tuttavia nella pratica di Bourriaud è presente una attitudine che finisce quasi per colonizzare o strumentalizzare i modi e i percorsi più intimi dell’interazione umana. (…) come una sorta di ingegneria inversa

Prendendo in prestito il lavoro di Felix Guattari e Deleuze, Bourriaud sostiene che le pratiche artistiche relazionali sfidano la territorializzazione dell’identità convenzionale con una comprensione plurale e polifonica del soggetto. “La soggettività può essere definita solo – scrive Bourriaud – dalla presenza di una seconda soggettività”. Ma in fondo, non è che la postproduzione di un discorso di Karl Marx.

Bourriaud compie sforzi estenuanti per stabilire chiare frontiere tra quelli che ritiene i nuovi modi di vivere assieme, che egli privilegia nel suo lavoro (Pierre Huyghe, Liam Gillick, Tiravanija, Christine Hill), e i modi altri della tradizione socialmente impegnata, della pratica artistica collaborativa, che continua dagli anni sessanta (ad es. Conrad Atkinson, il Grupo Artistas de Vanguardia argentino Tucumàn Arde, David Harding, Helen e Newton Harrison, Suzanne Lacy, Peter Dunne, ecc.). Artisti e collettivi che lavorano in collaborazione con attivisti ambientali, sindacati e studenti e molti altri. Ebbene, questa tradizione è pressoché assente dallo scritto di Bourriaud, considerata come arte ingenua e reazionaria. E scrive: “Qualunque posizione che è direttamente critica della società è futile”. Quindi non solo descrive in modo negativo la pratica artistica socialmente impegnata, ma ne offre una caricatura, riducendola sullo stesso piano del realismo socialista degli anni trenta. Anche critici di Bourriaud come Claire Bishop condividono questo disgusto per l’arte socialmente impegnata. Per la Bishop l’arte può legittimamente farsi politica solo indirettamente, lavorando sui limiti e le contraddizioni del proprio discorso politico attraverso una prospettiva semi-distanziata dell’artista. Come se gli artisti che scelgono di lavorare con i collettivi, i movimenti sociali nelle lotte politiche fossero destinati inevitabilmente a realizzare decorazioni di propaganda.

Si avverte il pericolo che senza il distanziamento e l’autonomia dell’arte convenzionale gli artisti siano condannati a rappresentare in modo facile o ingenuo una data questione politica. Considerando che il reale potere dell’arte risiede proprio nella sua abilità di criticare e destabilizzare le forme convenzionali rappresentative e identitarie, ciò diventerebbe tragico. L’arte di fatto, senza alcun contenuto positivo, viene intesa come un modo autoriflessivo di critica e di analisi applicabile virtualmente a qualunque sistema di significazione (….).

Questo distanziamento viene avvertito come necessario, in quanto l’arte rischia costantemente di essere ridotta a consumo, propaganda o intrattenimento, le quali sono forme culturali di immersione invece che di distanza critica. Per tale ragione, invece di sedurre l’osservatore l’artista si preoccupa di mantenerlo a una certa distanza. (…)

Spesso la pratica relazionale privilegia una rigida letteralizzazione dell’esperienza, in cui l’artista controlla ogni passaggio dell’interazione, senza aprirsi fino in fondo alla risposta partecipativa. In molti progetti relazionali lo scambio sociale è coreografato a priori come evento per il consumo del pubblico. In cui l’artista, come una sorta di supervisore, nutre di fatto una profonda sfiducia nell’osservatore. Una sfiducia, come quella di Bourriaud e della Bishop, che si estende a tutte quelle pratiche artistiche che aprono all’autonomia dei collaboratori e che coinvolgono l’artista nella lotta politica. Una sfiducia verso l’arte attivista che si direbbe oggi tipica degli intellettuali della guerra fredda (…).

