Womanhouse is not a home

«Il matrimonio è un contratto di lavoro», Christine Delphy.

«Il ruolo della casalinga è un ruolo di famiglia, si tratta di un ruolo femminile. Eppure è un lavoro», Ann Oakley.

 

Il 30 gennaio 1972 inaugurava la WOMANHOUSE: un display femminista, uno spazio performativo e un’installazione artistica ideata da Judy Chicago e Miriam Schapiro, co-fondatrici del FRESNO Feminist Art Program al California Institute of the Arts (CalArts). Il primo giorno di apertura della mostra l’accesso era consentito alle sole donne, nelle giornate a seguire l’ingresso fu esteso a tutti i visitatori. Durante tutta la sua durata, l’esposizione – conclusasi il 28 febbraio 1972 – ha ricevuto approssimativamente 10.000 visitatori provenienti da ogni parte del mondo.

Copertina del catalogo originale della mostra Womanhouse progettata da Sheila de Bretteville , 1972.

Nella Womanhouse i ruoli domestici attribuiti alle donne da secolari forme di sfruttamento della sfera produttiva e riproduttiva – toccavano ragioni molto profonde individuando nel lavoro non retribuito della casalinga una delle strutture portanti del rapporto capitalistico – venivano messi in questione e criticati in 17 stanze, ognuna delle quali sottolineava una posizione di reclusione e subordinazione assegnata alla donna nella sua casa da una struttura sociale e culturale patriarcale. L’intento era di denunciare quelle categorie domestiche in cui le donne sono state per anni rinchiuse, quali figlia, madre e moglie. La femminilizzazione del lavoro, che oggi si fa paradigma delle forme di soggettivazione che hanno storicamente interessato le donne nella sfera domestica, racconta nella Womanhouse una vicenda secolare di soprusi, forme subdole di oppressione e somministrazione del lavoro, comportamenti e aspettative, desideri e soggettività, attraverso i linguaggi visivi, perfomativi e spaziali dell’arte.

Esterno della Womanhouse prima dell’inizio dei lavori nell’autunno del 1971, 533 N. Mariposa Street, Los Angeles, California.

Pubblichiamo un estratto del testo Revisiting Womanhouse di Paul Preciado.

Esterno della Womanhouse con Mira Schor, 533 N. Mariposa Street, Los Angeles, California, 1972.

A ottobre il collettivo curatoriale e attivista le peuple qui manque ha ripubblicato e distribuito, per la prima volta in Francia, un video documentario di Johanna Demetrakas intitolato Womanhouse (1974, 47 min). Ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta; un pomeriggio a New York nella casa di Laura Cottingham. Laura aveva intrapreso un’estesa indagine sulle pratiche artistiche femministe nel Nord America negli anni ‘70 per realizzare Not For Sale (1998), che è senza dubbio il miglior documentario sul tema fino ad oggi. Nel suo archivio personale c’era il video di Demetrakas. In quel periodo mi sono situata come queer, mentre Laura continuava a posizionarsi come una femminista radicale. Guardando insieme il documentario sulla Womanhouse, ci siamo riconciliati e siamo riusciti a non rimanere intrappolati nel dibattito indeterminabile tra la critica post-strutturalista e il femminismo socialista. Dopotutto avevamo una stessa storia in comune. Con il pretesto di avere una doppia copia di tutto, Laura riempì il mio zaino di video con la frenesia di un contrabbandiere o di qualcuno che aveva conservato un messaggio e aspettato anni prima di raccontarlo. Ancora inesperto, sono tornato nel mio appartamento a Brooklyn e ho passato una settimana ad analizzare i video (di Demetrakas, Martha Rosler, Ilene Segalove, Faith Ringgold, Adrian Piper, Ana Mendieta … e una copia di Not for Sale) come se li avessero fatti solo per me, prendendo tanti appunti che costituiranno le mie prime lezioni di genere e performance alla University of Paris VIII all’inizio dell’anno 2000. L’arte femminista negli anni ’70 non era né uno stile né un movimento, ma piuttosto un insieme di operazioni eterogenee che miravano a denaturalizzare le relazioni tra sesso, genere, visualità e potere. Il documentario Womanhouse ha cambiato il mio modo di pensare la pratica artistica e mi ha aiutato a comprendere come sia stato possibile trasformare l’università e il museo in spazi di emancipazione sessuale e politica.

The Kitchen di Robin Weltsch, 1972.

Aprons in the Kitchen di Susan Frazier, 1972.

