Addio agli eroi, di Ana Luisa Lima

«Sebbene sembri paradossale, credo che il ritorno della destra sia solo una prospettiva storica che può essere osservata in un orizzonte temporale più ampio. È un ritorno illusorio e transitorio: da un lato, non è mai scomparsa, ed è stata a lungo una vera base sociale. D’altra parte, la destra non è una forza o un progetto tran-storico. Deve regnare nel mezzo di continue trasformazioni. E infine, non esiste una risposta coerente alla crisi del futuro, che sta già colpendo tutti noi. Ad esempio, cosa significa essere di destra in Cile, di fronte a tutte le mobilitazioni studentesche, intorno alla questione dell’educazione, della disuguaglianza, del debito o di fronte a tutte queste mobilitazioni Mapuche o all’esportazione di foreste? (…) Ciò che può essere perso di vista è che c’è una crisi del futuro che influenzerà la destra: la crisi del pianeta. Supera progetti e sconfigge qualsiasi ideologia. È inevitabile che gli impatti saranno enormi quando raggiungeranno un punto di contaminazione, conflitto e migrazione in un mondo globalizzato». Steve J. Stern, Latin American Studies Association (LASA), 2017.

 

La storia non è mai la stessa, ma secondo Mark Twain le capita spesso di “rimare”.

Lo scorso 28 ottobre il Brasile è stato vittima di un incantesimo funesto: la vittoria elettorale del candidato di estrema destra M. Jaire Bolsonaro con più di 55 % dei voti (58.000 validi). Le dichiarazioni violente di ritorno all’ordine, che riproducono l’eco della dittatura, sono scagliate contro le donne, la comunità LGBT, gli attivisti di sinistra, i neri, gli indiani, i contadini senza terra e gli ambientalisti. Per un annichilimento della “vita plurale”, come suggerisce Ana Luisa Lima in un altro testo (Por uma curadoria operária, 2018), e a favore della militarizzazione delle favelas, della liberalizzazione delle armi, della privatizzazione delle imprese.

In difesa dei valori democratici e dei diritti sociali fondamentali, pubblicare questo scritto sulla memoria ereditata della dittatura è per noi una dimostrazione di solidarietà con la lotta che è appena iniziata in Brasile, e a cui Ana oggi prende parte,  perché “le rose della resistenza emergono dall’asfalto”[i].  In ricordo di Marielle Franco.

 

L’origine di questo testo scritto da Ana Luisa Lima risale al 2014, anno in cui ci siamo conosciute a Santiago del Cile. Ancora studentessa, il mio ultimo anno avevo deciso di trascorrerlo nella capitale cilena del Cono Sud per iniziare una ricerca sulla produzione culturale emersa durante i diciassette anni di violenza dittatoriale perpetrata dal generale Augusto Pinochet (1973-1989). Un dialogo costante sugli orrori della Storia e l’oblio della memoria è nato tra me ed Ana, alimentandosi nonostante il mio ritorno in Italia. Fu così che le chiesi di scrivere un testo per la mia tesi, la cui ultima parte, Conversazioni, era pensata come uno spazio lasciato a terzi.

Ana Luisa Lima, insieme al poeta cileno Raúl Zurita e agli artisti Stefano Serretta (Italia) e Cristián Silva-Avária (Cile), mi hanno trasmesso la testimonianza di alcune loro memorie, passate e presenti.

[Introduzione di Roberta Garieri]

[i] Intervento di Marielle Franco alla camera dei deputati di Rio de Janeiro durante la Giornata Internazionale della Donna, l’8 marzo 2018.

Ocupação Tupã, Barnabé di Kartola, 2013. Confronto policial contra uma reintegração de posse do edifício abandonado que foi ocupado por militantes por melhor moradia. São Paulo, Brasil.

