Rimettere il femminismo in piedi, di Silvia Federici

Sono passati quasi quattordici anni da quando per la prima volta mi sono avvicinata al movimento delle donne. In un primo momento è stato con una certa distanza. Andavo a qualche incontro ma con riserve poiché, data la mia idea del “politico”, mi sembrava difficile conciliare il femminismo con una “prospettiva di classe”. O almeno questa era la logica. Più probabilmente, dopo aver riposto per anni tutte le speranze sulla mia capacità di passare per un uomo, non ero disposta ad accettare la mia identità di donna. Due esperienze sono state decisive nel mio impegno come femminista. In primo luogo il fatto di coabitare con Ruth Geller, che è poi diventata una scrittrice e ha documentato l’inizio del movimento nel suo romanzo Seed of a Woman del 1979, e che continuamente, nel tipico stile femminista del tempo, deprecava il mio asservimento agli uomini.  E poi la lettura di Potere femminile e sovversione di Mariarosa Dalla Costa, un opuscolo che sarebbe diventato uno dei documenti femministi più discussi dell’epoca. All’ultima pagina ho capito di aver trovato la mia casa, la mia tribù e me stessa, come donna e come femminista. Da qui derivava anche il mio coinvolgimento nella campagna “Salario al lavoro domestico”, che donne come Mariarosa Dalla Costa e Selma James stavano organizzando in Italia e in Gran Bretagna, e la decisione, nel 1973, di avviare un gruppo per il salario al lavoro domestico negli Stati uniti. Di tutte le posizioni che si sono sviluppate nel movimento delle donne, la proposta di “Salario al lavoro domestico” è stata probabilmente la più controversa e senz’altro la più contrastata. Io credo che ciò sia stato un grave errore che ha indebolito il movimento. Credo anche che se ora il movimento femminista vuole ritrovare il suo slancio, e non fare da pilastro a un sistema di gerarchie, deve più che mai confrontarsi con la condizione materiale di vita delle donne.

Oggi le nostre scelte sono più definite, perché possiamo valutare ciò che abbiamo realizzato e vedere più chiaramente i limiti e le possibilità delle strategie adottate in passato. Ad esempio, possiamo ancora reclamare un “salario uguale per un lavoro uguale” quando le differenze salariali sono entrate ormai anche nelle tradizionali roccaforti della classe operaia maschile? Oppure possiamo ancora avere dubbi su “chi è il nemico”, quando l’attacco ai lavoratori maschi, con la disoccupazione tecnologica e i tagli salariali, serve a contenere anche le nostre rivendicazioni? E possiamo ancora credere che la liberazione inizi “trovando un lavoro e entrando nel sindacato”, quando i posti di lavoro che otteniamo sono al salario minimo e i sindacati sembrano capaci solo di contrattare i termini della nostra sconfitta?

Quando il movimento delle donne è nato, alla fine degli anni Sessanta, credevamo che stesse a noi donne rovesciare il mondo. La “sorellanza” era un appello a costruire una società libera da rapporti di potere, in cui avremmo imparato a cooperare e condividere in modo eguale la ricchezza che il nostro lavoro e il lavoro delle altre generazioni prima di noi avevano prodotto. “Sorellanza” esprimeva anche un rifiuto massiccio di essere casalinghe, una posizione che, concordavamo, è la prima causa della discriminazione contro le donne.

Come altre femministe prima di noi, abbiamo scoperto che la cucina è la nostra piantagione, e che se volevamo liberarci dovevamo rompere la nostra identificazione con il lavoro domestico. Nelle parole di Marge Piercy, dovevamo rifiutare di essere una “grande riserva di manovalanza”[i]. Volevamo riprendere il controllo sui nostri corpi e sulla nostra sessualità, porre fine alla schiavitù della famiglia nucleare e alla nostra dipendenza dagli uomini, e esplorare che genere di esseri umani saremmo volute diventare una volta liberate dalle cicatrici che secoli di sfruttamento ci hanno lasciato. Nonostante l’emergere di differenze politiche, questi erano gli obiettivi del movimento delle donne e abbiamo combattuto su ogni fronte per realizzarli. Nessun movimento, tuttavia, può sostenersi e crescere se non sviluppa una prospettiva strategica che unifichi le sue lotte e concili gli obiettivi a lungo termine con le possibilità che si danno nel presente. Questo senso della strategia è ciò che è mancato al movimento delle donne, che si è continuamente mosso tra una dimensione utopica che poneva la necessità di un cambiamento totale e una pratica quotidiana che presumeva l’immutabilità del sistema istituzionale.

catalogo della mostra Feministische Kunst Internationaal, DE APPEL Gallery, Amsterdam, 1978.

Uno dei limiti maggiori del movimento delle donne è l’aver sopravvalutato il ruolo della coscienza nel cambiamento sociale, quasi che la schiavitù fosse una condizione mentale e la liberazione si potesse raggiungere con un atto di volontà. Presumibilmente, se lo volevamo, potevamo smettere di essere sfruttate dagli uomini e dai datori di lavoro, potevamo crescere i nostri figli secondo i nostri criteri, “uscire” [ii] e rivoluzionare la nostra vita quotidiana a partire dal presente. Indubbiamente alcune donne avevano il potere di fare queste cose, così che i cambiamenti nella loro vita potevano effettivamente sembrare un atto di volontà. Ma per milioni di noi, questa convinzione poteva solo trasformarsi in un’imputazione di colpa, nella mancanza delle condizioni materiali che la rendessero possibile. E quando la questione delle condizioni materiali è stata affrontata, la scelta del movimento è stata quella di combattere per ciò che sembrava compatibile con la struttura del sistema economico e non per ciò che avrebbe allargato la nostra base sociale e dato più potere a tutte le donne.

catalogo mostra femminista, Korpersprache, Haus am Waldsee, Berlino, 1975.

Anche se il momento “utopico” non è mai stato completamente abbandonato, il femminismo ha sempre più operato in un’ottica in cui il sistema – i suoi obiettivi, le sue priorità, i suoi patti di produttività – non è stato messo in discussione e la discriminazione sessuale poteva apparire come il malfunzionamento di istituzioni altrimenti perfettibili. Il femminismo è stato identificato con il raggiungimento delle pari opportunità nel posto di lavoro, dalla fabbrica all’azienda, con l’uguaglianza agli uomini, con la trasformazione delle nostre vite e personalità in funzione dell’adattamento a nuove attività produttive. Che “lasciare la casa” e “andare a lavorare” fosse la condizione per la nostra liberazione è una cosa di cui poche femministe hanno mai dubitato, e questo già nei primi anni Settanta. Per le femministe liberali il lavoro aveva il fascino della carriera, per quelle socialiste significava “unirsi alla lotta di classe” e fare un “lavoro produttivo socialmente utile”. In entrambi i casi, quella che per le donne era una necessità economica è diventata una strategia, per cui il lavoro stesso diventava un mezzo di liberazione. Una misura dell’importanza strategica che si è attribuita all’“ingresso delle donne nel posto di lavoro” è stata la grande opposizione alla campagna “Salario al lavoro domestico”, accusata di essere economicista e di voler istituzionalizzare il ruolo delle donne nella casa. Tuttavia, la richiesta di salario per il lavoro domestico è stata fondamentale da molti punti di vista.  In primo luogo ha riconosciuto che il lavoro domestico è un lavoro – il lavoro di produzione e riproduzione della forza lavoro – e in questo modo ha rivelato l’enorme quantità di lavoro non retribuito che, incontrastato e invisibile, esiste in questa società. Ha riconosciuto anche che il lavoro domestico è un problema che le donne hanno in comune, e rappresenta quindi il terreno di lotta su cui le donne potenzialmente sono più forti. Infine, pensavamo che proporre il lavoro extra-domestico come la condizione principale per diventare indipendenti dagli uomini avrebbe alienato le donne che lo rifiutano, perché lavorano già abbastanza curando le proprie famiglie. Le donne “vanno a lavorare” perché hanno bisogno di soldi, non perché lo considerano un’esperienza liberante, tanto più che avere un lavoro salariato non ti libera dal lavoro domestico. Eravamo poi convinte che il movimento delle donne non dovesse creare modelli a cui avremmo dovuto conformarci, ma piuttosto elaborare strategie per incrementare le nostre possibilità. Perché se si pensa che trovare un lavoro sia necessario per la nostra liberazione, la donna che rifiuta di scambiare il suo lavoro in cucina con quello in fabbrica è inevitabilmente bollata come arretrata e i suoi problemi, oltre a essere ignorati, si trasformano in una colpa. È probabile che molte donne, che in seguito sono state mobilitate dalla New Moral Majority [iii], avrebbero potuto unirsi al nostro movimento se questo avesse colto le loro esigenze. Spesso, quando appariva un articolo sulla nostra campagna, o quando eravamo invitate a parlare in un programma radiofonico, ricevevamo decine di lettere di donne che ci raccontavano la loro vita o semplicemente scrivevano: “Cara signora, mi dica cosa devo fare per ottenere un salario per il lavoro domestico”. Le loro storie erano sempre le stesse. Lunghe ore di lavoro, senza tempo per se stesse e senza soldi propri. E poi c’erano le donne più anziane, che pativano la fame con il Supplementary Security Income [iv] e ci chiedevano se potevano tenere un gatto, perché temevano che se l’assistente sociale lo avesse scoperto le avrebbero tagliato il sussidio. Che cosa ha offerto a queste donne il movimento femminista? Uscite di casa e trovatevi un lavoro, così potrete unirvi alle lotte della classe operaia? Ma il loro problema era che lavoravano già troppo e otto ore a un registratore di cassa o a una catena di montaggio non è certo una proposta allettante quando ci si deve destreggiare anche con marito e figli a casa. Come abbiamo spesso ripetuto, quello di cui abbiamo bisogno è più tempo e più soldi, non più lavoro. Abbiamo bisogno di asili nido, non solo per liberarci del lavoro ma per fare una passeggiata, parlare con i nostri amici o andare a una riunione di donne.

See Red Women’s Workshop, 7 Demands, Feminist Posters, 1974.

Chiedere il salario per il lavoro domestico ha significato aprire direttamente una lotta sulla questione della riproduzione e decretare che l’educazione dei figli e la cura delle persone è una responsabilità sociale. In una società futura libera dallo sfruttamento decideremo come questa responsabilità sociale possa essere assolta nel modo migliore e condivisa. In questa società, in cui il denaro governa tutte le nostre relazioni, definire il lavoro di riproduzione una responsabilità sociale vuol dire chiedere a coloro che ne beneficiano (le imprese e lo stato nella veste del “capitalista collettivo”) di pagarne il costo. Altrimenti sosteniamo il mito – così costoso per noi donne – che crescere e educare i figli e servire chi lavora è una questione individuale, privata, e che la colpa del modo soffocante in cui viviamo, ci amiamo e ci incontriamo è solo della “cultura maschile”. Purtroppo il movimento delle donne ha ampiamente ignorato la questione della riproduzione e offerto soluzioni individuali – come la condivisione del lavoro domestico – che non forniscono un’alternativa reale alle battaglie isolate che molte di noi stanno già conducendo. Anche durante la lotta per l’aborto, la maggior parte delle femministe ha combattuto solo per il diritto a non avere figli, benché questo sia solo un aspetto del controllo sui nostri corpi e della scelta riproduttiva. E se volessimo avere bambini, ma non potessimo permetterci di crescerli se non a costo di non avere più tempo per noi stesse e di essere continuamente afflitte da preoccupazioni economiche? Finché il lavoro domestico non sarà retribuito, non ci saranno neanche incentivi per creare i servizi sociali necessari a ridurre il nostro lavoro. E questo è mostrato anche dal fatto che, nonostante un forte movimento delle donne, gli asili sovvenzionati sono stati costantemente ridotti nel corso degli anni Settanta. Vorrei aggiungere che il salario per il lavoro domestico non è semplicemente uno stipendio. Significava anche più servizi sociali e servizi sociali gratuiti.

È stata un’utopia? Molte donne sembravano pensarla così. Io so, però, che in diverse città italiane, al tempo del movimento studentesco, gli autobus erano gratuiti nelle ore in cui gli studenti andavano a scuola. Ad Atene, fino alle nove del mattino, nel periodo in cui la maggior parte delle persone va a lavorare, la metropolitana non si paga. E questi non sono paesi ricchi. Perché, allora, negli Stati uniti, dove si accumula più ricchezza che nel resto del mondo, non dovrebbe essere realistico pretendere che le donne con figli abbiano diritto al trasporto gratuito, dal momento che tutti sanno che a tre dollari a viaggio si resta inevitabilmente confinate in casa, a prescindere da quanto sia alto il nostro livello di coscienza? Quella del salario per il lavoro domestico è stata una strategia di riappropriazione, per allargare il famoso “paniere” a cui si presume i lavoratori in questo paese abbiano diritto. Avrebbe significato una maggiore redistribuzione della ricchezza a favore delle donne e anche dei lavoratori di sesso maschile, poiché una volta retribuito questo lavoro sarebbe stato rapidamente desessualizzato. Ma c’è stato un tempo in cui denaro era una parola sporca per molte femministe.

Lucia Marcucci, Marx, 1977, Courtesy Frittelli Arte Contemporanea, Firenze.

Una delle conseguenze dell’opposizione al salario al lavoro domestico è stata che il movimento femminista non si è mobilitato contro l’attacco al welfare che è cominciato all’inizio degli anni Settanta, cosa che ha compromesso la lotta su questo terreno. Perché, sostenere che il lavoro domestico non deve essere pagato, convalidava l’idea che le donne che ricevevano l’“Aid to Dependent Children” (ADC)[v] non avevano diritto a questi soldi, ed era giusto che lo stato cercasse di “farle lavorare” per gli assegni che percepivano. Nei confronti delle donne in welfare, molte femministe avevano lo stesso atteggiamento che molti hanno nei confronti “dei poveri”: compassione ma non identificazione, anche se in genere si ammetteva che “tra noi e il welfare c’è solo un marito”.

Un esempio delle divisioni generate dalla politica del movimento è la storia della Coalition of labor union women (CLUW). Quando nel 1974 la CLUW si è costituita, le femministe si sono mobilitate. In centinaia hanno partecipato alla conferenza di fondazione che si è tenuta a Chicago nel marzo di quell’anno. Ma quando un gruppo di welfare mothers, guidato da Beulah Sanders, insieme alle mogli dei minatori in sciopero nella contea di Harlan hanno chiesto di partecipare, sostenendo di essere anche loro lavoratrici, la loro richiesta è stata respinta, sia pure con la promessa di una “cena di solidarietà” quel sabato, adducendo il fatto che la conferenza era riservata ai tesserati del sindacato.

La storia degli ultimi cinque anni ha dimostrato i limiti di queste politiche. Come tutti ammettono, “donne” è diventato sinonimo di “povertà”, visto che i loro salari sono costantemente calati sia in termini assoluti sia in rapporto a quelli maschili (nel 1984, il 72 per cento delle donne che lavorava a tempo pieno guadagnava meno di 14 mila dollari, la maggior parte tra i 9 mila e i 10 mila dollari, mentre le donne in welfare con due bambini guadagnavano al massimo 5 mila dollari). Abbiamo perso poi anche molte forme di assistenza all’infanzia sovvenzionata, e molte donne oggi lavorano a cottimo in casa, con guadagni spesso al di sotto del salario minimo, perché è l’unica possibilità che hanno per guadagnare qualche soldo e prendersi allo stesso tempo cura dei figli.

Le femministe hanno accusato il salaro al lavoro domestico di isolare le donne in casa. Ma sei forse meno isolata quando sei costretta a lavorare in nero e non hai soldi per andare in qualsiasi luogo, per non parlare del tempo per fare lavoro politico? Isolamento vuol dire anche essere costrette a competere con altre donne per lo stesso lavoro, o con un uomo nero o bianco su chi debba essere licenziato per primo. Questo non vuol dire che non dobbiamo lottare per mantenere i nostri posti di lavoro. Ma un movimento che pretende di lottare per la liberazione deve avere una prospettiva più ampia, soprattutto in un paese come gli Stati uniti, dove il livello di ricchezza accumulata e lo sviluppo tecnologico raggiunto possono tradurre l’utopia in una realtà concreta.

Birgit Jürgenssen, Scrubbing the floor, 1975.

Il movimento delle donne deve rendersi conto che il lavoro non è liberazione. Lavorare in un sistema capitalistico vuol dire sfruttamento e non c’è piacere, orgoglio o creatività nell’essere sfruttati. Anche la “carriera” è un’illusione per quanto riguarda l’auto-realizzazione. Ciò che raramente si riconosce è che la maggior parte dei lavori richiede che si eserciti potere su altre persone, spesso altre donne, cosa che approfondisce le divisioni tra di noi. Cerchiamo di sfuggire dalle fabbriche o dai ghetti impiegatizi per avere più tempo e più soddisfazioni, ma il prezzo che paghiamo è la distanza che si instaura tra noi e le altre donne. Non c’è d’altra parte disciplina che imponiamo agli altri che non imponiamo allo stesso tempo a noi stesse, il che significa che facendo questi lavori in realtà compromettiamo le nostre lotte.

Anche lavorare nell’accademia non ci rende più soddisfatte o creative. In assenza di un forte movimento di donne, lavorare nell’università può essere soffocante, perché devi conformarti a criteri che non puoi determinare e presto cominci a parlare una lingua che non è la tua. Da questo punto di vista non fa alcuna differenza se si insegna la geometria euclidea o la storia delle donne, anche se i Women’s Studies rappresentano ancora una enclave che, relativamente, ci permette di essere “più libere”. Ma le piccole isole non sono sufficienti. Quello che deve cambiare è la nostra relazione con il lavoro intellettuale e le istituzioni accademiche. I Women’s Studies sono riservati a chi può pagare o è disposto a fare sacrifici aggiungendo, in percorsi di formazione continua, un giorno di scuola alla giornata lavorativa. Ma tutte le donne dovrebbero avere libero accesso alla scuola. Però finché lo studio è una merce, o una pedina nella “caccia al lavoro”, il nostro rapporto con il lavoro intellettuale non potrà mai essere un’esperienza liberatoria.

In Italia nel 1973, gli operai metalmeccanici hanno vinto 150 ore di scuola retribuite all’interno delle ore lavorative, come parte del loro contratto. Rapidamente altri lavoratori, hanno cominciato a ottenere questa possibilità anche se non era nel loro contratto. Più recentemente, in Francia una riforma della scuola proposta dal governo Mitterrand ha aperto l’accesso all’università per le donne, indipendentemente da eventuali qualifiche. Perché il movimento delle donne non si è proposto di liberare l’università non solo cambiando gli argomenti di studio ma eliminando i costi dello studio?

Ciò che mi interessa è la costruzione di una società in cui la creatività è una condizione di massa e non un dono riservato a pochi fortunati, anche se la metà sono donne. La nostra storia è oggi quella di migliaia di donne che languiscono su libri, dipinti o musiche che non potranno mai finire o che non possono nemmeno cominciare perché non hanno né tempo né denaro. Dobbiamo anche espandere la nostra concezione di ciò che significa essere creativi. Nella migliore delle ipotesi, una delle attività più creative è essere coinvolti in una lotta con altre persone, rompere il nostro isolamento, vedere cambiare i nostri rapporti con gli altri, scoprire nuove dimensioni nella nostra vita.  Non dimenticherò mai la prima volta che mi sono trovata in una stanza con altre cinquecento donne, il capodanno del 1970, per assistere alla performance di un gruppo teatrale femminista: è stato un salto di coscienza che pochi libri hanno mai prodotto. Questa è stata un’esperienza di massa nel movimento delle donne. Donne che non erano capaci di dire una parola in pubblico hanno imparare a fare discorsi, altre che erano convinte di non avere capacità artistiche hanno scritto canzoni, striscioni e manifesti. È stata un’esperienza collettiva forte. Per fare lavoro creativo è indispensabile superare il nostro senso di impotenza. È ovvio che non si può produrre nulla di utile se non si parla di ciò che conta nella vostra vita. Bertolt Brecht ha detto che ciò che si produce nella noia può solo generare noia, e aveva ragione. Ma per tradurre i nostri dolori e i nostri piaceri in una pagina, una canzone o un disegno dobbiamo credere che le nostre parole saranno ascoltate. Questo è il motivo per cui il movimento delle donne ha prodotto un’esplosione di creatività. Si pensi alle riviste dei primi anni Settanta, come “Notes from the first year” e “No more fun and games”, un linguaggio potente, all’ improvviso, dopo che eravamo state mute per così tanto tempo.

manifestazione dell’artista Natalia LL per difendere i diritti delle minoranze sessuali, New York, 1977.

È il potere – non il potere sugli altri ma contro coloro che ci opprimono – che espande la nostra coscienza. Ho detto spesso che la nostra coscienza è molto diversa a seconda che siamo con diecimila donne per strada, in piccoli gruppi o da sole nelle nostre camere da letto. Questa è stata la forza che ci ha dato il movimento delle donne. Donne che dieci anni prima sarebbero state sottomesse casalinghe si sono chiamate “streghe”, hanno sabotato le fiere matrimoniali (bridal fairs), hanno osato essere blasfeme, come con la proposta, nello SCUM Manifesto (del 1967), di centri di suicidio per gli uomini; hanno dichiarato che bisognava scuotere l’intero sistema sociale fino alle sue fondamenta. Ma ha prevalso l’anima moderata del movimento. Femminismo oggi significa lotta per l’Equal rights amendment (ERA), come se l’obiettivo delle donne fosse la generalizzazione della condizione maschile. Vorrei chiarire, dal momento che ogni critica all’ERA è considerata un tradimento al movimento femminista, che non sono contraria a un atto legislativo che affermi che siamo uguali agli uomini. Ma sono contraria al fatto di concentrare tutte le nostre energie nella lotta per una legge che nella migliore delle ipotesi può avere un effetto limitato sulle nostre vite. Inoltre, dobbiamo decidere in che cosa vogliamo essere uguali agli uomini, a meno che non diamo per scontato che gli uomini sono già liberati. Un tipo di uguaglianza che dovremmo rifiutare è l’uguaglianza in campo militare, cioè il diritto delle donne a combattere in guerra. È un obbiettivo per cui negli anni Settanta organizzazioni come la National organization for women (NOW) si sono battute, tanto che la sconfitta della proposta di Carter di arruolare le donne paradossalmente è stata presentata come una sconfitta per il femminismo. Ma se questo è il femminismo non sono una femminista, perché io non voglio appoggiare la politica imperialista degli Stati Uniti e magari morire per questo. Lottare per la parità dei diritti mette in questo caso in pericolo la lotta degli uomini per rifiutare l’arruolamento. Come si può, infatti, legittimare una lotta quando ciò che rifiuti è considerato un privilegio da parte dell’altra metà della popolazione? Un altro esempio dei limiti dell’ERA è la legislazione protettiva per il lavoro delle donne.  Non c’è dubbio che le legislazioni protettive sono sempre state istituite con il solo scopo di escludere le donne da determinati lavori e da alcuni sindacati, e non per interesse al nostro benessere. Non possiamo però semplicemente chiedere che la legislazione protettiva venga abolita in un paese dove ogni anno quattordici mila persone muoiono per infortuni sul lavoro, per non parlare di chi rimane mutilato o muore lentamente di cancro, o per intossicazione chimica. Altrimenti l’uguaglianza che otteniamo è l’uguaglianza dei polmoni neri, il pari diritto a morire in una miniera come già hanno fatto le donne minatrici. Dobbiamo cambiare le condizioni di lavoro sia per le donne che per gli uomini, in modo che ognuno sia protetto. Inoltre, l’ERA, non ha nemmeno cominciato ad affrontare la questione del lavoro domestico e della crescita dei figli, ma fin quando i bambini sono nostra responsabilità, ogni nozione di uguaglianza è destinata a rimanere un’illusione.

Sono convinta che sono questi i problemi che il movimento delle donne deve affrontare se vuole essere una forza politica autonoma. Certo c’è oggi una consapevolezza diffusa delle rivendicazioni femministe. Ma il femminismo rischia di diventare un’istituzione. Non c’è un politico che non professi la sua devozione ai diritti delle donne e lo fa con ragione visto che ciò che hanno in mente è il nostro “diritto al lavoro”. Il basso costo del lavoro femminile è una cornucopia per il sistema. Nel frattempo le eroine femministe non sono più Emma Goldman o Mother Jones, ma Sally Ride, la prima donna nello spazio, simbolo ideale della donna autosufficiente e altamente specializzata, in grado di conquistare i territori maschili più esclusivi, e poi la signora Wilson, capo del National Women’s Political Caucus [vi] che, nonostante la sua gravidanza, ha deciso di proporsi per un secondo mandato. Un ulteriore prova della crisi del movimento delle donne è che nel momento in cui, in questo paese, si assiste all’attacco più intenso contro la classe operaia dal tempo della Grande Depressione, e a una militarizzazione tale da far temere un’altra guerra mondiale, uno dei maggiori dibattiti tra le femministe è sui meriti e demeriti del sadomasochismo.

Glorificare il sado-masochismo mi sembra un passo indietro rispetto ai rapporti d’amore tra le donne che volevamo costruire nel movimento. Penso anche che i desideri sado-masochisti sono il prodotto di una società in cui la sessualità è talmente implicata in rapporti di potere che piacere sessuale e violenza, sofferta o inflitta, difficilmente si possono separare. Può essere un bene, quindi, smettere di sentirci in colpa per le nostre “perversioni”, e che perversioni, fra l’altro, in confronto a ciò che pratica ogni giorno il governo con tutti i crismi della moralità. Punzecchiarci il seno con gli spilli è un atto di grande civiltà in confronto a ciò che avviene ogni giorno alla Casa Bianca. È anche un bene che cerchiamo di realizzare le nostre fantasie in un momento in cui siamo continuamente esortate a centrare la nostra vita sulla chiesa, sul lavoro e sui rapporti eterosessuali. Tuttavia possiamo dire che praticare il sado-masochismo è liberare la nostra sessualità? Può avere un effetto terapeutico ammettere i nostri desideri segreti e smetterla di vergognarci di ciò che siamo. Ma liberazione vuol dire potere determinare quando, in quali condizioni, e con chi possiamo fare l’amore e liberarci da ogni rapporto di sfruttamento.

Marcella Campagnano, L’invenzione del femminile. Ruoli,1974.

La realtà è che le nostre vite sessuali sono diventate molto noiose perché la possibilità di sperimentare nuovi rapporti sociali è stata drasticamente ridotta. Così ci annoiamo reciprocamente, perché quando non siamo capaci di cambiare il mondo intorno a noi abbiamo poco da offrire alle nostre campagne al di là delle nostre lamentele. Così punzecchiamo la nostra sensibilità, cerchiamo nuovi modi per stimolarci. In realtà sono modi vecchi, la differenza è che ora sono le donne a praticarli. Questo è un altro aspetto dell’aspirazione all’uguaglianza, pari a trovar lavoro come muratrici. Ma liberazione è poter andar al di là di queste opzioni.

