MANIFEST Yourself! (Queer) Feminist Manifestos since the Suffragettes

Intervista a Valeria Schulte-Fischedick e Luise von Nobbe,

a cura di Alessia Riva.

Riot don’t diet, Laurie Penny.

L’Occidente sembra aver sempre assegnato prevalentemente al futuro la capacità messianica di rivelazione. È invece dal passato che arriva il potenziale di cambiamento: senza di esso, nessuna politica di insurrezione sarebbe possibile. Ecco che rileggere, ripensare e riscrivere il passato diventa uno strumento potente di lotta e di resistenza, perché ci permette di comprendere il suo potenziale di irruzione nel presente e di non conformarci all’egemonia della linearità temporale.

La mostra MANIFEST Yourself! (Queer) Feminist Manifestos since the Suffragettes, curata da Valeria Schulte-Fischedick e Luise von Nobbe – aperta al pubblico da novembre 2022 a gennaio 2023, presso la Künstlerhaus Bethanien di Berlino – ripercorre lo sviluppo dei manifesti femministi e queer attraverso una selezione di dichiarazioni pubbliche, spesso politicamente motivate, rilasciate da donne, persone trans e non binarie in diversi contesti. Prendendo come punto di partenza i manifesti delle suffragette di inizio ‘900, la mostra evidenzia come le varie ondate di femminismi, e le loro lotte, si sono evolute, spostandosi da una posizione principalmente bianco borghese verso l’intersezionalità, andando quindi oltre a categorie come il sesso biologico e l’identità di genere, l’età, le (dis)abilità e l’appartenenza di classe o religiosa.

È così che le voci e i manifesti del passato di donne spesso emarginate e ribelli tornano nel presente e mettono in discussione la versione dominante e patriarcale della Storia. Le urgenze, la rabbia e il desiderio di giustizia di ieri si ritrovano in quelle di oggi, nelle testimonianze di discriminazione, nelle strutture di potere coloniale e nelle condizioni di lavoro del tardo capitalismo.

Grazie alle loro caratteristiche linguistiche e formali, abbinate a un’affascinante ricchezza di temi e prospettive individuali, i manifesti costituiscono un elemento centrale della Storia dell’Arte Femminista del ventesimo e ventunesimo secolo, sono la culla del dissenso critico nella quale le richieste di trasformazioni sistemiche, di riconoscimento e rispetto delle differenze di ciascuno trovano una forma esplicita di espressione.

Queste rivendicazioni le troviamo ancora oggi affisse per strada, su fanzine autoprodotte, urlate a squarciagola nelle marce, nei testi delle canzoni, scritte sui libri o su internet. Gli eventi recenti come le proteste in Iran dopo la morte violenta di Mahsa Amini, che secondo la polizia morale non indossava il velo “decentemente”, la riduzione e la criminalizzazione dell’aborto negli Stati Uniti, la guerra di aggressione contro l’Ucraina dichiarata dalla Russia e le tendenze nazionalistico-scioviniste in un numero sempre maggiore di paesi hanno evidenziato l’urgenza delle lotte delle donne, delle persone trans e non binarie per il rispetto dei diritti fondamentali. È sempre più necessario e preminente, quindi, che le proteste non vengano mai messe a dieta e che sempre più persone facciano sentire la propria voce.

Lizzie Borden, Born in Flames, still, 1983.
Lizzie Borden, Born in Flames, still, 1983.
Lizzie Borden, Born in Flames, still, 1983.

Alessia Riva: La mostra MANIFEST Yourself! (Queer) Feminist Manifestos since the Suffragettes indaga il linguaggio di protesta nei lavori di artist*, attivist* femminist* intersezionali e come questo si è evoluto negli anni. Perché la scelta di questo tema? Per quale motivo ritieni che il manifesto (in senso ampio) sia il format più efficace da utilizzare in una mostra femminista nel 2022?