 

Addio agli eroi

di Ana Luisa Lima

 

La storia dell’umanità la apprendiamo a scrivere partendo dai grandi fatti personificati in un’unica persona. Le narrative che hanno trasformato il mondo, anche se sono esistite grazie allo spargimento di sangue di molti innocenti, convergono nell’applauso e nell’esaltazione di un’unica persona che si configura come eroe, svincolato da qualsiasi macchia d’errore o ingiustizia. La nostra storia cade placida e pulita nei nostri libri, come se tutta la traiettoria umana nella Terra potesse essere letta come una favola che appacifica l’anima, perché, aldilà dell’intreccio oscuro e pieno di tragedie, noi ci troviamo sempre di fronte un finale felice.

Era questa la sensazione che avevo, quando da piccola ho conosciuto il nostro “scopritore” che aveva lasciato il Portogallo alla ricerca delle Indie, una terra di bellezza nella quale si potevano trovare spezie, e in un atto di coraggio e desiderio d’avventura si era lanciato nel Grande Mare ed era arrivato al Nuovo Mondo. Fin da subito, mi hanno insegnato ad ammirare Pedro Álvares Cabral come il fondatore del Brasile. In nessun momento mi è stato permesso dubitare, se non sotto la minaccia di diventare una cattiva studentessa, come qualcuno avrebbe potuto “scoprire” un nuovo mondo che era già abitato da altre persone. Gli indios non abitavano già qui? Fu così che, tra la minaccia e la mia ansia di una storia che assomigliasse maggiormente alla verità, ho imparato a convivere con questa favola sul Brasile che mi raccontavano come storia ufficiale, sebbene palpitasse dentro di me una verità ineluttabile: i suoi primi abitanti furono assassinati impietosamente in nome di una nazione “civilizzata”.

La storia dell’umanità raccontata sotto il marchio delle grandi gesta avrebbe senso solo se, di fatto, tutte le invenzioni, soprattutto tecnologiche, fossero a disposizione di qualsiasi essere umano. Insistere in un modo storicista-lineare di raccontare le vicende umane racchiude in sé un modello di gerarchia che è come una frattura, se dovessimo pensare in termini di una grande comunità globale. Poiché tali gerarchie possono solamente esistere se si basano su preconcetti, finzioni di superiorità di una cultura sull’altra.

La storia dell’umanità sarebbe meglio rappresentata se potessimo raccontarla come La Storia della Violenza. In questa storia entrerebbero meglio i diversi personaggi, anonimi e non, nelle narrative che hanno costruito il mondo così come lo percepiamo oggi. Senza eroi, saremmo capaci di comprendere, senza travestimenti, gli impulsi umani che bramano il potere e che per goderne sono capaci di soppiantare i loro simili.

Mai avrei potuto supporre che sarebbe stato tanto difficile per me parlare della dittatura. Per il fatto di non averla mai vissuta sulla mia pelle, credevo di essere al sicuro dalle sue violenze. Invece no. La dittatura, anche dopo essere stata cancellata come regime governativo, rimane come un’ombra su tutti, senza eccezione. La sensazione che ho adesso è di qualcuno che sanguina. Qualcuno che sente un dolore, ma non è sicuro di dove si localizza e che, proprio per questo, non sa che medicina usare. Allo stesso modo, sono i sintomi delle dittature dentro il corpo di una società da molto tempo frastornata dalle sue violenze. Vivere sotto dittatura inevitabilmente ci insegna a convivere con la cultura della paura, con la quale si apprende progressivamente a liberarsi della capacità di dubitare. La dittatura coltiva l’apatia. È l’instaurazione del completo stato di anestesia. E, in questo senso, svanisce tutta la possibilità di sapersi umano nella sua interezza. È così che la dittatura sopravvive come ombra su un paese che ha dovuto imparare ad esistere come una fantasmagoria di sé stesso.