Il disprezzo per l’arte politica, è legato in generale a un profondo scetticismo verso l’azione politica organizzata e ha incontrato giustificazione in molti noti intellettuali, che al di là delle loro significative differenze condividono una sorta di antipatia per l’azione politica collettiva organizzata (…).

In Impero, Hardt e Negri sostengono che l’unico modo appropriato di resistenza ai modi nuovi dispersi e sottili del capitalismo contemporaneo sia sporadico, scoordinato e singolare[12]. Quasi non ci fosse alcuna necessità di sfidare le istituzioni del potere economico e politico con forme collettive di resistenza, costruendo alleanze politiche all’interno e attraverso le frontiere nazionali, dato che poi il potere si riconfigura…

Per Hardt e Negri, l’atto di rappresentazione della volontà politica è lungi dall’essere un nesso necessario per l’organizzazione di una resistenza agli interessi economici dominanti, ma costituisce un’altra forma di oppressione. Allora si rifiuta qualunque strategia politica che implichi da parte dello stato l’esercizio di una legittima resistenza al capitale globale. La funzione dello stato è sempre, per loro, negativa (…).

Inoltre, l’enfasi affidata da Hardt e Negri alla migrazione nomadica della moltitudine riduce forse eccessivamente il ruolo multiforme dell’esperienza politica. La classe lavoratrice, come agente di lotta politica e trasformazione collettiva, appare loro irrilevante, sostituita da un esercito di lavoratori sparsi per il globo, la cui opzione più radicale è la migrazione e il nomadismo per i centri metropolitani del mondo come mano d’opera a basso costo o intelligenza specializzata.

Per Hardt e Negri (…) tutti i risultati possibili della lotta politica e culturale della modernità sarebbero stati anticipati dall’esperienza storica degli Stati Uniti e dell’Europa. Per cui, non avrebbe più alcun peso organizzare sindacati in Cina o lavorare per un governo egualitario in Nicaragua, ecc. perché noi, ossia gli europei bianchi, abbiamo già percorso questa strada. L’allergia di Negri e Hardt alle tendenze politiche collettive, delle quali lo stato è l’archetipo, si estende alle organizzazioni non governative e ai gruppi attivisti che operano in prossimità del potere statale. Servirebbe invece valutare più realisticamente quelle reti di alleanze di cui una trasformazione sociale potrebbe avvalersi.

 

7.

Per tornare all’estetica relazionale, c’è un’enfasi estrema nello stabilire divisioni molto nette tra le pratiche culturali, l’attivismo e l’arte. Mentre i progetti di arte collaborativa possono invece vedersi in una sorta di continuum con le forme dell’attivismo culturale, non in una pura e semplice opposizione ad esse.

(…) Per una trasformazione politica e culturale invece anche i collettivi, i sindacati, i gruppi attivisti e le ong progressiste sono decisivi in un’azione congiunta nelle lotte e nei movimenti politici che vanno dal locale al transnazionale.

Viviamo in un momento di grave pericolo e grandi possibilità, in quanto il capitale si riconfigura in modo globale costantemente.

In questo frangente storico mi sembra assai discutibile allinearsi con coloro che hanno tutto l’interesse a smantellare ogni strumento di garanzia sociale e di difesa democratica. Lo smantellamento dell’apparato statale mi sembra del tutto convergente con le necessità del grande capitale (…). Un processo che una volta completato riporta alla situazione di fine ottocento: influenza corporativa senza freni e corruzione politica.

La creatività artistica può quindi partecipare attivamente alla produzione del proprio tempo attraverso un’azione diretta volta a modificare i contesti, più che a farsi arginare in percorsi obbligati; prendendosi una libertà che gli viene negata da chi vorrebbe continuare ad asservirla, reificando il consumismo spettacolare, relegandola a un ruolo esornativo e di facile strumentalizzazione…

(Pisa, inverno 2007)

 

 

note:

[i] Cfr. in particolare due articoli rispettivamente di Carla Pagliero, Azione artistica e forme di resistenza esistenziale nell’età della rivolta, e di Claudia Salaris, Controcultura e Arte Contro in Italia, pubblicato in Rivista Storica dell’Anarchismo, luglio-dicembre 2002.