Valeria Schulte-Fischedick: I manifesti a mio avviso funzionano come acceleratori di particelle. Ogni manifesto porta sempre dentro sé la storia di tutti gli altri, creando una sorta di intertestualità linguistica fertile, polimorfa, perversa e incestuosa. Nella mostra MANIFEST Yourself! (Queer) Feminist Manifestos since the Suffragettes alla Künstlerhaus Bethanien di Berlino – che comprende il lavoro di oltre 30 artist*, performer, attivist* e collettivi – il manifesto è concepito in senso ampio. Comprende accanto alle arti visive e alle performance anche poesie, fumetti, fanzine, manifesti (diffusi anche pubblicamente in città), canzoni, podcast, pole-dance e raccolte di manifesti in un’area di ricerca.

In realtà ci sono ben più di centocinquanta manifesti, dichiarazioni e statement femministi e queer dal XVII secolo ad oggi. Ciò che li rende così interessanti per una mostra è che essi, in quanto atti discorsivi collettivi e voci visive, possono essere utilizzati per tracciare sismograficamente le grandi linee di femminismi sempre più intersezionali nelle rispettive regioni e contesti: dalla lotta per il suffragio femminile al femminismo Nero e dall’ecofemminismo al cyber-, glitch-, xeno-, trans- e Carefeminism, solo per citarne alcuni. Oggi, il femminismo si è evoluto in femminismi plurali ed è diventato una questione di diritti umani fondamentali.

Scioperi, proteste, spettacoli, concerti, opere d’arte, pubblicazioni e dibattiti continuano a portare avanti le conquiste, ottenute dopo dure battaglie, di donne*, trans, inter, genderqueer e persone non binarie. Ancora oggi i manifesti sotto varie vesti – che nell’era degli hashtag stanno letteralmente diventando virali – continuano ad essere uno strumento efficace per la rapida diffusione di messaggi queer e transfemministi e per ricevere maggiore supporto, self-empowerment e visibilità.

Come dicono le Guerrilla Girls: “Usa la parola con la F, sii femminista!” – … e questo – come spero che la mostra trasmetta – è rivolto a tutti!!!

LASTESIS x Pussy Riot, MANIFESTO AGAINST POLICE VIOLENCE, 2020.
Regina José Galindo, No Aceptamos Sus Disculpas, performance, 2019.

AR: Negli ultimi anni abbiamo assistito – e stiamo continuando a vedere – un numero sempre maggiore di proteste che assumono rilevanza globale anche grazie a internet. Basti pensare alle ribellioni in Iran che stanno accadendo in questo momento, o al movimento Black Lives Matters, oppure alla performance del collettivo cileno LASTESIS. Quanto è forte, secondo la tua opinione, il potenziale di cambiamento che porta con sé il linguaggio di protesta?

Luise von Nobbe: Ci sono molte forme di proteste diverse nel mondo che sono difficili da confrontare. Ognuna ha sviluppato il proprio linguaggio, mentre il loro potenziale di cambiamento varia molto. Ciò che è chiaro è che senza le proteste oggi non vivremmo in un sistema legale democratico nell’UE. Il linguaggio della protesta si è già consolidato nel 21° secolo, non solo come momento iniziale di cambiamento nella società, ma anche come segno di resistenza contro i contraccolpi conservatori.

Quello che voglio sottolineare è che le proteste hanno molte più funzioni che apportare cambiamenti in termini di trasformazione di un sistema più ampio in senso misurabile. A volte è utile se incoraggiano le persone o le fanno riflettere. Quando le persone che la pensano allo stesso modo possono unirsi e mostrare solidarietà.

Nell’arte, il linguaggio della protesta mira anche a rompere le abitudini di visione del pubblico e a negare le aspettative delle artiste donne* e queer. Ad esempio, Del LaGrace Volcano, che si descrive come un terrorista di genere part-time, mette in scena corpi trans in topless o travestiti. Ulrike Flaig fa una parodia lasciva dell’artista (star) Joseph Beuys in una posa sicura di sé. Ceal Floyer utilizza una spazzola per capelli come microfono aperto per trasportare le donne dalla sfera domestica del lavoro di cura al pubblico. Invece di una frase intellettuale, Monica Bonvicini monta Me Hot Fem! sull’alluminio mentre le Guerrilla Girls gridano: Don’t make only FINE art.