Una storia di violenza non è facile raccontarla. Perché da essa non c’è alcuna possibilità di far trasparire un lato sublime, onorato, degno. Tutto è vile, meschino, stretto, motivo di vergogna. Sia per chi la impone, sia per chi ne è vittima. Non per niente, passati trenta anni dopo la caduta dell’ultimo governo militare del Brasile, ancora non siamo capaci di parlare apertamente a riguardo. Sono pochi coloro che parlano con una certa tranquillità su quegli anni bui. La grande maggioranza dei brasiliani va avanti senza pace, o perché sono state vittime dirette delle torture e delle scomparse dei loro familiari, o perché sono stati autori/complici di questo ingranaggio del terrore che ha soggiogato il paese per ventuno anni. O ancora, chi scappa da questo binomio va avanti muto per codardia o ha perso la stima per la verità. Davanti la violenza non esiste etica che possa far venire fuori le intenzioni umane con equilibrio. La paura finisce per essere il denominatore comune di un’equazione stupida che fa diventare tutto uguale a zero nel momento in cui siamo intenzionati a scoprire la verità aldilà delle costanti storiche.

14 de junho, Barnabé di Kartola, 2014. Manifestações contra a Copa do Mundo, em Belo Horizonte, Brasil.

 

“Figlia, ascolta questa musica. Senti che bella. Presta attenzione alle parole”. Era così che mio padre mi parlava quando ero più piccola, mentre era professore di lingua portoghese in un collegio cattolico. Ero ancora poco più di una bambina quando ho imparato ad ascoltare e apprezzare la Musica Popolare Brasiliana e ad appassionarmene per la sintassi complessa che c’era nella nostra lingua madre. Ascoltando la musica con mio padre, ho scoperto frammenti di un momento oscuro della storia del paese e della mia stessa famiglia. Ascoltando Gilberto Gil, Caetano Veloso, Ivan Lins, Milton Nascimento e tanti altri, ho imparato ad incantarmi con la musica e la poesia. Ma è stato con Chico Buarque (1), Belchior (2), Geraldo Azevedo e Geraldo Vandré (3) che ho svegliato la mia anima di fronte alle storie di un Brasile non tanto eroico. Attraverso la melodia di questi compositori, mi si rivelavano, nelle loro parole, le fragilità di un paese che si dibatteva con la sua propria storia, una realtà di tranquillità certa che gli scappava dalle mani.

Ancora oggi, so poche cose di ciò che è successo in quel momento di terrore. Alcuni fatti si vanno mostrando a poco a poco nei momenti malinconici di mio padre che, ancora oggi, continua ad ascoltare i suoi compositori preferiti di domenica sulla sua veranda a Recife. Non ho mai capito, per esempio, come la mia famiglia abbia potuto sopravvivere. Sarà che hanno sofferto qualche tortura? Mi chiedo. A quanto pare, la famiglia di mio padre sarebbe stata un bersaglio perfetto per la dittatura. La maggior parte dei fratelli, uomini e donne, erano studenti e chi più, chi meno, tutti coinvolti nella lotta per i diritti umani e il pensiero di sinistra. Mio padre ha dedicato la sua gioventù alla musica, alla poesia, al teatro. Ha militato vicino al movimento studentesco di Recife. All’epoca, ancora studente di Giurisprudenza, lui e suo fratello più giovane, oggi giudice dello stato di Pernambuco, erano tra quelli che aiutavano a liberare i prigionieri politici con l’aiuto di avvocati militanti e l’arcivescovo di Olinda e Recife, Dom Hélder Câmara, mondialmente conosciuto per la sua resistenza al regime militare.

Beninteso, quest’argomento tratta di una cicatrice della pelle ancora molto sensibile che in qualche momento può tornare a sanguinare. Per questo, è con molta attenzione che continuo a collezionare fatti che mi offrono le immagini migliori e che mi aiutano a comporre questo immenso rompicapo di un passato non così distante e ancora senza possibilità di essere qualcosa di chiaro e placato nella nostra memoria.

Imagem do fotolivro ‘APROX. 50.300.000’ de Felipe Abreu, Editora Vibrant, São Paulo, 2017.

 

Lavorando da quasi nove anni come critica e ricercatrice d’arte, ho avuto l’opportunità di reimparare a guardare la storia brasiliana con un pò più di apertura. Tuttavia, ancora incapace di ricostruire la nostra storia, perché la verità continua velata sotto forma di tante favole raccontate dalla dittatura. L’eccesso di propagande del regime autoritario unito ad un discorso di sicurezza familiare e progresso economico del paese per molti anni veicolato in quell’epoca, il silenzio riguardo alle torture e alle scomparse, e il sistema educativo rovinato, ancora riverberano come un fumo nero che impedisce di avere una relazione onesta con gli avvenimenti di quel momento.