The Dinning Room di Beth Bachenheimer, Sherry Brody, Karen LeCoq, Robin Mitchell, Miriam Schapiro, Faith Wilding, Womanhouse, 1972.

Ignorato per anni dalle narrative egemoniche della storia dell’arte, il progetto Womanhouse emerge oggi come un’opera indispensabile per comprendere le pratiche artistiche degli anni ‘70 e per ripensare il futuro delle pedagogie d’arte e delle relazioni tra architettura, performance e attivismo sociale. Il documentario ci invita ad affrontare il primo esperimento pedagogico femminista avviato al California Institute for the Arts (CalArts) da Judy Chicago, Miriam Shapiro e un gruppo di studentesse all’inizio degli anni ‘70. Nell’autunno del 1971, Judy Chicago e Miriam Shapiro inaugurarono il Feminist Art Program. Con la scuola in costruzione e la mancanza di spazio, Chicago e Shapiro accolsero l’idea proposta da Paula Harper: affittare uno spazio e trasformarlo in un progetto femminista. Trovarono una casa abbandonata in lista d’attesa per essere demolita in Mariposa Street, un quartiere residenziale di Hollywood, a Los Angeles. Nonostante lo stato fatiscente e di abbandono della casa, Judy Chicago decise che “mariposa” (farfalla in spagnolo, il suo animale fortunato) fosse un buon segno. Nelle sei settimane successive un gruppo di 25 donne studia, lavora e si esibisce all’interno della casa, trasformando ciascuno degli spazi e le 17 camere da letto in luoghi di lavoro e di studio. Demetrakas filma le sessioni di lavoro collettivo in Womanhouse e mostra come lo spazio è stato trasformato da casa a luogo di esposizione tra il 30 gennaio e il 28 febbraio del 1972.

Linen Closet di Sandy Orgel, 1972. Lartista afferma della sua opera: “questo è esattamente dove le donne sono sempre state, tra le lenzuola e sul ripiano, è giunto il momento di uscire dall’armadio”.

Quasi fosse un’allegoria politica (o un brutto scherzo della storia) la prima esposizione di arte femminista si sarebbe svolta in una casa abbandonata: uno spazio domestico che stava per essere demolito, trasformato prima in un’opera d’arte collaborativa e ambientale e poi in una galleria effimera, transitoria. In Womanhouse, è lo spazio domestico stesso, storicamente naturalizzato come “femminile”, che si trasforma in oggetto di critica e sperimentazione artistica. La casa eterosessuale, un sito privatizzato e disciplinare, è politicizzata e denaturalizzata attraverso il linguaggio, la pittura, l’installazione e le performance.

Menstruation Bathroom di Judy Chicago, 1972, particolare. come racconta l’artista: “le mestruazioni sono qualcosa che le donne nascondono. Fino a quando avevo 32 anni, non ho mai avuto una discussione seria con le mie amiche circa le mestruazioni. Il bagno è un’immagine del segreto nascosto delle donne, coperta da un velo di garza, molto, molto bianca e pulita e deodorizzata, ad esclusione del sangue, l’unica cosa che non può essere coperta”.

The Laundry Room di Beth Bachenheimer, 1972, da cui è visibile la Menstruation Barthroom.

Menstruation Bathroom di Judy Chicago, 1972.

Questo processo di investigazione ha avuto inizio nel 1969 al Fresno State College (ora California State University) quando, in risposta all’esclusione delle donne dalle università e dai circuiti di produzione e di esposizione artistica, Judy Chicago prese le distanze dall’astrattismo e organizzò il primo corso di “arte e femminismo” al di fuori della Scuola d’arte. Nel “Kitchen Consciousness Group”, Judy Chicago e la sua collega Kathie Sarachild misero in moto un metodo sperimentale di apprendimento collettivo attraverso il linguaggio e attraverso la drammatizzazione dell’esclusione. Il linguaggio destituisce la pittura e la performance prende il posto che aveva una volta la scultura nella formazione artistica tradizionale. L’idea rivoluzionaria di Chicago era che l’arte potesse trasformare la coscienza e quindi diventare anche uno strumento di emancipazione politica. D’altra parte, le tecniche di empowerment e le sessioni per aumentare questa coscienza (n.d.r. o auto-coscienza) divennero strumenti per produrre arte. Rompendo la gerarchia tra insegnante-studente, le partecipanti hanno costruito narrazioni autobiografiche collettive delle loro esperienze politiche di artiste e donne. Lo stupro, la discriminazione, l’aborto, la maternità, il lesbismo, la masturbazione, il divorzio, la contraccezione … appaiono ora come spazi di intervento non solo politico ma artistico. In un processo di dematerializzazione dell’arte e di intensificazione della pratica critica, l’apprendimento nel contesto della pratica artistica passa da forme di produzione materiale verso un’arte intesa come processo di emancipazione cognitiva e somatica.

