Let them be luxury goods#3

di Giulia Carletti.

Spunti per una ricerca sull’influenza a breve termine del “campo economico” sull’autonomia relativa del “campo della cultura”

PARTE III

Economia del capitale materiale come logica per le dinamiche culturali

Seguendo i precedenti capitoli (Let them be luxury good#1 e il successivo Let them be luxury goods#2 già pubblicati) possiamo individuare un terzo punto di contatto tra le due sfere definite dal sociologo Pierre Bourdieu. Questa volta riguarderà però l’ambito della forma mentis della “sfera culturale”, e cioè un principio di introiezione strutturale delle logiche di profitto che muovono l’economia dell’arte (la “sfera economica”).

Group Material, DA ZI BAOS, Union Square, New York, 1982.

Il problema dell’accessibilità

Tale questione è fortemente legata soprattutto al problema dell’accessibilità all’arte contemporanea. Questo senza dubbio forte problema di inaccessibilità, trova anche complice la difficoltà di comunicazione tra il campo dell’arte e il pubblico cosiddetto “generale”, di cui accennavamo nei capitoli precedenti. Bourdieu, infatti, riconduce al processo di autonomizzazione un’altra conquista importante della cultura, e cioè la nascita della figura dell’intellettuale il quale in virtù di questa sua autonomia dallo Stato, dalla politica e dall’economia, riesce sì a contribuire – insieme agli scienziati – a quello che il sociologo chiama «progresso dell’universale»,[i] ma che proprio a causa di fare dell’autonomia un’ideologia (così come l’arte per l’arte, l’autonomia per l’autonomia) e cioè considerando la sua “relatività” non un valore (quello comunicativo) ma un ostacolo, rischia di costruirsi intorno la famosa torre d’avorio.

Le due «logiche economiche», i due cicli di vita dell’impresa di produzione culturale, individuati da Bourdieu fanno trasparire infatti l’inizio di un problema dell’accessibilità alle forme più autonome di arte. Queste sono: da una parte la logica economica del ciclo di produzione breve (quella che minimizza i rischi perché si adatta alla domanda) dipende molto dalla “promozione”; dall’altra la logica antieconomica del ciclo di produzione lungo (dove c’è una maggiore accettazione del rischio) dipende a sua volta dagli «scopritori di talenti» – appaiono cioè accessibili solo a chi ha a disposizione strumenti e competenze culturali. Il sociologo infatti riconosce come «il commercio di “arte pura” [quella più autonoma e svincolata dai fini economici o politici] appart[enga] alla categoria di pratiche in cui sopravvive la logica dell’economia precapitalistica (come, in un altro ambito, l’economia degli scambi tra generazioni e, più in generale, della famiglia e di tutte le relazioni di philia)»[ii]. In aggiunta, Bourdieu si rende anche conto di come il suo stesso metodo di analisi correva il rischio trasformarsi in teoria e, sebbene difendeva l’autonomia degli intellettuali, aveva posizioni molto critiche nei confronti dell’intellettualismo e della sacralizzazione della cultura.[iii]

Group Material, DA ZI BAOS, Union Square, New York, 1982.

Per avere un approccio più progressista e democratico quando operiamo nel campo della cultura, non dobbiamo, quindi, intendere questa famosa differenza tra “grande pubblico” e intellettuali come ontologicamente appartenente al mondo dell’arte contemporanea, ma come un ostacolo da superare. Come disse Norberto Bobbio in un intervento pronunciato nel 1978 in un’università, intitolato Della presenza della cultura e della responsabilità degli intellettuali:

“Vorrei, per concludere, togliere l’impressione che nel parlare che io ho fatto, che noi continuamente facciamo, degli intellettuali ci sia un atteggiamento di presunzione. No, prendo atto di quello che è, di quello che è sempre stato. Ritengo che uno dei compiti dell’intellettuale – che è stato finora un privilegiato – sia dare il proprio contributo all’avvento di una società in cui la distinzione fra intellettuali o non intellettuali non abbia più ragione di essere. Questo è il problema”.[iv]

Group Material, Your Message Here, Chicago, 23 febbraio – 30 marzo, 1990.

La messa a profitto come soluzione: la proposta dei “fondi d’arte democratici”

Questa premessa sull’accessibilità è servita per dire che, sempre più frequentemente, le ipotesi per una sua soluzione vengono da quei personaggi del mondo delle istituzioni dell’arte che intendono applicarvi delle logiche di tipo economico. Ma perché queste logiche non possono applicarsi alle dinamiche espositive nei musei?