Aldilà di tutto, è necessario riflettere che soprattutto questo pezzo di storia del paese non può essere raccontato dagli eroi. Perché proprio coloro che hanno perso la loro vita con la convinzione di servire un fine nobile, si sono fatti carico anche di sangue innocente.

Paradossalmente, all’interno del movimento di sinistra, la violenza trovava posto non solo contro “i nemici della dittatura”, ma anche attraverso giudizi sommari applicati con la morte, togliendo la vita a molti compagni in accordo con i loro gradi d’impegno per ciò che si pensava fosse il pensiero di sinistra puro.

È probabile che ancora non sia questa generazione, ma la prossima, che riuscirà a stabilire i parametri che permettano un’analisi critica reale di tutti gli avvenimenti del governo militare che, senza ombra di dubbio, ha oscurato la nostra storia e ci ha fatto abdicare ad una vita politica salutare. I primi passi (di un cambiamento) cominciano ad essere dati dai documenti consegnati alla fine dell’anno scorso (2013) dalla Comissão da Verdade, istituita durante il governo Dilma due anni fa. Un altro passo compiuto è l’analisi critica della produzione artistica prodotta in quel momento che non solo resisteva all’autoritarismo governativo, ma che rivelava anche le sfumature di una società fragile.

Penso che l’arte, soprattutto in momenti bui come quello della dittatura, si fa carico di una potenza d’immagazzinamento di conoscenze capaci di chiarificare situazioni che insistono a creare le loro favole storiche, per giustificare i loro spargimenti di sangue (sia da un lato che dall’altro). Anche se schiacciata da discorsi egemonici, l’arte sembra, in alcune situazioni, scappare da queste trappole nel reinventare la sua forma, salvaguardando il contenuto per le generazioni future. Nonostante ciò, questi contenuti sono una chiara denuncia che l’umanità non stia agendo bene.

Imagem do fotolivro ‘APROX. 50.300.000’ de Felipe Abreu, Editora Vibrant, São Paulo, 2017.

(1) Vai passar, composição de Chico Buarque e Francis Hime

Vai passar

Nessa avenida um samba
popular
Cada paralelepípedo
Da velha cidade
Essa noite vai
Se arrepiar
Ao lembrar
Que aqui passaram
sambas imortais
Que aqui sangraram pelos
nossos pés
Que aqui sambaram
nossos ancestrais
 

Num tempo
Página infeliz da nossa
história
Passagem desbotada na
memória
Das nossas novas
gerações
Dormia
A nossa pátria mãe tão
distraída
Sem perceber que era
subtraída
Em tenebrosas
transações

Seus filhos
Erravam cegos pelo
continente
Levavam pedras feito
penitentes
Erguendo estranhas
catedrais
E um dia, afinal
Tinham direito a uma
alegria fugaz
Uma ofegante epidemia
Que se chamava carnaval
O carnaval, o carnaval

(Vai passar)

Palmas pra ala dos
barões famintos
O bloco dos napoleões
retintos
E os pigmeus do bulevar
Meu Deus, vem olhar
Vem ver de perto uma
cidade a cantar
A evolução da liberdade

Até o dia clarear
Ai, que vida boa, olerê
Ai, que vida boa, olará
O estandarte do sanatório
geral vai passar
Ai, que vida boa, olerê
Ai, que vida boa, olará
O estandarte do sanatório
geral
    Vai passar
(2) Alucinação, composição de Belchior.