Kolbeinn Hugi, FRZNTE, video, 2019.

AR: In Living a Feminist Life, Sara Ahmed scrive: “A life can be a manifesto. When I read some of the books in my survival kit, I hear them as manifestos, as call to actions; as call to arms”. Quanto, anche oggi, “il personale è politico”? Penso a tutte le persone razzializzate; queer; non binarie la cui presenza ancora non è accettata o prevista all’interno della società, oppure alla performance Un violador en tu camino (2019) del collettivo cileno LASTESIS che ha spronato le donne a parlare riguardo abusi sessuali e femminicidi. In questo senso MANIFEST Yourself può essere letto come una chiamata alle armi per tutte queste soggettività, le quali semplicemente vivendo la propria verità, possono essere manifesti di resistenza e cambiamento?

LvN: Il carattere potenziante e attivante della mostra è stato di fondamentale importanza per me e Valeria Schulte-Fischedick fin dall’inizio del progetto. Attraverso vari canali, MANIFEST Yourself! consente di esaminare il complesso intreccio di genere e società. Diversi workshop e conferenze hanno accompagnato la mostra, tra gli altri: l’artista Rufina Bazlova, la storica dell’arte Elena Zanichelli e alpha nova & galeria futura, hanno creato ulteriori momenti di scambio e networking.

Ma MANIFEST Yourself! è qualcosa di più dell’agitazione: la mostra consente approfondimenti sull’ampia storia del manifesto femminista (queer), soprattutto sotto forma di opere d’arte visive, dall’inizio del XX secolo fino ad oggi. Riflette questioni diverse da diverse regioni, classi e generazioni. In quanto tale, MANIFEST Yourself! non va letta solo come una “chiamata alle armi”, ma prima di tutto come un tributo alla pratica artistica coraggiosa e indipendente delle donne*, delle persone trans e non binarie. Non solo da una prospettiva femminista, ma anche da una traiettoria storica e politica dell’arte, è impressionante il modo in cui ci si è appropriati ed è stato sviluppato il manifesto come codice formale ricorrente nel campo dell’estetica e oltre.

Guerrilla Girls,Guerrilla Girls Demand a Return to Traditional Values on Abortion, poster, 1992. Courtesy guerrillagirls.com

AR: In mostra sono presenti molti materiali eterogenei: opere sonore; podcast; effimera; posters; archivi; fotografie; materiali di protesta. Mi ha ricordato come approccio la documenta fifteen curata dai ruangrupa nel 2022. Ho letto anche nella tua mostra l’intenzione di prendere le distanze da un’idea di arte “tradizionalmente” intesa che prevede la contemplazione visiva di un’opera compiuta. Qual è stata la tua visione?

VSF: Grazie innanzitutto per aver menzionato la documenta fifteen di ruangrupa, anche se ovviamente ha un approccio totalmente diverso rispetto alla mostra MANIFEST Yourself!. Penso che la documenta dello scorso anno sia stata una delle edizioni più forti che abbia visto finora (dal 1990), in quanto ha completamente ricreato e ricostruito il suo formato e il modo di concepire un programma espositivo come quello. Ha messo seriamente in discussione, includendo però gli spettatori in modo molto generoso e caloroso, anche se il cosiddetto Sud Globale avrebbe tutte le ragioni per farci sentire la sua rabbia. Come detto, è un approccio totalmente diverso, ovviamente. Ho avuto la fortuna di incontrare uno dei curatori e membri di ruangrupa, Farid Rakun, credo nel 2018 o 2019 e gli ho suggerito di fare un discorso al Künstlerhaus Bethanien e lui ha riso, dicendo che avrebbero preferito fare una serata karaoke. All’epoca pensavo stesse scherzando, solo dopo ho scoperto che non l’avevo compreso. Ha poi spiegato che questo è il modo in cui lavorano in Indonesia, non è un nuovo concetto che hanno escogitato dal loro punto di vista, ma hanno esteso il loro solito modo di lavorare e soprattutto di collaborare alla grande prospettiva dell’enorme formato documenta. Sono rimasta profondamente colpita e – parlando con alcuni gruppi e collettivi lì a Kassel durante i giorni di apertura – ho avuto l’impressione che abbia funzionato davvero e che abbia emozionato e smosso le persone coinvolte. Non si trattava semplicemente di mostrare le opere degli artisti come oggetti, ma di vivere e performare le loro pratiche insieme al pubblico. I curatori hanno dato agli artisti fondi e totale fiducia. Stupendo. A mio avviso, c’è stata una gestione molto infelice delle discussioni e delle critiche che sono sorte intorno alla documenta fifteen. Sarebbe stato importante usarla come un’opportunità per approfondire quelle diverse prospettive e imparare da esse, per prenderla come una possibilità.