Per rispondere a questa domanda, si potrebbe partire da un articolo di Stefano Monti apparso su Artribune un anno fa, in cui l’autore cerca la soluzione per una più egualitaria e democratica fruizione dell’arte contemporanea (un «sistema sempre più elitario, dedicato a una piccola porzione della popolazione») nelle occasioni espositive offerte dai fondi d’arte. Secondo il partner Monti&Taft:

I fondi d’arte (proprio in virtù dei benefici economici che devono perseguire) potrebbero risultare molto più efficaci nell’estendere la platea dei potenziali “ammiratori” d’arte. Il naturale corollario di questo assunto è che organizzazioni quali quelle museali, proprio per l’assenza di quei vincoli “utilitaristici” [hic!], potrebbero invece essere inefficienti o, in ogni caso, essere meno pungolate dalle necessità di coinvolgere attivamente un bacino quanto più ampio possibile di visitatori.[v]

Ma perché i musei non dovrebbero essere “pungolati” dall’idea di aprire le loro porte a più visitatori? Secondo questo punto di vista (molto comune nel mondo manageriale dell’arte), il “controllo” dell’esponibilità dell’arte contemporanea andrebbe affidato ad una realtà in grado, per sua natura, di stanziare ingenti somme di denaro per l’arte, e sembrerebbe non esserci alternativa. Ma forse, prima, possiamo portare alla luce due questioni.

In prima istanza, se c’è un problema di tipo educativo-divulgativo, se i musei, quindi, appaiono ancora portatori di un’aura di esclusività potrebbe proprio essere a causa della loro dipendenza da quel “mondo del mercato” che Monti individua come «ultimo baluardo di “democrazia” in un sistema sempre più autoreferenziale ed elitario».[vi] Come evidenzia Trione, nel caso italiano, anche le mostre museali degli ultimi anni (non solo di arte contemporanea) tendono (apparentemente) ad avere un timbro non elitario, ma è qui che si crea un paradosso: «ci si nasconde dietro l’equivoco educativo-pedagogico. Si organizzano mostre blockbuster per conquistare visitatori nuovi. Anche se, poi, non le si dota di apparati didattico-esplicativi ben curati: molto spesso, invece, si forniscono informazioni generiche e devianti. Si annulla così ogni nobile attività formativa».[vii] Per questo motivo, quello dell’accessibilità, potrebbe non essere un problema strutturale delle istituzioni pubbliche, ma piuttosto un problema di funzionamento, di efficacia, dovuto alla loro “assenza” nel panorama della produzione culturale e “presenza” in quello della “cultura dell’incasso”. Come Monti stesso afferma nel testo (e qui sta il punto cruciale):

“Per l’uomo di “finanza” che trascorre la giornata a monitorare gli andamenti degli indici azionari e a sviluppare strategie di diversificazione del portafogli di investimento […], investire parte dei propri risparmi in un fondo d’arte rappresenta non solo la possibilità di dedicarsi a qualcosa di completamente differente e […] di più interessante rispetto alla propria routine, ma anche l’occasione di poter entrare a far parte, seppur con tutte le precauzioni del caso [?], della categoria dei collezionisti. […] Per un investitore di questo tipo, l’organizzazione di una mostra o di un evento, la possibilità di poter partecipare “inter pares” a incontri in cui spesso convergono i rappresentanti più affermati delle varie categorie sociali, non risponde meramente a una logica di event-marketing ma costituisce uno dei benefici attesi da un’operazione di questo tipo [quale beneficio?]”[viii]

Group Material, announcement for Cultural Participation at The Dia Art Foundation, 1989.