Eu não estou interessado em nenhuma teoria,
Em nenhuma fantasia, nem no algo mais
Nem em tinta pro meu rosto ou oba oba, ou melodia
Para acompanhar bocejos, sonhos matinais
Eu não estou interessado em nenhuma teoria,
Nem nessas coisas do oriente, romances astrais
A minha alucinação é suportar o dia-a-dia,
E meu delírio é a experiência com coisas reais
Um preto, um pobre, um estudante, uma mulher sozinha
Blue jeans e motocicletas, pessoas cinzas normais
Garotas dentro da noite, revólver: cheira cachorro
Os humilhados do parque com os seus jornais
Carneiros, mesa, trabalho, meu corpo que cai do oitavo andar
E a solidão das pessoas dessas capitais
A violência da noite, o movimento do tráfego
Um rapaz delicado e alegre que canta e requebra, é demais
Cravos, espinhas no rosto, Rock, Hot Dog, "play it cool, Baby"
Doze Jovens Coloridos, dois Policiais
Cumprindo o seu (maldito) duro dever e defendendo o seu amor e nossa vida
Cumprindo o seu (maldito) duro dever e defendendo o seu amor e nossa vida
Mas eu não estou interessado em nenhuma teoria, em nenhuma fantasia, nem no algo mais
Longe o profeta do terror que a laranja mecânica anuncia
Amar e mudar as coisas me interessa mais
Amar e mudar as coisas, amar e mudar as coisas me interessa mais
Um preto, um pobre, um estudante, uma mulher sozinha
Blue jeans e motocicletas, pessoas cinzas normais
Garotas dentro da noite, revólver: cheira cachorro
Os humilhados do parque com os seus jornais
Carneiros, mesa, trabalho, meu corpo que cai do oitavo andar
E a solidão das pessoas dessas capitais
A violência da noite, o movimento do tráfego
Um rapaz delicado e alegre que canta e requebra, é demais
Cravos, espinhas no rosto, Rock, Hot Dog, “play it cool, Baby”
Doze Jovens Coloridos, dois Policiais
Cumprindo o seu (maldito)duro dever e defendendo o seu amor e nossa vida
Cumprindo o seu (maldito)duro dever e defendendo o seu amor e nossa vida
Mas eu não estou interessado em nenhuma teoria,
Em nenhuma fantasia, nem no algo mais
Longe o profeta do terror que a laranja mecânica anuncia
Amar e mudar as coisas me interessa mais
Amar e mudar as coisas, amar e mudar as coisas me interessa mais
(3) Canção da Despedida, composição de Geraldo Azevedo e Geraldo Vandré.

já vou embora, mas sei que vou voltar
Amor não chora, se eu volto é pra ficar
Amor não chora, que a hora é de deixar
O amor de agora, pra sempre ele ficar
Eu quis ficar aqui, mas não podia
O meu caminho a ti, não conduzia
Um rei mal coroado,
Não queria
O amor em seu reinado
Pois sabia
Não ia ser amado
Amor não chora, eu volto um dia
O rei velho e cansado já morria
Perdido em seu reinado
Sem Maria
Quando eu me despedia
No meu canto lhe dizia

 [traduzione di  Carlotta Pisano] 

 

Ana Luisa Lima (Brasile, 1978) è critica d’arte, scrittrice e ricercatrice indipendente negli ambiti della letteratura e delle arti visive. Redattrice della rivista Tatuí (2006-2015), ha partecipato a dibattiti, promosso residenze editoriali, organizzato laboratori di scrittura di critica d’arte in diversi stati brasiliani. Ha partecipato alla progettazione e allo sviluppo del progetto Carta de Intenção – Edição Campinas, residenza di sperimentazione di scrittura in arti visive (Proac-SP, 2013). Co-curatrice del progetto Poemas aos homens do nosso tempo – Hilda Hilst em diálogo, Programa Rede Nacional Funarte 9ª edição, 2013. Fondatrice di Cigarra Editora. Autrice del libro ’16’39’ a extinção do reino deste mundo (São Paulo-SP, 2015). Nell’audiovisivo ha pubblicato il suo primo cortometraggio Zona Habitável (13′, Nova Lima – MG, Brasile, 2015).

L’immagine di copertina è di Rosa Navarro, Nacer y morir de una rosa (Birth and Death of a Rose), 1982.

 

 

 

 

 

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