In precedenza, credo che anche Adam Szymczyk abbia curato una documenta eccezionale, che ci ha sfidato come spettatori e nella nostra prospettiva piena di hybris occidentale, destabilizzando in modo sottocutaneo le sue strutture dall’interno.

Statement from Black Lives Matter Platform, 2016, and poster by Marianne Wex for the exhibition “Female and Male Body Language as a Result of Patriarchal Structures” at Bonner Kunstverein, 1979 (installation view) © David Brandt
MANIFEST Yourself! (Queer) Feminist Manifestos since the Suffragettes, installation view © David Brandt
Installation view with works by femkanje and Valie Export, research module by re.act.feminism, and poster for the exhibition “§ 218 – Bilder gegen ein K(l)assengesetz” at Galerie Franz Mehring, 1977 (installation vies) © David Brandt
MANIFEST Yourself! (Queer) Feminist Manifestos since the Suffragettes, installation view © David Brandt

Siamo stati molto contenti di vedere che il pubblico era molto giovane, alcuni hanno visitato più volte e si sono approcciati alla mostra in gruppi, sono venute anche molte comitive di studenti. Per offrire al pubblico uno spazio per una ricerca più profonda sui libri e sui manifesti (abbiamo inserito un’area di ricerca simile anche nella mostra cross female del 2000), abbiamo messo a disposizione i moduli che hanno fatto parte del progetto ampio e d’archivio: re.act.feminism, A Performing Archive (2011 in corso), a cura di Bettina Knaup e Beatrice Ellen Stammer. Così il loro fantastico progetto è entrato a far parte della mostra, anche questa una grande collaborazione. Osservare le persone lì che leggevano mi ha fatto capire che il progetto funzionava e serviva a uno scopo, è stato bello da vedere, sono molto grata per quell’esperienza.

Abbiamo anche collaborato e offerto la mostra come piattaforma per artisti e gruppi berlinesi, ma anche internazionali: la coreografa e ballerina Florentina Holzinger e il fotografo Ashkan Sahihi, per esempio, hanno presentato un calendario ideato insieme durante una serata-evento. La fotografia January dell’opera di Holzinger A Divine Comedy, che è inclusa nel calendario, è stata ingrandita ed esposta durante la mostra. Le coreografie di Holzinger possono essere descritte come sorprendenti manifesti di danza femminista. È stato davvero un passo a due vivace. Nella serata di apertura abbiamo anche avuto un altro passo a due, un’esibizione di pole sound mozzafiato di FRZNTE e luïza luz, che hanno operato con manifesti e movimenti femministi (queer) nel loro atto.

Janet Burchill/Jennifer McCamley, Aesthetic Suicide, 2013 © David Brandt

Durante la mostra si è svolto un workshop con l’artista partecipante Rufina Bazlova in collaborazione con Akademisches Netzwerk Osteuropa e.V. e sostenuto da Wissenschafts- und Expertennetzwerk für Belarus. Il workshop è stato avviato e coordinato da Ina Lankovich, membro del consiglio di akno e.V. e membro della comunità bielorussa Razam e.V. Consisteva in una lettura e discussione informale, nonché in un ricamo congiunto in segno di resistenza e solidarietà con i prigionieri politici in Bielorussia.