Ma quali benefici? Portare avanti una sterile battaglia verso il collezionismo in sé, a questa particolare attività alla quale la storia dell’arte deve moltissimo, oppure verso le pratiche di investimento nell’arte o i fondi d’arte di per sé non avrebbe senso. Proprio per questo però, e cioè per il fatto che il collezionismo non è mai attività culturalmente (e quindi socialmente) neutrale, bisogna capire quale sia la natura dei fondi d’arte e sollecitare una nuova riflessione sul cambiamento della figura del collezionista (vedi i capitoli precedenti). Inoltre, per quanto riguarda i fondi d’arte (chiamati anche art fund), questi sono «strumenti “collettivi” che, nello specifico, si propongono come forme strutturate d’investimento indiretto in opere ed oggetti d’arte».[ix] Come spiega Egidi, «la maggior parte dei fondi di investimento che operano sul mercato non hanno ancora costruito alcun curriculum ed è quindi difficile valutare la loro validità».[x] Gli investitori in questi fondi possono essere sia investitori istituzionali, sia investitori privati che, invece, ricercano di accrescere il capitale a lungo termine e allo stesso tempo di diversificare il loro portfolio.[xi]

I collezionisti e gli investitori in arte di oggi, dunque, hanno un profilo nettamente diverso dai loro analoghi di venti anni fa (e di quelli che operavano durante le avanguardie), come anche detto sopra. Anche se i motivi generale del collezionismo possono andare al di là dell’investimento (almeno di quello immediato)[xii], è anche vero che l’aumento del bacino di una certa classe privilegiata è risultato anche nell’aumento del collezionismo giovane (fenomeno presente soprattutto in Cina)[xiii]. Pertanto, è probabile che i casi in cui l’investitore nel fondo d’arte voglia sentirsi parte di «un fenomeno culturale» siano abbastanza rari, o quantomeno di gran lunga inferiori a quelli in cui a volerlo sia invece sia il collezionista che attinge al mercato primario o secondario delle aste. Secondo la collezionista Valeria Napoleone «non si può creare una collezione senza avere un rapporto personale diretto con le persone che possono sostenerti in questo percorso, cioè i professionisti nel mondo dell’arte. Chi può aiutarti a costruire una collezione di valore, di qualità, nel corso del tempo (non in due o cinque anni, ma nel corso di 10-20 anni e più) sono prima di tutto gli artisti».[xiv] E questo perché le opere d’arte acquistate da un fondo sono selezionate solo sulla base di una «stima del rendimento dell’investimento, liquidità, diversificazione del rischio e condizioni del mercato».[xv] Come spiega Durisotto, «investire in un Art Fund non richiede particolari conoscenze in campo storico artistico» ed è molto probabile che chi decida, quindi, di investire nei fondi d’arte sia motivato soprattutto dall’abbattimento dei costi di assicurazione e conservazione, dalla riduzione dei costi di transazione e quelli associati al collezionismo (come il Buyer’s Premium o le commissioni dei mercanti) oppure dai possibili vantaggi fiscali secondo i quali un fondo può essere strutturato.

Group Material, The People’s Choice (Arroz con Mango), 244 East 13th Street, New York, 1979-80.

Detto ciò, come può una «spinta alla democratizzazione dell’arte» provenire da una realtà che di “democratico” ha molto poco, come quella degli investimenti ad alto rischio? Lungi da una retorica anti-liberista, il punto, di nuovo, non è la condanna dell’uno o dell’altro sistema. Non si tratta di difendere il campo dell’arte dal campo dell’economia, o da quello che i sociologi chiamano “turbocapitalismo”. Il punto è: chi decide cosa e a chi, veramente, appartiene cosa. Come centri di ricerca, i musei pubblici dovrebbero puntare su una «redistribuzione della conoscenza»[xvi] e, come tali, appartenere a tutti. Essenzialmente, vuol dire che i musei pubblici sono (o dovrebbero essere), di fatto, dei pubblici e del “pubblico”. Perché al visitatore esterno al mondo dell’arte contemporanea (il grande pubblico) non deve essere mostrata una collezione curata e allestita secondo criteri diversi da quelli che avrebbe in un fondo di investimento? Perché non dovrebbero essere investite più risorse su formazione e assunzione del personale museale invece che scavalcare l’amministrazione interna a piè pari?