Bridal Staircase di Kathy Huberald, 1972.

Lo scopo dell’arte non è più produrre un “oggetto”, ma piuttosto inventare un apparato di ri-soggettivazione capace di produrre un “soggetto”: un’altra coscienza, un altro corpo.

Oggi, rivisitare l’interno di Womanhouse attraverso il documentario di Demetrakas è allo stesso tempo motivante e commovente: partecipare alle conversazioni di auto-coscienza, entrare nella cucina trasformata da Vicki Hodgetts in uno spazio interamente rosa in cui le uova fritte invadono le pareti come seni, o il “Menstruation Bathroom” di Judy Chicago, pieno di tamponi rossi che in seguito sarebbe stato ingiustamente denunciato come un cliché dell’arte femminista (Chicago stava solo sottolineando il potere di nuove tecniche biopolitiche e igieniche sul corpo), o vedere l’armadio della biancheria trasformato nel corpo di una donna da Sandy Orgel, o guardare Chris Rush mentre performa l’opera “Scrubbing” in cui esegue l’atto di pulire il pavimento in tempo reale davanti a un pubblico tanto infastidito quanto sorpreso, o Faith Wilding (oggi nota a livello internazionale per il suo lavoro cyberfemminista) nella sua performance “Waiting” in cui narra l’esistenza femminile come un processo indeterminato di attese, o ancora Faith Wilding e Janice Lester travestite da pene e vagina mentre performano “Cock and Cunt Play” di Judy Chicago.

The Cock-Cunt Play, scritta da Judy Chicago, performance con Faith Wilding, Womanhouse, 1972.

Lea’s Room di Karen LeCoq & Nancy Youdelman, 1972.

Womanhouse ha prodotto un intervento critico di denaturalizzazione che ha anche messo a fuoco le interrelazioni tra 4 istituzioni presumibilmente distinte: l’università, il museo, lo spazio domestico e il corpo. Womanhouse ha posto una critica dello spazio domestico come tecnologia di produzione e dominio del corpo femminile, sottolineando l’istituzione del matrimonio e del sesso come regime di accoglimento e disciplina. Il dislocamento di queste prime pedagogie d’arte femminista nello spazio domestico (la cucina di Judy Chicago e la Womanhouse), che si trovavano al di fuori dell’università e del museo, è un segno dei limiti epistemologici delle istituzioni educative degli anni Settanta. La critica femminista ha messo in discussione le architetture della conoscenza e le sue frontiere epistemologiche. È ora possibile comprendere Womanhouse come parte di un lavoro di Institutional Critique che altri artisti (Michael Asher, Robert Smithson, Daniel Buren, Hans Haake, Marcel Broodthaers …) stavano realizzando contemporaneamente, ed estendendone ulteriormente la critica: all’istituzione della domesticità e dei suoi rapporti con l’educazione artistica e il museo.

Shoe Closet di Beth Bachenheimer, 1972.

The Nursery di Shawnee Wollenman, 1972.

The Nursery di Shawnee Wollenman, 1972.

Lipstick Bathroom di Camille Gray, 1972.

Il disprezzo istituzionale diretto verso le pratiche artistiche e critiche del femminismo avrebbe causato l’oblio e persino la distruzione totale dell’archivio dell’arte femminista degli anni ‘70: la casa in cui ebbe luogo l’esperimento Womanhouse, le installazioni, i murales, le trasformazioni architettoniche, furono tutte distrutte durante il governo di Roland Reagan. Tuttavia, le immagini catturate da Demetrakas tornano a noi oggi, per dirla con le parole di Georges Didi-Huberman e Warburg, come una sorta di ‘fantasma’ o ‘sopravvissuto’ in modo che sia ancora possibile sognare la nostra storia e immaginare altre possibili mutazioni delle istituzioni della scuola e del museo.

Lipstick Bathroom di Camille Gray, 1972.

Nightmare Bathroom di Robin Schiff, 1972.

Red Moon Room di Mira Schor, 1972.

Crocheted Enviroment di Faith Wilding, 1972

La versione integrale di Womanhouse di Johanna Demetrakas, 1974.

 

 

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