[ii] L’originale della foto è di Antonio Vinciguerra, conservato all’Archivio della Biblioteca Franco Serantini, la quale giustamente aveva concesso i diritti soltanto alla pubblicazione di una copia affinché giustamente non venisse strumentalizzata a fini non degni. Purtroppo l’immagine fotografica di Vinciguerra venne arbitrariamente e orribilmente tagliata e deturpata da un grafico del Comune. Per cui non è più visibile se non per la metà visibile sulla copertina del catalogo. L’originale è conservato l’Archivio della Biblioteca F. Serantini.

[iii] Cfr. Albert Camus, L’homme révolté, Gallimard, Parigi 1951; vedi in particolare il IV capitolo.

[iv] Cfr. André Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri Torino, 2003, p.11. Cfr. anche: Centre des jeunes dirigeants, L’entrerprise au XXI siécle, Flammarion, Paris 1996.

[v] Tuttavia quando parliamo di parametri tradizionali non voglio operare una contrapposizione tra vecchio e nuovo, dato che questa stessa opposizione significherebbe non avere preso coscienza della discontinuità della produzione post-moderna che ci costringere a rileggere la storia in modo diverso dalle grandi narrazioni storiche e filosofiche che ipotizzavano percorsi e progressi storici. Le pratiche artistiche contemporanee, anche quelle che perseguono metodi e parametri tradizionali, possono solo far sembrare che niente sia cambiato. Tuttavia, se è vero che fanno di parte di un mondo che si è trasformato con la globalizzazione con le sue cause ed effetti, saranno pur sempre inserite in contesti radicalmente diversi da quelli in cui si sono generate.

[vi] Paolo Virno ha definito postfordismo il passaggio a una società che vede una radicale trasformazione del lavoro, nel senso di un‘inclusione del lavoro intellettuale in ogni processo produttivo. Mentre nella società cosiddetta fordista il lavoro cognitivo di un operaio restava fuori dalla produzione, nella fase successiva non c’è più una netta distinzione tra lavoro e tempo libero, e la produttività si basa sull’esercizio di generiche qualità umane (linguaggio, memoria socialità inclinazioni etiche o estetiche).

[vii] Louis Althusser, Ideologia e apparati di stato ideologici, Parigi 1969

[viii] N. Bourriaud, Esthétique relationelle, Les Presses du Réel, Dijon-Quetigny 2001.

[ix] Cfr. D’Ars, n.170, agosto 2002. Rileggendo le pagine della rivista è difficile concordare con gli argomenti di Restany e dei suoi inviati a Kassel, i quali tuttavia hanno avuto almeno il merito di rendere manifesto quella sorta di latente antagonismo tra queste due tendenze critiche e curatoriali.

[x] Cfr. Claire Bishop, Antagonism and Relational Aesthethics, in October, vol. 110, 2004. Occorre aggiungere, come ha rilevato anche la Bishop, che il lavoro artistico come potenziale innesco per la partecipazione non è affatto nuovo. Ripensando agli happenings, a Fluxus, alla scultura sociale di Beuys. Al contrario di questi ultimi, ciò che è diverso in Bourriaud, è l’assenza di ciò che la Bishop definisce: retorica della democrazia e dell’emancipazione.

[xi] Per Bourriaud tutto il lavoro è automaticamente politico e emancipatorio, ma il significato è subordinato al frame. Se per Eco ogni lavoro è potenzialmente aperto, Bourriaud seleziona soltanto quei determinati tipi di lavoro che egli vede come produttori di relazioni, prendendo le distanze dalla contemplazione che egli stilizza come disimpegnata e passiva.

[xii] Cfr. Michael Hardt – Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli Milano 2003 – traduzione dal testo inglese edito nel 2001.

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *