I am. We are. That is enough. Now we have to begin. Life has been put in our hands, Ernst Bloch, The Spirit of Utopia (1915-16).
Iran, 2 novembre 2024. Fuori dall’Università Islamica Azad di Teheran, Mahla Daryaei, dottoranda di 30 anni in letteratura francese, cammina a braccia conserte tra le colleghe e colleghi vestita solo della sua biancheria intima. La foto che la ritrae diventa virale sui social media e il suo corpo è al centro di un dibattito internazionale. Una giovane donna in lotta per essere stata affrontata e molestata, i suoi vestiti strappati, dalle forze paramilitari Basij per non aver rispettato le leggi sull’utilizzo obbligatorio dell’hijab nel Paese. Per il governo iraniano, il suo gesto è un’evidente manifestazione di “problemi psichici” che viola la morale pubblica. Mahla Daryaei detta Ahoo è stata arrestata, lasciando dietro di sé una scia di notizie incerte su dove sia trattenuta, sulle sue condizioni e il suo destino. La sua ribellione è un simbolo della lotta delle donne iraniane per la libertà. Sul corpo e l’immagine di Mahla si inscrive violento quel feticismo occidentale figlio del retaggio coloniale che punta i riflettori solo sui gesti simbolici che corrispondono all’idea occidentale di liberazione femminile, di emancipazione; dove si riversa anche lo sguardo di ciò che è il femminismo “bianco”. Questa selettività mediatica è semplicistica e incapace di confrontarsi con la complessità, con il pluralismo delle società non occidentali che non riesce a riconoscere, cancellandone l’identità attraverso una politica anti-Islam su cui istituire invece la propria sovranità imperialista dai presunti valori culturali. Una strumentalizzazione politica che mette in ombra la realtà della repressione subita quotidianamente dalle donne iraniane, rendendone invisibile la sofferenza e rafforzando la propaganda fascista del regime. Secondo una convinzione compassionevole e vittimistica, che riguarda anche una parte del femminismo bianco e borghese, una donna che si spoglia in Iran si fa portavoce di un intero gruppo di donne musulmane che hanno bisogno di essere salvate.
Le studentesse iraniane si tolgono l’hijab obbligatorio e in segno di ribellione alzano il dito medio davanti ai ritratti dell’Ayatollah Khamenei e del fondatore della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini.
Chiara Antonelli: In un video postato sul tuo profilo Instagram, viene ripresa una donna che opponendosi a un Basij, mentre la accusa di offendere l’Iman Hussein per aver camminato di fronte a una moschea senza velo, afferma: «Non cercare di spaventarmi. Continuerò a sostenere le mie convinzioni fino a quando la vena del mio collo non sarà tagliata. Sono una donna e resisterò fino alla fine… chi diavolo è l’Imam Hossein?». Ecco che seguendo una delle retoriche più diffuse, spesso affidate a discorsi orientalistici e in nome della sorellanza, una parte del femminismo coloniale, bianco-centrico e neoliberale si domanda: “Le donne iraniane hanno davvero bisogno di essere salvate?”
Bani Khoshnoudi: Credo che ci sia una grande distorsione nel modo in cui è stata formulata la tua domanda, riducendo l’atto di protesta delle donne iraniane prima di tutto a qualcosa che deve essere forzatamente strumentalizzato o inquadrato da un punto di vista occidentale, creando fumo negli occhi e offuscando ciò che è realmente in gioco. Posizionare una dicotomia tra Occidente e Altro può essere profondamente semplicistico e, sebbene questa dicotomia sia stata una parte importante dei movimenti postcoloniali degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, nel contesto globale odierno di neoliberismo e neocolonialismo, semplifica la nostra comprensione quando invece dobbiamo renderci conto che le questioni politiche sono molto più complesse. Questa semplicità non è solo fastidiosa ma può essere piuttosto pericolosa, in quanto permette di coltivare un linguaggio manipolatorio, gesti e discorsi autoritari e riducendo, infine, il mondo a una mentalità divisiva. Com’è possibile esprimerci come se ognuno di noi non fosse influenzato dall’altro, storicamente parlando, e come se l’origine della lotta delle donne debba essere compresa a partire dalle forzature dell’Occidente. Edward Said ha scritto molto su questa pericolosa e semplicistica dicotomia. Egli ha ripetutamente denunciato che l’idea inventata di uno scontro di civiltà è alla base di una mentalità estremamente coloniale, al servizio delle strutture di dominio.
«Le costruzioni di finzione come “Oriente” e “Occidente”, per non parlare di essenze razziste come le razze soggette […] erano ciò che i miei libri cercavano di combattere. Lungi dall’incoraggiare un senso di innocenza primordiale e dolorosa nei Paesi che avevano ripetutamente subito le devastazioni del colonialismo, ho affermato più e più volte che astrazioni mitiche come queste erano menzognere, così come le varie retoriche di biasimo a cui davano origine; le culture sono troppo mescolate, i loro contenuti e le loro storie troppo interdipendenti e ibride, per una separazione chirurgica in grandi opposizioni per lo più ideologiche come Oriente e Occidente» [I].
Oggi, nonostante l’importanza del movimento decoloniale e la
necessità di portare avanti con il suo pensiero e le sue azioni per decostruire
le strutture di potere in cui viviamo, esistono vari approcci e idee che non
sembrano minimamente interessati alla liberazione del cosiddetto Terzo mondo
dai meccanismi occidentali, ma che alimentano la continuazione delle stesse
strutture e definizioni che hanno permesso di giustificare l’invasione e
l’estrazione di altre terre. Potrebbe sembrare strano, perché ovviamente non
segue l’idea rigorosa di decolonialità come nei libri accademici, che di giorno
in giorno sono diventati sempre più numerosi e di tendenza. Tuttavia, voglio
sottolineare che mi preoccupa il modo in cui molta teoria decoloniale si nutra
di un simile uso dominante e manipolatorio del linguaggio e della censura al
fine di difendere gli oppressi, quando in realtà lavora per un discorso che
sembra addirittura preferire il loro mantenimento (l’indigeno, la donna, la
donna musulmana in particolare, e altri popoli oppressi) all’interno di un
quadro discorsivo di sfruttamento, al fine di giustificare l’avanzamento dei
propri interessi di ricerca e pubblicazione.
Dobbiamo essere estremamente rigorosi quando iniziamo a
puntare il dito, a classificare, a cancellare, a ridurre in termini
semplicistici la realtà dei popoli che sono stati effettivamente oppressi e
sfruttati, per evitare di diventare proprio i colpevoli e di mantenere una
comprensione semplicistica, ingenua, di una specifica situazione con l’obiettivo
di giustificare il proprio discorso di antimperialismo o di resistenza
anticoloniale.
L’hijab è diventato uno strumento di silenziamento, di
oppressione, anche all’interno di questo discorso, e non solo sul corpo. Che si
tratti di una scelta della donna o meno, è qualcosa che va oltre. Continuo a
difendere, nell’eredità delle femministe arabe e iraniane che ci hanno
preceduto, la profonda convinzione che nessuna donna deciderebbe di velarsi se
non ci fosse un sistema oppressivo e patriarcale a imporlo, a suggerirlo o a
definirlo come necessario, che sia attraverso la legge o dinamiche familiari.
La mia risposta è che la domanda non dovrebbe essere “le donne iraniane hanno
davvero bisogno di essere salvate?” ma piuttosto perché questa dovrebbe essere
una domanda, quando loro combattono e muoiono, rischiando la vita ogni giorno e
non solo durante questi 46 anni di Repubblica islamica, ma da oltre 100 anni,
nel contesto dell’Iran moderno? Ci sono tracce di rivolte di donne che chiedono
diritti e uguaglianza in tutto il mondo musulmano, da decenni. Cosa c’è nella
liberazione delle donne nei Paesi musulmani che mette a disagio la cosiddetta
mentalità decoloniale? Perché è così fastidioso che le donne iraniane e
algerine lottino per avere pari diritti? Non vedete che il velo è la punta dell’iceberg?
Perché la necessità di vittimizzare ancora una volta la donna iraniana (e la
donna musulmana) come se fosse un’idiota manipolata dall’Occidente? È così che
comprendiamo e rispettiamo le donne iraniane, algerine, tunisine, palestinesi,
egiziane, ecc. che si sono riunite segretamente, educando le loro figlie a
lottare per il cambiamento?
Proteste a Tehran il sabato dopo la morte di Jîna Mahsa Amini.
Per quanto riguarda il discorso antirazzista in Francia, per
esempio, che si concentra sul velo e sulla sua proibizione nelle scuole e
sostenendo che il velo è una questione identitaria, lo devo rifiutare. Sono
ovviamente molto coinvolta nell’antirazzismo in qualsiasi contesto, ma ridurre
il velo a un segno culturale, a una questione di identità, è estremamente
ingenuo. Mi dilungherò ulteriormente su questo punto, ma credo che ci sia stata
una manipolazione di grande successo da parte dell’ideologia islamica che
condanno, come condanno tutte le ideologie religiose, per portare la sinistra
nelle sue fila come suoi semplici soldati. Se una donna, se una ragazza, ha il
diritto di scegliere, allora dovrebbero anche lasciarla scegliere. Velare le
bambine a 4, 5 anni, e poi in modo più permanente a 11 anni, non è libertà di
scelta. È qui che sta la confusione, non nel fatto che il velo sia oppressivo o
meno per le donne.
Permettimi di collegare questa domanda a un’altra questione,
quella della manipolazione e dell’immagine della resistenza, che mi ha
preoccupato recentemente. Mentre la resistenza palestinese è una delle lotte
più nobili di oggi, il mondo è caduto rapidamente e ciecamente nella trappola
di idolatrare leader la cui politica è estremamente autoritaria e fascista. Non
c’è un se e un ma… non c’è un sì, ma… applaudire e idolatrare ciecamente,
ad esempio, l’ultima immagine di Yahya Sinwar mentre affronta il drone
israeliano è un sintomo di questa confusione. Nonostante la sua lotta contro l’occupazione
sionista e l’abominevole violenza israeliana, che dire della sua politica e dei
suoi metodi discutibili? Può essere messo da parte mentre è in gioco la
liberazione della Palestina? Forse, ma è sicuramente necessario interrogarsi,
parlare e riflettere sulle implicazioni politiche. Lo abbiamo vissuto in Iran,
proprio grazie alla sinistra occidentale che ha sostenuto senza mezzi termini
gli islamisti che hanno preso il potere, gettando ovviamente le donne iraniane
sotto l’autobus della storia. Un’immagine di Yahya Sinwar o dell’Ayatollah
Khomeini non è discutibile per gli anticolonialisti, mentre l’immagine della
donna iraniana viene immediatamente attaccata, molto probabilmente perché crea
disagio, e quindi deve essere descritta e cancellata come un prodotto
dell’Occidente. Non è forse ancora una volta violenza contro le donne? Non
è forse lavorare al servizio del regime iraniano assassino?
Devo ricordare che l’Ayatollah Khomeini, i suoi successivi discepoli e gli attuali leader corrotti e fascisti dell’Iran, hanno sempre usato questa stessa scusa per attaccarci e ridurci a oggetti da mettere a tacere ed eliminare. È preoccupante vedere come la sinistra, a volte anche i miei stretti colleghi, siano diventati ancora una volta, a loro malgrado, confusi, incerti e vittime dell’autocensura e della censura degli altri. Per quanto voglia comprendere questa confusa “radicalità” che può risiedere nel discorso decoloniale, voglio anche che questi pensatori si assumano la responsabilità delle loro parole e delle loro azioni. Dopo l’errore madornale di Michel Foucault che approvò con convinzione facendo anche propaganda per la nascita della Repubblica islamica in Iran [ii] – che si sarebbe trasformata poi in una delle più corrotte macchine da guerra della regione -, noi della sinistra avremmo già imparato dai nostri errori quando sosteniamo che l’Occidente sta definendo certe forme di protesta, mentre noi dovremmo conformarci a una cosiddetta essenza culturale, che di per sé è un’idea molto fascista. In definitiva, è questo che annulla e manipola la lotta delle donne nel mondo musulmano. Non le leggi laiche della Francia.
Le donne non si liberano indossando il velo. Questa è un’idea
delirante, fabbricata dalla propaganda islamista, ripetuta e diffusa dalla
sinistra (ancora una volta) che ci mette infine a completa disposizione del
pensiero fascista travestito da corretta politica, abbandonando le donne nelle
mani della religione e del patriarcato.
Manifestante brucia il suo hijab durante le proteste sorte dopo la morte di Jîna Mahsa Amini.
In questo momento, la mia preoccupazione non è nemmeno quella delle donne iraniane: non abbiamo bisogno dell’Occidente e non abbiamo necessariamente bisogno di essere comprese dall’Occidente. Non ce ne può importare di meno, perché siamo molto più forti e abbiamo combattuto da sole per tutti questi anni. La mia preoccupazione principale è per le donne afghane, che sono state sostanzialmente abbandonate dalle femministe decoloniali occidentali mentre l’Occidente è stato molto coinvolto nel loro Paese per diversi decenni. Poiché la loro situazione è al di là di ogni immaginazione, schiavizzate e praticamente cancellate dalla vita pubblica, chiuse in casa come prigioniere, scambiate tra uomini a loro uso e piacere… e poiché la loro situazione è così complessa, non rientra nemmeno nelle categorie perfette del decolonialismo che hanno ridotto e descritto la nostra resistenza come un ritorno alle origini, qualunque cosa sia questa origine e come se fosse possibile cancellare centinaia di anni di storia.
Naturalmente nessuno di questi studiosi vive nei Paesi di cui stiamo parlando. La maggior parte di loro vive proprio in Occidente, in particolare in Europa, e vive abbastanza bene. Le loro carriere e le loro pubblicazioni si sono fatte spazio cancellando spesso la lunga eredità delle donne musulmane o delle donne del mondo musulmano che hanno rischiato la vita per lottare contro l’uso della religione, per dominarle, controllarle e a volte persino schiavizzarle. Nawal El Saadawi ha detto, in un testo scritto in tarda età nel 2008: “La fede cieca porta al fondamentalismo cieco, al fanatismo cieco, al razzismo cieco, al sessismo cieco, all’odio cieco e all’amore cieco” [iii]. Da Sediqeh Dowlatabadi a Nawal El Saadawi… perché non torniamo indietro e non impariamo da loro?
Proteste e sollevazioni seguono la morte di Jîna Mahsa Amini, Tehran, Iran, 19 settembre, 2022. WANA NEWS AGENCY / via REUTERS
Donne iraniane senza velo ballano intorno a un falò a Bandar Abbas, nella provincia di Hormozgan, 22 settembre 2022.
CA:Agli occhi dell’Occidente l’hijab è un simbolo
di oppressione, di annullamento, della soggettività femminile creando
confusione tra il rifiuto dell’hijab obbligatorio e il suo rifiuto in generale.
Le donne con il velo vengono demonizzate e strumentalizzate per diffondere
paura, e per impedire una convivenza comunitaria. Sulla loro identità culturale
viene impressa quella religiosa, per una politica di supremazia occidentale
razzista legittimando l’antagonismo verso i Paesi islamici. L’hijab non è
piuttosto una questione di libertà individuale? Qual è il suo significato nella
presente rivoluzione iraniana?
BK: Non è solo agli occhi degli occidentali che
l’hijab è un oggetto oppressivo. La differenza è che noi che abbiamo vissuto
nei Paesi musulmani non lo viviamo come un simbolo; non abbiamo questo tipo di
privilegio come voi. Dobbiamo conviverci per quello che è: uno strumento
destinato a umiliare, mettere a tacere e differenziare le donne dagli uomini.
La confusione è generata anche dall’idea che si debba scegliere da che parte
stare, che combattendo l’antirazzismo alla fine si debba abbracciare il velo come
se fosse una cosa bella in sé, come se fosse essenza culturale (ancora
quel principio fascista). La supremazia occidentale, o meglio bianca, non
esiste solo nei confronti del velo, ma anche di chiunque provenga da un Paese e
da una cultura diversa dalla propria. Al di là del velo. Il velo è diventato un
oggetto feticizzato e, per estensione, anche il corpo della donna è tornato a
essere più un oggetto di dibattito che un’esperienza reale.
Chiedo a coloro che rivendicano l’essenza culturale di
imparare qualcosa sulle culture estremamente diverse e complesse che
attraversano il mondo musulmano, soprattutto sul fatto che la “libertà
individuale” non esiste nemmeno in questo contesto. È qui che la difesa del
velo come libertà individuale diventa assurda. È un’idea liberale che tutti
possano decidere da soli. L’attacco politico francese (egocentrico e
semplicistico) all’hijab ha purtroppo portato a una maggiore feticizzazione di
questo pezzo di stoffa, come se fosse ciò che definisce e racchiude una
cultura. Peggio ancora, il chador integrale, che non era molto usato nei Paesi
nordafricani, è ora diventato una tendenza nelle giovani generazioni di ragazze
francesi, le cui politiche identitarie e il cui revanscismo
sono state alimentate da poteri superiori, estremamente organizzati la cui
linea di sangue è l’antagonismo allo Stato francese. Ora sappiamo dell’ISIS,
un’altra di quelle situazioni scomode da elefante nella stanza. Come possiamo
fingere e difendere che l’identità culturale algerina, marocchina, tunisina
ecc. sia fatta di questo consolidamento nel velo? È così difficile ammettere la
manipolazione e la strumentalizzazione di questi metri di stoffa, che hanno
solo creato altre masse di donne da usare e sacrificare per una certa idea di
cultura, completamente dominata dall’ideologia religiosa?
Naturalmente, non affronterei mai e non ho mai affrontato
nessuno in merito all’uso del velo. Non è vero il contrario. Come gesto di
silenzio e di censura, a un certo punto è forzatamente un problema. Quando
sento dire che il velo è un segno di liberazione, vorrei solo che chi osa dire
questo andasse a trascorrere del tempo in un luogo in cui il problema è reale.
Apprezzo il fatto che le ragazze sotto i 18 anni possano essere libere dalla
politica e dalle regole religiose della loro famiglia nel contesto della scuola
e vivere alla pari con i ragazzi della loro età. Non è così nei Paesi
musulmani. Non c’è uguaglianza sotto la Sharia, e tutta l’uguaglianza sotto la
legge nei Paesi musulmani deriva dalle lotte che le donne sono state in grado
di vincere nel contesto della modernità. Non tutti gli aspetti della modernità
sono negativi. Dobbiamo evitare questa pericolosa dicotomia.
La cosa interessante è che all’interno dei nostri Paesi (dove le questioni sono vissute in prima persona e non in modo ipotetico), la sinistra nei nostri paesi sta in realtà combattendo soprattutto per liberarci dalla religione, come ogni sinistra dovrebbe fare. Dico questo, ma dovrei meglio dire “ciò che resta della sinistra” nei nostri Paesi, dato che la maggior parte di loro è stata imprigionata o uccisa dai regimi autoritari, che si tratti dell’Iran, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria, dell’Algeria, della Palestina… c’è una lotta in ognuno di questi Paesi che testimonia questo processo storico.
Una protesta a Teheran, Iran, ottobre 2022, courtesy Internazionale
CA:Teheran, 16 settembre 2022. Jîna Mahsa Amini,
una giovane donna curda iraniana, viene uccisa dalla polizia morale per una
ciocca di capelli fuori dall’hijab. Con la sua morte, un ciclo di proteste di
disobbedienza sotto il grido di Donna, vita, libertà ha acceso un fuoco
senza precedenti. Di chi e di cosa è portavoce Donna, vita, libertà?
Qual è il suo ruolo e la sua aspirazione; e in che modo agisce? Possiamo
affermare che la sua voce risuona in un contesto più ampio del solo Iran, direi
mondiale?
BK: Credo che sia uno slogan e un movimento orizzontale, spontaneo, universale e anarchico. Non c’è un capo né un partito che abbia organizzato tutto questo, eppure si è diffuso come un incendio da un capo all’altro dell’Iran. È iniziato in Kurdistan, un potente centro di resistenza di sinistra in Iran da decenni. La sua aspirazione è quella di combattere il fascismo e di attaccarne lo stesso nucleo, perché se riusciamo a impedire al regime di velarci, riusciamo a impedirgli anche di metterci a tacere. In questo caso direi che il velo diventa un simbolo, ma anche un simbolo con un’intenzione pragmatica molto specifica. Quando si velano le donne, ovviamente con la forza perché molte di loro non vogliono e non hanno mai voluto essere velate, le si marchia come esseri inferiori. Il velo è un pezzo di stoffa, certo, ma è quello che vi si nasconde dietro a essere preoccupante. Il velo è solo la punta dell’iceberg direttamente legato alle tremende leggi e regolamenti sull’esistenza stessa delle donne all’interno della società, soprattutto in quelle nazioni che sono ancora soggetti alla legge islamica e alla Sharia. In molti Paesi come il Libano e l’Iran prima del 1979, le leggi sulla famiglia e sull’uguaglianza sono state riformate per proteggere le donne e i bambini. A un certo punto è importante chiamare le cose per quello che sono e smetterla di sentirsi in colpa come i sinistroidi occidentali. La legge islamica è contro le donne. Non vedo come si possa discutere di questo. Dà alle donne la metà dei diritti degli uomini. Nessuna di queste giovani francesi che indossano il chador si rende conto di essere completamente ingenua, di vivere protetta dai diritti umani e civili fondamentali di uguaglianza, mentre viene manipolata nel gioco politico di qualcun altro che usa il velo come strumento. Hanno vissuto come le donne afghane? Non si tratta di una questione di scelta. Se le donne nei Paesi musulmani possono vivere con pari diritti e decidere comunque di velarsi (da sole e non per imposizione della famiglia), allora ovviamente la scelta è rispettata e, onestamente, non credo che avrebbero la stessa “preoccupazione” per il velo che si sta sollevando. Come molte delle vecchie generazioni di donne della mia famiglia, come in molte famiglie iraniane, le donne aspirano alla liberazione delle loro figlie dalla dominazione maschile. Questo inizia con il velo, proprio come i padri mettono il velo sulle giovani figlie prima che sappiano cosa sia la sessualità. Penso che Donna, Vita, Libertà sia un movimento audace e nobile che ha fatto il giro del mondo. Ha infranto un tabù. Ha creato un precedente. Non ha paura e unisce le donne, velate o meno, per la loro completa liberazione; ma anche delle persone LGBTQ+ e di altri popoli oppressi. Questa è una vera decostruzione, un decolonialismo. Non è un prodotto dell’Occidente. Assolutamente no.
Proteste e sollevazioni seguono la morte di Jîna Mahsa Amini, settembre 2022.
CA:Durante la tua lecture-performance Here and there: minutes on the new Iranian revolution, che si è tenuta in Naba, a Milano, il 20 novembre 2023, racconti che, nelle accese manifestazioni che designano oggi il clima di protesta in Iran, il fuoco viene utilizzato per il suo significato simbolico di purificazione, come rito di passaggio da un prima a un dopo. Qual è il significato di questo sistema magico-protettivo all’interno della cultura iraniana? Come viene utilizzato nella rivoluzione e perché? Il suo utilizzo è correlato all’accensione dei fuochi durante la festa Chaharshanbe Suri, in vigilia del Nowruz?
BK: È una mia interpretazione però sì, il fuoco è
molto presente nella nostra vita e nei nostri rituali. Rappresenta la purezza e
il rinnovamento. Ci stiamo ripulendo continuamente dai diversi strati di
fascismo che dobbiamo sperimentare. Anche se non brucia tutto così facilmente,
il fuoco continua ad ardere…
Durante le rivolte al grido di Woman Life Freedom, 2023.
CA:Facendo riferimento al tuo lavoro di artista, filmmaker
e attivista, nella tua pagina Instagram condividi che «stando qui, il mio corpo disconnesso e dislocato dalla sua
gente e dalla sua origine, non posso che essere una modesta testimone». Come la tua arte si relaziona con ciò che accade in Iran
e in che modo avviene questa relazione? Negli ultimi anni, stai compiendo un
grande lavoro di archiviazione della rivoluzione iraniana, attraverso numerosi
filmati e immagini: come vivi la distanza fisica che in qualche modo direi che
ti è stata imposta con il tuo Paese, ma anche con i tuoi colleghi artisti e
registi?
BK: Non posso più tornare lì. Le mie idee creerebbero una situazione pericolosa per me. Questo è il fascismo. Mette a tacere ed elimina coloro che rappresentano una minaccia per la sua esistenza. Le donne in Iran sono una minaccia per il fascismo. Non posso più essere per le strade di Teheran a gridare, a protestare con la mia gente, quindi per quanto riguarda il movimento lì devo essere solo una testimone e parlare con e attraverso le immagini che posso raccogliere a distanza. Immagini fatte e lanciate in aria da chi è lì, per essere archiviate. È un’azione collettiva, inconscia, quella di costruire questo archivio senza identità personali. Nessun copyright, né un’idea di individualità che domina sul collettivo. Queste sono le nostre immagini. Tuttavia, devo sottolineare che l’Iran non è il mio unico Paese. Sono un’internazionalista e ho creato vita e legami in altri luoghi, in particolare in Messico, il mio Paese d’adozione. La lotta contro la violenza sulle donne in Messico fa parte della stessa lotta che stanno conducendo anche le donne iraniane. Non vogliamo che la violenza ci venga fatta dagli uomini, dallo Stato, dal Narco, dalle istituzioni, dalla religione, da chi pretende di difenderci. Quindi, per molti versi, sono in Iran senza esserci.
Bani Khoshnoudi, The Silent Majority Speaks, 2010-2014.
CA:Si è ormai conclusa la 60° Biennale di Venezia, a cura di Adriano Pedrosa, dove hai contribuito a uno dei suoi progetti più centrali: Disobedience Archive (The Zoetrope) di Marco Scotini, con due sezioni Gender Disobedience e Diaspora Activism,con il tuo film Transit(s): Our Traces, Our Ruin (2016) le cui immagini in movimento ripercorrono le tracce di un tema centrale della tua ricerca, “il movimento degli esseri umani attraverso il pianeta è una storia millenaria e ripetitiva. Segue le evoluzioni delle nostre città, le loro catastrofi e talvolta le loro cadute”. Che esperienza è stata quella della Biennale? Una mostra che partiva da un presupposto decoloniale (eppure senza prendere posizione con il genocidio in corso a Gaza), con un film così umanamente sincero rispetto alle complessità identitarie ed emotive, alle paure, di chi viene definito in relazione a un luogo “straniero” e come queste istanze funzionano all’interno del sistema istituzionale?
BK: Credo che lo spazio di Disobedience Archive sia stato particolare in quanto ha riunito diverse soggettività in uno spazio collettivo. Singoli artisti, che a volte hanno lavorato in gruppo, sono stati messi in dialogo per creare un contesto di rappresentazione orizzontale. Nessuna gerarchia, nessuna evidenziazione, nessun grande e piccolo, tutto fa parte di un’idea di resistenza, archivio e lotta attraverso l’immagine.
CA:In questi giorni, mesi, anni così bui a livello
mondiale in cui sembriamo viaggiare come su una timeline priva di senso,
con un’affermazione sempre più repentina di politiche fasciste e un taciuto
indebolimento intrinseco delle sinistre: dove risiede per te la speranza?
BK: In mia figlia e nelle nuove generazioni qui e là.
Bani Khoshnoudi, The Vanishing Point, 2025.
È possibile scaricare qui la versione in inglese dell’intervista:
[i] Edward W. Said, Representations of the Intellectual:
The 1993 Reith Lectures, Ed. Vintage, p. XI.
[ii] Michel
Foucault, Ritorno al profeta, Corriere della sera, 1978.
[iii] Nawal El Saadawi, “How to fight against the Postmodern slave system” (2008), in The Essential Nawal El Saadawi: A Reader, ZED Books, 2013.
Ritratto di Bani Khoshnoudi.
Bani Khoshnoudi è una regista e artista iraniana, realizza documentari e film di finzione, oltre a installazioni e progetti fotografici. Il suo lavoro indaga la storia della modernità in Iran, nonché gli strati, le storie e le esperienze legate all’esilio e alla migrazione. Il suo documentario The Silent Majority Speaks del 2009, vietato in Libano e in Iran, è un affresco politico su 100 anni di rivolte politiche in Iran ed è stato incluso nel progetto espositivo di Georges Didi-Huberman Uprisings al Jeu de Paume, e definito da Nicole Brenez come uno dei dieci film essenziali del secolo. Il suo lungometraggio di finzione Fireflies del 2019 è stato realizzato in Messico e ha vinto il premio HBO Best Ibero-American Feature al Miami International Film Festival. Nel 2022 ha ricevuto il prestigioso Herb Alpert Award for the Arts for Film and Video e ha partecipato alla mostra principale della 60a Biennale di Venezia Foreigners Everywhere, curata da Adriano Pedrosa.
di Chiara Antonelli.
I am. We are. That is enough. Now we have to begin. Life has been put in our hands, Ernst Bloch, The Spirit of Utopia (1915-16).
Iran, 2 novembre 2024. Fuori dall’Università Islamica Azad di Teheran, Mahla Daryaei, dottoranda di 30 anni in letteratura francese, cammina a braccia conserte tra le colleghe e colleghi vestita solo della sua biancheria intima. La foto che la ritrae diventa virale sui social media e il suo corpo è al centro di un dibattito internazionale. Una giovane donna in lotta per essere stata affrontata e molestata, i suoi vestiti strappati, dalle forze paramilitari Basij per non aver rispettato le leggi sull’utilizzo obbligatorio dell’hijab nel Paese. Per il governo iraniano, il suo gesto è un’evidente manifestazione di “problemi psichici” che viola la morale pubblica. Mahla Daryaei detta Ahoo è stata arrestata, lasciando dietro di sé una scia di notizie incerte su dove sia trattenuta, sulle sue condizioni e il suo destino. La sua ribellione è un simbolo della lotta delle donne iraniane per la libertà. Sul corpo e l’immagine di Mahla si inscrive violento quel feticismo occidentale figlio del retaggio coloniale che punta i riflettori solo sui gesti simbolici che corrispondono all’idea occidentale di liberazione femminile, di emancipazione; dove si riversa anche lo sguardo di ciò che è il femminismo “bianco”. Questa selettività mediatica è semplicistica e incapace di confrontarsi con la complessità, con il pluralismo delle società non occidentali che non riesce a riconoscere, cancellandone l’identità attraverso una politica anti-Islam su cui istituire invece la propria sovranità imperialista dai presunti valori culturali. Una strumentalizzazione politica che mette in ombra la realtà della repressione subita quotidianamente dalle donne iraniane, rendendone invisibile la sofferenza e rafforzando la propaganda fascista del regime. Secondo una convinzione compassionevole e vittimistica, che riguarda anche una parte del femminismo bianco e borghese, una donna che si spoglia in Iran si fa portavoce di un intero gruppo di donne musulmane che hanno bisogno di essere salvate.
Chiara Antonelli: In un video postato sul tuo profilo Instagram, viene ripresa una donna che opponendosi a un Basij, mentre la accusa di offendere l’Iman Hussein per aver camminato di fronte a una moschea senza velo, afferma: «Non cercare di spaventarmi. Continuerò a sostenere le mie convinzioni fino a quando la vena del mio collo non sarà tagliata. Sono una donna e resisterò fino alla fine… chi diavolo è l’Imam Hossein?». Ecco che seguendo una delle retoriche più diffuse, spesso affidate a discorsi orientalistici e in nome della sorellanza, una parte del femminismo coloniale, bianco-centrico e neoliberale si domanda: “Le donne iraniane hanno davvero bisogno di essere salvate?”
Bani Khoshnoudi: Credo che ci sia una grande distorsione nel modo in cui è stata formulata la tua domanda, riducendo l’atto di protesta delle donne iraniane prima di tutto a qualcosa che deve essere forzatamente strumentalizzato o inquadrato da un punto di vista occidentale, creando fumo negli occhi e offuscando ciò che è realmente in gioco. Posizionare una dicotomia tra Occidente e Altro può essere profondamente semplicistico e, sebbene questa dicotomia sia stata una parte importante dei movimenti postcoloniali degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, nel contesto globale odierno di neoliberismo e neocolonialismo, semplifica la nostra comprensione quando invece dobbiamo renderci conto che le questioni politiche sono molto più complesse. Questa semplicità non è solo fastidiosa ma può essere piuttosto pericolosa, in quanto permette di coltivare un linguaggio manipolatorio, gesti e discorsi autoritari e riducendo, infine, il mondo a una mentalità divisiva. Com’è possibile esprimerci come se ognuno di noi non fosse influenzato dall’altro, storicamente parlando, e come se l’origine della lotta delle donne debba essere compresa a partire dalle forzature dell’Occidente. Edward Said ha scritto molto su questa pericolosa e semplicistica dicotomia. Egli ha ripetutamente denunciato che l’idea inventata di uno scontro di civiltà è alla base di una mentalità estremamente coloniale, al servizio delle strutture di dominio.
«Le costruzioni di finzione come “Oriente” e “Occidente”, per non parlare di essenze razziste come le razze soggette […] erano ciò che i miei libri cercavano di combattere. Lungi dall’incoraggiare un senso di innocenza primordiale e dolorosa nei Paesi che avevano ripetutamente subito le devastazioni del colonialismo, ho affermato più e più volte che astrazioni mitiche come queste erano menzognere, così come le varie retoriche di biasimo a cui davano origine; le culture sono troppo mescolate, i loro contenuti e le loro storie troppo interdipendenti e ibride, per una separazione chirurgica in grandi opposizioni per lo più ideologiche come Oriente e Occidente» [I].
Oggi, nonostante l’importanza del movimento decoloniale e la necessità di portare avanti con il suo pensiero e le sue azioni per decostruire le strutture di potere in cui viviamo, esistono vari approcci e idee che non sembrano minimamente interessati alla liberazione del cosiddetto Terzo mondo dai meccanismi occidentali, ma che alimentano la continuazione delle stesse strutture e definizioni che hanno permesso di giustificare l’invasione e l’estrazione di altre terre. Potrebbe sembrare strano, perché ovviamente non segue l’idea rigorosa di decolonialità come nei libri accademici, che di giorno in giorno sono diventati sempre più numerosi e di tendenza. Tuttavia, voglio sottolineare che mi preoccupa il modo in cui molta teoria decoloniale si nutra di un simile uso dominante e manipolatorio del linguaggio e della censura al fine di difendere gli oppressi, quando in realtà lavora per un discorso che sembra addirittura preferire il loro mantenimento (l’indigeno, la donna, la donna musulmana in particolare, e altri popoli oppressi) all’interno di un quadro discorsivo di sfruttamento, al fine di giustificare l’avanzamento dei propri interessi di ricerca e pubblicazione.
Dobbiamo essere estremamente rigorosi quando iniziamo a puntare il dito, a classificare, a cancellare, a ridurre in termini semplicistici la realtà dei popoli che sono stati effettivamente oppressi e sfruttati, per evitare di diventare proprio i colpevoli e di mantenere una comprensione semplicistica, ingenua, di una specifica situazione con l’obiettivo di giustificare il proprio discorso di antimperialismo o di resistenza anticoloniale.
L’hijab è diventato uno strumento di silenziamento, di oppressione, anche all’interno di questo discorso, e non solo sul corpo. Che si tratti di una scelta della donna o meno, è qualcosa che va oltre. Continuo a difendere, nell’eredità delle femministe arabe e iraniane che ci hanno preceduto, la profonda convinzione che nessuna donna deciderebbe di velarsi se non ci fosse un sistema oppressivo e patriarcale a imporlo, a suggerirlo o a definirlo come necessario, che sia attraverso la legge o dinamiche familiari. La mia risposta è che la domanda non dovrebbe essere “le donne iraniane hanno davvero bisogno di essere salvate?” ma piuttosto perché questa dovrebbe essere una domanda, quando loro combattono e muoiono, rischiando la vita ogni giorno e non solo durante questi 46 anni di Repubblica islamica, ma da oltre 100 anni, nel contesto dell’Iran moderno? Ci sono tracce di rivolte di donne che chiedono diritti e uguaglianza in tutto il mondo musulmano, da decenni. Cosa c’è nella liberazione delle donne nei Paesi musulmani che mette a disagio la cosiddetta mentalità decoloniale? Perché è così fastidioso che le donne iraniane e algerine lottino per avere pari diritti? Non vedete che il velo è la punta dell’iceberg? Perché la necessità di vittimizzare ancora una volta la donna iraniana (e la donna musulmana) come se fosse un’idiota manipolata dall’Occidente? È così che comprendiamo e rispettiamo le donne iraniane, algerine, tunisine, palestinesi, egiziane, ecc. che si sono riunite segretamente, educando le loro figlie a lottare per il cambiamento?
Per quanto riguarda il discorso antirazzista in Francia, per esempio, che si concentra sul velo e sulla sua proibizione nelle scuole e sostenendo che il velo è una questione identitaria, lo devo rifiutare. Sono ovviamente molto coinvolta nell’antirazzismo in qualsiasi contesto, ma ridurre il velo a un segno culturale, a una questione di identità, è estremamente ingenuo. Mi dilungherò ulteriormente su questo punto, ma credo che ci sia stata una manipolazione di grande successo da parte dell’ideologia islamica che condanno, come condanno tutte le ideologie religiose, per portare la sinistra nelle sue fila come suoi semplici soldati. Se una donna, se una ragazza, ha il diritto di scegliere, allora dovrebbero anche lasciarla scegliere. Velare le bambine a 4, 5 anni, e poi in modo più permanente a 11 anni, non è libertà di scelta. È qui che sta la confusione, non nel fatto che il velo sia oppressivo o meno per le donne.
Permettimi di collegare questa domanda a un’altra questione, quella della manipolazione e dell’immagine della resistenza, che mi ha preoccupato recentemente. Mentre la resistenza palestinese è una delle lotte più nobili di oggi, il mondo è caduto rapidamente e ciecamente nella trappola di idolatrare leader la cui politica è estremamente autoritaria e fascista. Non c’è un se e un ma… non c’è un sì, ma… applaudire e idolatrare ciecamente, ad esempio, l’ultima immagine di Yahya Sinwar mentre affronta il drone israeliano è un sintomo di questa confusione. Nonostante la sua lotta contro l’occupazione sionista e l’abominevole violenza israeliana, che dire della sua politica e dei suoi metodi discutibili? Può essere messo da parte mentre è in gioco la liberazione della Palestina? Forse, ma è sicuramente necessario interrogarsi, parlare e riflettere sulle implicazioni politiche. Lo abbiamo vissuto in Iran, proprio grazie alla sinistra occidentale che ha sostenuto senza mezzi termini gli islamisti che hanno preso il potere, gettando ovviamente le donne iraniane sotto l’autobus della storia. Un’immagine di Yahya Sinwar o dell’Ayatollah Khomeini non è discutibile per gli anticolonialisti, mentre l’immagine della donna iraniana viene immediatamente attaccata, molto probabilmente perché crea disagio, e quindi deve essere descritta e cancellata come un prodotto dell’Occidente. Non è forse ancora una volta violenza contro le donne? Non è forse lavorare al servizio del regime iraniano assassino?
Devo ricordare che l’Ayatollah Khomeini, i suoi successivi discepoli e gli attuali leader corrotti e fascisti dell’Iran, hanno sempre usato questa stessa scusa per attaccarci e ridurci a oggetti da mettere a tacere ed eliminare. È preoccupante vedere come la sinistra, a volte anche i miei stretti colleghi, siano diventati ancora una volta, a loro malgrado, confusi, incerti e vittime dell’autocensura e della censura degli altri. Per quanto voglia comprendere questa confusa “radicalità” che può risiedere nel discorso decoloniale, voglio anche che questi pensatori si assumano la responsabilità delle loro parole e delle loro azioni. Dopo l’errore madornale di Michel Foucault che approvò con convinzione facendo anche propaganda per la nascita della Repubblica islamica in Iran [ii] – che si sarebbe trasformata poi in una delle più corrotte macchine da guerra della regione -, noi della sinistra avremmo già imparato dai nostri errori quando sosteniamo che l’Occidente sta definendo certe forme di protesta, mentre noi dovremmo conformarci a una cosiddetta essenza culturale, che di per sé è un’idea molto fascista. In definitiva, è questo che annulla e manipola la lotta delle donne nel mondo musulmano. Non le leggi laiche della Francia.
Le donne non si liberano indossando il velo. Questa è un’idea delirante, fabbricata dalla propaganda islamista, ripetuta e diffusa dalla sinistra (ancora una volta) che ci mette infine a completa disposizione del pensiero fascista travestito da corretta politica, abbandonando le donne nelle mani della religione e del patriarcato.
In questo momento, la mia preoccupazione non è nemmeno quella delle donne iraniane: non abbiamo bisogno dell’Occidente e non abbiamo necessariamente bisogno di essere comprese dall’Occidente. Non ce ne può importare di meno, perché siamo molto più forti e abbiamo combattuto da sole per tutti questi anni. La mia preoccupazione principale è per le donne afghane, che sono state sostanzialmente abbandonate dalle femministe decoloniali occidentali mentre l’Occidente è stato molto coinvolto nel loro Paese per diversi decenni. Poiché la loro situazione è al di là di ogni immaginazione, schiavizzate e praticamente cancellate dalla vita pubblica, chiuse in casa come prigioniere, scambiate tra uomini a loro uso e piacere… e poiché la loro situazione è così complessa, non rientra nemmeno nelle categorie perfette del decolonialismo che hanno ridotto e descritto la nostra resistenza come un ritorno alle origini, qualunque cosa sia questa origine e come se fosse possibile cancellare centinaia di anni di storia.
Naturalmente nessuno di questi studiosi vive nei Paesi di cui stiamo parlando. La maggior parte di loro vive proprio in Occidente, in particolare in Europa, e vive abbastanza bene. Le loro carriere e le loro pubblicazioni si sono fatte spazio cancellando spesso la lunga eredità delle donne musulmane o delle donne del mondo musulmano che hanno rischiato la vita per lottare contro l’uso della religione, per dominarle, controllarle e a volte persino schiavizzarle. Nawal El Saadawi ha detto, in un testo scritto in tarda età nel 2008: “La fede cieca porta al fondamentalismo cieco, al fanatismo cieco, al razzismo cieco, al sessismo cieco, all’odio cieco e all’amore cieco” [iii]. Da Sediqeh Dowlatabadi a Nawal El Saadawi… perché non torniamo indietro e non impariamo da loro?
CA: Agli occhi dell’Occidente l’hijab è un simbolo di oppressione, di annullamento, della soggettività femminile creando confusione tra il rifiuto dell’hijab obbligatorio e il suo rifiuto in generale. Le donne con il velo vengono demonizzate e strumentalizzate per diffondere paura, e per impedire una convivenza comunitaria. Sulla loro identità culturale viene impressa quella religiosa, per una politica di supremazia occidentale razzista legittimando l’antagonismo verso i Paesi islamici. L’hijab non è piuttosto una questione di libertà individuale? Qual è il suo significato nella presente rivoluzione iraniana?
BK: Non è solo agli occhi degli occidentali che l’hijab è un oggetto oppressivo. La differenza è che noi che abbiamo vissuto nei Paesi musulmani non lo viviamo come un simbolo; non abbiamo questo tipo di privilegio come voi. Dobbiamo conviverci per quello che è: uno strumento destinato a umiliare, mettere a tacere e differenziare le donne dagli uomini. La confusione è generata anche dall’idea che si debba scegliere da che parte stare, che combattendo l’antirazzismo alla fine si debba abbracciare il velo come se fosse una cosa bella in sé, come se fosse essenza culturale (ancora quel principio fascista). La supremazia occidentale, o meglio bianca, non esiste solo nei confronti del velo, ma anche di chiunque provenga da un Paese e da una cultura diversa dalla propria. Al di là del velo. Il velo è diventato un oggetto feticizzato e, per estensione, anche il corpo della donna è tornato a essere più un oggetto di dibattito che un’esperienza reale.
Chiedo a coloro che rivendicano l’essenza culturale di imparare qualcosa sulle culture estremamente diverse e complesse che attraversano il mondo musulmano, soprattutto sul fatto che la “libertà individuale” non esiste nemmeno in questo contesto. È qui che la difesa del velo come libertà individuale diventa assurda. È un’idea liberale che tutti possano decidere da soli. L’attacco politico francese (egocentrico e semplicistico) all’hijab ha purtroppo portato a una maggiore feticizzazione di questo pezzo di stoffa, come se fosse ciò che definisce e racchiude una cultura. Peggio ancora, il chador integrale, che non era molto usato nei Paesi nordafricani, è ora diventato una tendenza nelle giovani generazioni di ragazze francesi, le cui politiche identitarie e il cui revanscismo sono state alimentate da poteri superiori, estremamente organizzati la cui linea di sangue è l’antagonismo allo Stato francese. Ora sappiamo dell’ISIS, un’altra di quelle situazioni scomode da elefante nella stanza. Come possiamo fingere e difendere che l’identità culturale algerina, marocchina, tunisina ecc. sia fatta di questo consolidamento nel velo? È così difficile ammettere la manipolazione e la strumentalizzazione di questi metri di stoffa, che hanno solo creato altre masse di donne da usare e sacrificare per una certa idea di cultura, completamente dominata dall’ideologia religiosa?
Naturalmente, non affronterei mai e non ho mai affrontato nessuno in merito all’uso del velo. Non è vero il contrario. Come gesto di silenzio e di censura, a un certo punto è forzatamente un problema. Quando sento dire che il velo è un segno di liberazione, vorrei solo che chi osa dire questo andasse a trascorrere del tempo in un luogo in cui il problema è reale. Apprezzo il fatto che le ragazze sotto i 18 anni possano essere libere dalla politica e dalle regole religiose della loro famiglia nel contesto della scuola e vivere alla pari con i ragazzi della loro età. Non è così nei Paesi musulmani. Non c’è uguaglianza sotto la Sharia, e tutta l’uguaglianza sotto la legge nei Paesi musulmani deriva dalle lotte che le donne sono state in grado di vincere nel contesto della modernità. Non tutti gli aspetti della modernità sono negativi. Dobbiamo evitare questa pericolosa dicotomia.
La cosa interessante è che all’interno dei nostri Paesi (dove le questioni sono vissute in prima persona e non in modo ipotetico), la sinistra nei nostri paesi sta in realtà combattendo soprattutto per liberarci dalla religione, come ogni sinistra dovrebbe fare. Dico questo, ma dovrei meglio dire “ciò che resta della sinistra” nei nostri Paesi, dato che la maggior parte di loro è stata imprigionata o uccisa dai regimi autoritari, che si tratti dell’Iran, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria, dell’Algeria, della Palestina… c’è una lotta in ognuno di questi Paesi che testimonia questo processo storico.
CA: Teheran, 16 settembre 2022. Jîna Mahsa Amini, una giovane donna curda iraniana, viene uccisa dalla polizia morale per una ciocca di capelli fuori dall’hijab. Con la sua morte, un ciclo di proteste di disobbedienza sotto il grido di Donna, vita, libertà ha acceso un fuoco senza precedenti. Di chi e di cosa è portavoce Donna, vita, libertà? Qual è il suo ruolo e la sua aspirazione; e in che modo agisce? Possiamo affermare che la sua voce risuona in un contesto più ampio del solo Iran, direi mondiale?
BK: Credo che sia uno slogan e un movimento orizzontale, spontaneo, universale e anarchico. Non c’è un capo né un partito che abbia organizzato tutto questo, eppure si è diffuso come un incendio da un capo all’altro dell’Iran. È iniziato in Kurdistan, un potente centro di resistenza di sinistra in Iran da decenni. La sua aspirazione è quella di combattere il fascismo e di attaccarne lo stesso nucleo, perché se riusciamo a impedire al regime di velarci, riusciamo a impedirgli anche di metterci a tacere. In questo caso direi che il velo diventa un simbolo, ma anche un simbolo con un’intenzione pragmatica molto specifica. Quando si velano le donne, ovviamente con la forza perché molte di loro non vogliono e non hanno mai voluto essere velate, le si marchia come esseri inferiori. Il velo è un pezzo di stoffa, certo, ma è quello che vi si nasconde dietro a essere preoccupante. Il velo è solo la punta dell’iceberg direttamente legato alle tremende leggi e regolamenti sull’esistenza stessa delle donne all’interno della società, soprattutto in quelle nazioni che sono ancora soggetti alla legge islamica e alla Sharia. In molti Paesi come il Libano e l’Iran prima del 1979, le leggi sulla famiglia e sull’uguaglianza sono state riformate per proteggere le donne e i bambini. A un certo punto è importante chiamare le cose per quello che sono e smetterla di sentirsi in colpa come i sinistroidi occidentali. La legge islamica è contro le donne. Non vedo come si possa discutere di questo. Dà alle donne la metà dei diritti degli uomini. Nessuna di queste giovani francesi che indossano il chador si rende conto di essere completamente ingenua, di vivere protetta dai diritti umani e civili fondamentali di uguaglianza, mentre viene manipolata nel gioco politico di qualcun altro che usa il velo come strumento. Hanno vissuto come le donne afghane? Non si tratta di una questione di scelta. Se le donne nei Paesi musulmani possono vivere con pari diritti e decidere comunque di velarsi (da sole e non per imposizione della famiglia), allora ovviamente la scelta è rispettata e, onestamente, non credo che avrebbero la stessa “preoccupazione” per il velo che si sta sollevando. Come molte delle vecchie generazioni di donne della mia famiglia, come in molte famiglie iraniane, le donne aspirano alla liberazione delle loro figlie dalla dominazione maschile. Questo inizia con il velo, proprio come i padri mettono il velo sulle giovani figlie prima che sappiano cosa sia la sessualità. Penso che Donna, Vita, Libertà sia un movimento audace e nobile che ha fatto il giro del mondo. Ha infranto un tabù. Ha creato un precedente. Non ha paura e unisce le donne, velate o meno, per la loro completa liberazione; ma anche delle persone LGBTQ+ e di altri popoli oppressi. Questa è una vera decostruzione, un decolonialismo. Non è un prodotto dell’Occidente. Assolutamente no.
CA: Durante la tua lecture-performance Here and there: minutes on the new Iranian revolution, che si è tenuta in Naba, a Milano, il 20 novembre 2023, racconti che, nelle accese manifestazioni che designano oggi il clima di protesta in Iran, il fuoco viene utilizzato per il suo significato simbolico di purificazione, come rito di passaggio da un prima a un dopo. Qual è il significato di questo sistema magico-protettivo all’interno della cultura iraniana? Come viene utilizzato nella rivoluzione e perché? Il suo utilizzo è correlato all’accensione dei fuochi durante la festa Chaharshanbe Suri, in vigilia del Nowruz?
BK: È una mia interpretazione però sì, il fuoco è molto presente nella nostra vita e nei nostri rituali. Rappresenta la purezza e il rinnovamento. Ci stiamo ripulendo continuamente dai diversi strati di fascismo che dobbiamo sperimentare. Anche se non brucia tutto così facilmente, il fuoco continua ad ardere…
CA: Facendo riferimento al tuo lavoro di artista, filmmaker e attivista, nella tua pagina Instagram condividi che «stando qui, il mio corpo disconnesso e dislocato dalla sua gente e dalla sua origine, non posso che essere una modesta testimone». Come la tua arte si relaziona con ciò che accade in Iran e in che modo avviene questa relazione? Negli ultimi anni, stai compiendo un grande lavoro di archiviazione della rivoluzione iraniana, attraverso numerosi filmati e immagini: come vivi la distanza fisica che in qualche modo direi che ti è stata imposta con il tuo Paese, ma anche con i tuoi colleghi artisti e registi?
BK: Non posso più tornare lì. Le mie idee creerebbero una situazione pericolosa per me. Questo è il fascismo. Mette a tacere ed elimina coloro che rappresentano una minaccia per la sua esistenza. Le donne in Iran sono una minaccia per il fascismo. Non posso più essere per le strade di Teheran a gridare, a protestare con la mia gente, quindi per quanto riguarda il movimento lì devo essere solo una testimone e parlare con e attraverso le immagini che posso raccogliere a distanza. Immagini fatte e lanciate in aria da chi è lì, per essere archiviate. È un’azione collettiva, inconscia, quella di costruire questo archivio senza identità personali. Nessun copyright, né un’idea di individualità che domina sul collettivo. Queste sono le nostre immagini. Tuttavia, devo sottolineare che l’Iran non è il mio unico Paese. Sono un’internazionalista e ho creato vita e legami in altri luoghi, in particolare in Messico, il mio Paese d’adozione. La lotta contro la violenza sulle donne in Messico fa parte della stessa lotta che stanno conducendo anche le donne iraniane. Non vogliamo che la violenza ci venga fatta dagli uomini, dallo Stato, dal Narco, dalle istituzioni, dalla religione, da chi pretende di difenderci. Quindi, per molti versi, sono in Iran senza esserci.
CA: Si è ormai conclusa la 60° Biennale di Venezia, a cura di Adriano Pedrosa, dove hai contribuito a uno dei suoi progetti più centrali: Disobedience Archive (The Zoetrope) di Marco Scotini, con due sezioni Gender Disobedience e Diaspora Activism,con il tuo film Transit(s): Our Traces, Our Ruin (2016) le cui immagini in movimento ripercorrono le tracce di un tema centrale della tua ricerca, “il movimento degli esseri umani attraverso il pianeta è una storia millenaria e ripetitiva. Segue le evoluzioni delle nostre città, le loro catastrofi e talvolta le loro cadute”. Che esperienza è stata quella della Biennale? Una mostra che partiva da un presupposto decoloniale (eppure senza prendere posizione con il genocidio in corso a Gaza), con un film così umanamente sincero rispetto alle complessità identitarie ed emotive, alle paure, di chi viene definito in relazione a un luogo “straniero” e come queste istanze funzionano all’interno del sistema istituzionale?
BK: Credo che lo spazio di Disobedience Archive sia stato particolare in quanto ha riunito diverse soggettività in uno spazio collettivo. Singoli artisti, che a volte hanno lavorato in gruppo, sono stati messi in dialogo per creare un contesto di rappresentazione orizzontale. Nessuna gerarchia, nessuna evidenziazione, nessun grande e piccolo, tutto fa parte di un’idea di resistenza, archivio e lotta attraverso l’immagine.
CA: In questi giorni, mesi, anni così bui a livello mondiale in cui sembriamo viaggiare come su una timeline priva di senso, con un’affermazione sempre più repentina di politiche fasciste e un taciuto indebolimento intrinseco delle sinistre: dove risiede per te la speranza?
BK: In mia figlia e nelle nuove generazioni qui e là.
È possibile scaricare qui la versione in inglese dell’intervista:
note
[i] Edward W. Said, Representations of the Intellectual: The 1993 Reith Lectures, Ed. Vintage, p. XI.
[ii] Michel Foucault, Ritorno al profeta, Corriere della sera, 1978.
[iii] Nawal El Saadawi, “How to fight against the Postmodern slave system” (2008), in The Essential Nawal El Saadawi: A Reader, ZED Books, 2013.
Bani Khoshnoudi è una regista e artista iraniana, realizza documentari e film di finzione, oltre a installazioni e progetti fotografici. Il suo lavoro indaga la storia della modernità in Iran, nonché gli strati, le storie e le esperienze legate all’esilio e alla migrazione. Il suo documentario The Silent Majority Speaks del 2009, vietato in Libano e in Iran, è un affresco politico su 100 anni di rivolte politiche in Iran ed è stato incluso nel progetto espositivo di Georges Didi-Huberman Uprisings al Jeu de Paume, e definito da Nicole Brenez come uno dei dieci film essenziali del secolo. Il suo lungometraggio di finzione Fireflies del 2019 è stato realizzato in Messico e ha vinto il premio HBO Best Ibero-American Feature al Miami International Film Festival. Nel 2022 ha ricevuto il prestigioso Herb Alpert Award for the Arts for Film and Video e ha partecipato alla mostra principale della 60a Biennale di Venezia Foreigners Everywhere, curata da Adriano Pedrosa.