L’arte contemporanea – un mondo, oggi, dei più eterogenei e diversificati e, per questo, dei più controversi – mai quanto in questo periodo storico deve essere esposta in maniera ragionevole e sensata, e cioè garantendo al pubblico un ruolo attivo, offrendo spunti per una ricerca (personale, intellettuale o affettiva) attraverso visioni curatoriali valide. La visione di Monti, comune a molti (come per esempio al museologo e direttore del L.U.C.C.A. Maurizio Vanni) contribuisce a plasmare un’idea di arte come «universo indefinito fondato su relazioni di cooperazione e di comunicazione».[xvii] Anche se sfruttare le occasioni di mostra proposte da un fondo d’arte darebbe senz’altro una mano nella “divulgazione” dell’arte contemporanea, dall’altra significa considerare questi eventi non occasioni di “arricchimento culturale” ma di avvicinamento della domanda (il pubblico) con l’offerta (le opere). Bisognerebbe, infatti, sottolineare che l’arte contemporanea – che non è una “corrente”, né un “movimento”, né un “-ismo” di inizio Novecento – non deve essere mostrata nelle istituzioni pubbliche per il gusto di farlo. Poco spesso, infatti, ci si interroga sulle responsabilità culturali di quest’ultima a favore di una desiderabile turbo-esposizione fine a sé stessa. Poco spesso ci si chiede “cosa significa produrre un oggetto d’arte oggi?”, “come ci parla del mondo contemporaneo?”. Porsi domande del genere, anche da parte degli stessi collezionisti e investitori che decidono di andare a influenzare e modellare i processi espositivi dell’arte non significa indentificare l’arte contemporanea con una propaganda del pensiero unico. Tutto il contrario. Capire che la questione dell’esponibilità dell’arte contemporanea nei musei e nelle istituzioni pubbliche non è imputabile solamente a mancanze amministrative e ad una miopia culturale diffusa in Italia significa facilitare un sistema espositivo in cui sarà proprio una pluralità di voci e linguaggi ad emergere spontaneamente per andare altrettanto spontaneamente incontro a chi vorrà respirarle e a chi vorrà (e non chi “avrà la capacità di”, come vorrebbe una certa forma di elitarismo culturale) conoscerle. Linguaggi e pratiche artistiche dovranno sempre essere portatori di un pensiero nuovo: sulla libertà, sull’identità, sul mondo in cui viviamo e sui sistemi nei quali ci dimeniamo, sulle sue possibili vie d’uscita. Devono saper parlare e non possono più non avere qualcosa da dire.

Group Material, The People’s Choice (Arroz con Mango), 244 East 13th Street, New York, 1979-80.

Detto tutto questo, chi può avanzare un giudizio e agire proprio come quei filtri della storia di cui abbiamo parlato all’inizio? Forse proprio tutte quelle figure intellettuali, composti da studiosi, critici, storici dell’arte e che, trasparenti, da decenni ormai hanno lasciato quel “campo della cultura” senza che, evidentemente, nessuno se ne accorgesse. Come spiega Egidi, oggi «i critici non hanno più lo stesso potere di una volta nell’influenzare la carriera di un artista e il suo valore».[xviii] Se fino a pochi anni fa il critico era in grado di costruire un proprio discorso teorico attorno ad opere e artisti, oggi «sono le numerose fiere e biennali a tenere aggiornato il pubblico e gli addetti e piuttosto che leggere una recensione informata in genere i lettori preferiscono scannerizzare velocemente le numerose informazioni disponibili online. Contribuisce al tramonto della figura del critico anche il fatto che i media non sono disposti a pagare granché per i testi che non di rado vengono scritti a titolo gratuito in cambio del prestigio e degli inviti offerti da fiere, biennali e gallerie».[xix] Perché non garantire a queste figure un’ulteriore sfera autonoma non solo dal mercato, ma anche dai trend dell’arte contemporanea (che non è difficile assimilare ad una sfera tutta a sé più vicina a quella della “moda” che non a quella della cultura) un ulteriore campo?

Group Material, AIDS Timeline, University of California Berkeley Art Museum,1989-90.

Conclusione: accessibilità e autonomia. Che fare?

Nei primi due capitoli di questo testo, abbiamo visto come il rischio di un’estrema coincidenza della sfera dell’arte con quella del mercato sia ancora lontano. Quel 32% (una percentuale, comunque, non indifferente) delle mostre nel mondo che espone gli artisti più venduti e gli studi di Wuggenig e Rudolf ci hanno dimostrato come non esista ancora una corrispondenza tra artisti più venduti e artisti più esposti, o “più culturalmente validi”. Il punto, tuttavia, non è far scomparire i “più venduti” dalle mostre, ma capire in quale misura le vendite possano comunque tirare quelle redini invisibili dei processi espositivi a breve termine e contribuire indirettamente a plasmare un’idea di gusto e di generale percezione dell’arte. Questo vuol dire non solo parlare di accessibilità ma, in più larga misura, anche inclusività.