Ci sembra, tuttavia, che la paralisi sofferta dal movimento delle donne stia per finire. Un punto di svolta è stata l’organizzazione del “Seneca Women’s Encampment”, che ha segnato l’inizio di un movimento femminista-lesbico contro la guerra. Con questo movimento si completa il cerchio delle nostre esperienze. I primi gruppi femministi erano formati da donne attive nelle organizzazioni contro la guerra, ma avevano scoperto che i loro “fratelli rivoluzionari”, così sensibili ai bisogni degli sfruttati del mondo, non si sarebbero mai interessati ai loro problemi finché loro stesse non si fossero direttamente fatte carico della loro lotta. Ora, quattordici anni dopo, le donne stanno costruendo il loro movimento contro la guerra partendo direttamente dai loro bisogni.

Oggi la rivolta delle donne contro ogni tipo di guerra è visibile in tutto il mondo: da Greenham Common a Seneca Falls, dall’Argentina, dove le madri dei desaparecidos sono state in prima linea nella resistenza alla repressione militare, all’Etiopia, dove questa estate le donne sono scese in piazza per salvare i propri figli arruolati dal governo. Un movimento di donne contro la guerra è particolarmente importante negli Stati uniti, un paese che sembra intenzionato a far valere, con il potere dei bombardieri, il suo dominio su tutto il pianeta.

Negli anni Sessanta, ci siamo ispirate alle lotte delle donne vietnamite, che hanno mostrato come anche noi potevamo lottare e cambiare il corso del mondo. Oggi dovremmo leggere come un avvertimento la disperazione che vediamo sui volti delle donne, buttate ogni sera sui nostri schermi, mentre affollano i campi profughi o vagano con i loro figli tra i relitti delle loro case distrutte dalle bombe pagate con i tagli ai nostri salari. Se non recuperiamo il nostro impulso a cambiare questa società dal basso, potremmo presto subire la stessa agonia.

See Red Women’s Workshop Feminist Posters 1974-1990.

 

[i] Marge Piercy, The Grand Coolie Damn, in Robin Morgan (a cura di), Sisterhood is Powerful, Vintage Books, New York 1970, pp. 473-492. L’espressione usata da Piercy “the grand coolie damn” è intraducibile; si basa sul richiamo alla grande diga che Roosevelt fece costruire, tra il 1933 e il 1942, sul fiume Columbia, nello stato di Washington, che è il più grande impianto idroelettrico negli Stati uniti e una delle più grandi costruzioni in cemento nel mondo. Con un’estensione di 243 chilometri, la costruzione della Grand Coulee Dam richiese una forza lavoro di ottomila uomini. In Marge Piercy “Coulee” diventa “coolie”, termine derogatorio che designa i lavoratori di origine asiatica che furono importati a cavallo tra il XIX e il XX secolo negli Stati uniti. Indica un lavoratore non qualificato e sottopagato [N.d.T.].

[ii] “Uscire” qui è nel senso dell’inglese “come out”, espressione che il movimento gay ha adottato per indicare la decisione di non continuare a nascondere la propria omosessualità [N.d.T.].

[iii] La New Moral Majority era un movimento di destra, che all’inizio degli anni Ottanta, dopo l’elezione di Reagan, condusse una campagna moralizzatrice contro l’aborto, contro il movimento gay e, più in generale, per cancellare gli effetti del movimento femminista e dei movimenti degli anni Sessanta [N.d.T.].

[iv] Il Supplementary Security Income è un sussidio per chi è inabile al lavoro [N.d.T.].

[v] ADC è il sussidio per i figli a carico di donne sole, un tempo condizionato dalla non presenza di un uomo – marito o amante – in casa. Questo programma è di fatto terminato nel 1996 con l’amministrazione Clinton [N.d.T.].

[vi] Fondato nel 1971, il National Women’s Political Caucus è un gruppo formato da rappresentanti dei due partiti politici: Democratici e Repubblicani, il cui compito è promuovere la partecipazione delle donne al processo politico [N.d.T.].

 

 

Il testo “Rimettere il femminismo in piedi” è stato pubblicato in Silvia Federici (a cura di Anna Curcio), Il Punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, ombre corte, 2014.

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