La speranza sta forse nella percezione e nella capacità degli intellettuali e, speriamo, anche dei pubblici dell’arte (ai quali, ricordiamo, l’arte dei musei pubblici appartiene), di identificare un certo tipo di arte e di realtà private o finanziarizzate con i “beni di lusso”. E allora, forse, una tale ghettizzazione spontanea dei musei del lusso può essere intravista anche nell’analisi di Ekelund che abbiamo visto, che, tutto a un tratto, sembra delineare un orizzonte piuttosto positivo, legato a ciò che ci suggerisce anche Fraser:

“Lasciate che queste istituzioni private siano le volte del tesoro, gli spettacolari parchi a tema e i freak show economici che già sono. Lasciate che i curatori, i critici, gli storici dell’arte e gli artisti ritirino il loro capitale culturale da questo mercato. […] Credo che un grande cambiamento nel discorso artistico possa contribuire a creare una lunga separazione da quel sotto-settore dominato dal mercato e composto da gallerie, case d’asta e fiere d’arte. Lasciate che questo sotto-settore diventi quel business dei beni di lusso che, essenzialmente, già è”.[xx]

Come riconosce Egidi «i protagonisti che operano nel settore dei beni di lusso e in quello dell’arte sono spesso gli stessi. […] Lusso e arte fanno parte dello stile di vita di una nuova élite economica. Spesso il settore dei beni di lusso sponsorizza le arti, ottenendo in cambio pubblicità e contatti con potenziali ricchi clienti, oltre a un vantaggio di immagine che deriva dall’associazione del suo marchio con i concetti di innovazione, creatività e originalità che l’arte contemporanea rappresenta».[xxi]

Da una parte, Fraser individua una speranza proprio nelle realtà museali finanziate direttamente dallo stato (quindi maggiormente europee), in quanto riconosce loro il potenziale per la nascita di un nuovo campo dell’arte (dato proprio da questa separazione dal campo del mercato) «dove nuove forme di autonomia possono svilupparsi: non come “alternative” secessioniste, … ma come strutture pienamente istituzionalizzate, che … saranno in grado di produrre, riprodurre e premiare forme di capitale specifiche e, speriamo, più equamente derivate e distribuite».[xxii] Dall’altra, lo scenario che Egidi traccia riguardo il futuro mercato dell’arte stesso è abbastanza positivo: «dopo gli ultimi anni in cui il mercato dell’arte contemporanea prediligeva artisti molto giovani e alla moda, c’è oggi un crescente interesse per la riscoperta di quegli artisti in età matura e a volte non più viventi che sono ancora quasi sconosciuti al mercato nonostante siano rispettati da critici e istituzioni. […] Inoltre, sempre più critici, artisti e altri addetti al settore si lamentano di un’arte troppo legata al commercio e globalizzata. Fanno notare che, ovunque si vada nel mondo, si ritrovano gli stessi nomi e lo stesso tipo di opere».[xxiii]

Non è difficile immaginare come questo impulso del campo dell’arte all’autonomia dal mercato e dal settore del “lusso” possa filtrare già a breve termine un tipo di arte non valida. Questo potrebbe essere dovuto anche alla progressiva acquisizione, da parte del mercato dell’arte, del valore della trasparenza. Come sostiene Thomas Galbraith, Managing Director of Auctions della casa d’asta online Paddle8, «Penso che il mercato dell’arte sia cambiato in modo significativo negli ultimi trent’anni e oggi abbia meno avversione per i dati rispetto a prima. Questo si deve anche al fatto che vi circolano sempre più soldi e di conseguenza c’è una maggiore necessità di trasparenza».[xxiv]

La teoria dei campi di Bourdieu è lontana da qualsiasi tipo di nichilismo politico, in quanto «permette di spiegare in modo nuovo e convincente la possibilità che emergano punti di vista critici rispetto al potere e che l’ordine sociale sia messo in discussione».[xxv] Per fare in modo che la funzione pubblica delle istituzioni d’arte (in primo luogo i musei) riesca a sganciarsi dalle dinamiche della “sfera economica” e che il pubblico di oggi non “subisca” lo schizofrenico passaggio da un’arte effimera a permanenza breve a un’arte che “resterà nella storia”, perché non tracciare degli obiettivi? Ciò è in affinità non solo con la posizione di Bobbio che abbiamo illustrato sopra, ma anche con quella di Bourdieu, che nella sua post-fazione a Le regole dell’arte riportata da Wuggenig ci spiega finalmente che esistono due obiettivi principali per gli artisti, gli intellettuali e gli scienziati oggi:

“Da un lato, l’obiettivo è rafforzare l’autonomia, in particolare rafforzando la separazione dai produttori eteronomi e combattendo per garantire ai produttori culturali le condizioni economiche e sociali di autonomia in relazione a tutte le forme di potere […]. Dall’altra i produttori culturali devono essere strappati via dalla tentazione di rimanere nella loro torre d’avorio e incoraggiati a combattere, se non altro per garantire loro il potere sugli strumenti di produzione e consacrazione e, facendo in modo che essi rimangano coinvolti nel loro tempo, per affermare quei valori associati alla loro autonomia”.[xxvi]

Si può pensare alle seguenti proposte:

  1. Costi d’assicurazione invariati (laddove a richiedere i prestiti siano istituzioni pubbliche).
  2. Affrontare il problema dell’accessibilità all’arte contemporanea non attraverso la divulgazione ma tramite l’educazione e la professionalità.
  3. Investire in misura molto maggiore su studiosi, critici, storici dell’arte per quanto riguarda le dinamiche espositive delle collezioni, curatoriali e didattiche, in modo tale da dare più voce a coloro che riescono a parlare in modo critico della sfera dell’arte e che «comprend[ono] la consistenza antropologica delle immagini».[xxvii]
  4. Come suggerisce Fraser, «riconoscere la nostra partecipazione a quell’economia e confrontarla in modo diretto e immediato in tutte le nostre istituzioni, inclusi musei, gallerie e pubblicazioni».[xxviii]

 

Group Material, Post Regan election, New York, 1982.

note

[i] Boschetti, op. cit., p. 40.

[ii] Bourdieu, op. cit., p. 215

[iii] Boschetti, op. cit., p. 40.

[iv] Norberto Bobbio, Il dubbio e la scelta citato in Tomaso Montanari, Cassandra Muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità, p. 72.

[v] Stefano Monti, “I fondi d’arte e la democrazia”, Artribune 40, 2017, p. 23.

[vi] Ibid.

[vii] Trione e Montanari, op. cit., p. 8.

[viii] Monti, op. cit., p. 23.

[ix] Cecilia Durisotto, “Gli art fund: quando l’arte è solo un investimento”, Collezione da Tiffany, 14 aprile 2016. http://www.collezionedatiffany.com/gli-art-fund-quanto-larte-solo-un-investimento/

[x] Egidi, op. cit., p. 110.

[xi] Cfr. Egidi, op. cit., p. 111.

[xii] La motivazione principale del collezionismo rimane il valore sociale (status) che ne deriva, secondo il sondaggio di Deloitte e ArtTactic nel 2012, dove «il 60% dei collezionisti intervistati ha dichiarato che questo è il motivo principale per cui compra opere d’arte» (Anders Petterson intervistato da Egidi, op. cit., p. 47).

[xiii] «Dal 2009, l’incertezza economica ha incoraggiato gli investitori a cercare altri beni di investimento reali e alternativi» (Anders Petterson intervistato da Egidi, op. cit., p. 47).

[xiv] Valeria Napoleone intervistata da Egidi, op. cit., p. 106.

[xv] Egidi, op. cit., p. 112.

[xvi] Trione e Montanari, op. cit., p. 101.

[xvii] Boschetti, op. cit., p. 31.

[xviii] Egidi, op. cit., p. 74.

[xix] Ibid., p. 75.

[xx] Fraser, “L’1% c’est moi”, p. 6. [traduzione dell’autrice].

[xxi] Egidi, op. cit., p. 54.

[xxii] Fraser, “L’1% c’est moi”, p. 7. [traduzione dell’autrice].

[xxiii] Egidi, op. cit., p. 58.

[xxiv] Ibid. p. 134.

[xxv] Boschetti, op. cit., p. 18.

[xxvi] Pierre Bourdieu, The rules of art, citato in Wuggenig, op. cit., p. 149.

[xxvii] Trione e Montanari, op. cit., p. 77.

[xxviii] Fraser, “L’1% c’est moi”, p. 6. [traduzione dell’autrice].

 

Bibliografia

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Trione, Vincenzo e Tomaso Montanari, Contro le mostre. Torino: Giulio Einaudi Editore, 2017

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Zampetti Egidi, Chiara, Guida al mercato dell’arte moderna e contemporanea. Skira, 2014.

 

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