Inoltre, si è svolta una tavola rotonda sui manifesti femministi con le curatrici Katharina Koch e Sylvia Sadzinksi dello spazio berlinese alpha nova & galerie futura, che avevano invitato tra le altre Sophie Lingg, Claudia Lomoschitz, Raluca Voinea – la coautrice insieme ad Alexandra Pirici del Manifesto for the Gynecene – Sketch for a New Geological Era – e Christina Zück a prendervi parte. Ha poi avuto luogo un altro workshop con Elena Zanichelli (Mariann Steegmann Institut I Kunst & Gender) e gli studenti dell’Università di Brema, che ha condotto a discussioni stimolanti e proficue sui temi della mostra.

Installation view with works by Andrea Bowers, Ceal Floyer, and Monica Bonvicini © David Brandt
Monica Bonvicini, Picked Up and Thrown, 2020, and Regina José Galindo, No aceptamos sus disculpas, 2019 / Lo voy a gritar al viento, 1999 (installation view) © David Brandt
Showcase with various documents from feminist manifesto history in art, literature, and music © Eric Tschernow

AR: Nel tuo testo critico MANIFEST Yourself è evidente lo stretto legame genealogico che intercorre tra il manifesto e la memoria: ogni manifesto deriva da quello che l’ha preceduto e ne porta con sé la storia. Ne indichi molti che si sono susseguiti nel tempo come, ad esempio, Why i want the vote (1910) di Maud Arncliffe Sennett; S.C.U.M. Manifesto (1967/68) di Valerie Solanas; Cyborg Manifesto (1985) di Donna J. Haraway; il riot grrrl Manifesto del 1991; l’Ecosex Manifesto (2011) di Elizabeth M. Stephens e Annie M. Sprinkle; lo State of the Black Union Manifesto (2015) del movimento Black Lives Matters, solo per citarne solamente alcuni. Ce n’è in particolare uno, o più, a cui ti sente legata o che ritieni sia stato importante per la tua formazione (o radicalizzazione) femminista?

VSF: Penso che il primo manifesto femminista che io abbia letto sia stato il Manifesto Cyborg (1985) di Donna Haraway durante i miei studi di storia dell’arte negli anni ‘90, che la nostra professoressa progressista Susanne von Falkenhausen ci ha presentato alla Humboldt University di Berlino. È stato una rivelazione, insieme anche ai pensieri di Judith Butler. Poi, attraverso i miei contatti (allora ancora da free-lance) con la Künstlerhaus Bethanien, ho incontrato Josephine Starrs del collettivo cyberfemminista VNS Matrix (VNS Matrix ha scritto finora tre importanti manifesti cyberfemministi: Cyberfeminist Manfesto for the 21st Century, 1991, Bitch Mutant Manifesto, 1994, e A Tender Hex for the Anthropocene, 2016) e li ha presentati, insieme alla co-curatrice Barbara Höffer alla mostra cross female alla Künstlerhaus Bethanien di Berlino nel 2000. I loro manifesti hanno avuto un enorme impatto sulle successive generazioni di cyber- e altre femministe.

VNS MATRIX, A Cyberfeminist Manifesto for the 21st Century, 1991. Courtesy VNS Matrix

Il famoso S.C.U.M. (Society for Cutting up Men) Manifesto di Valerie Solanas (1967) ovviamente è sempre stato anch’esso nell’aria. Benché fino ad oggi sono molto ambivalente riguardo questo manifesto e il suo status di culto pop, reprimendo il pensiero che Solanas abbia sparato a tre uomini, tra cui l’artista Andy Warhol, il linguaggio e la voce potente della sua scrittura sono comunque brillanti. Il manifesto inizia così: «Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile».

Molto importante nel percorso verso la mostra è stato anche un libro che ho letto alcuni anni fa, Women & Power – A Manifesto di Mary Beard (2017), nel quale argomenta come le donne siano state private della loro voce e del loro potere fin dall’antichità. Beard descrive la connessione tra potere e discorso pubblico, che nel caso delle donne* continua ad essere inibito o del tutto messo a tacere. Mi piace molto questa sua frase: «Non puoi inserire facilmente le donne in una struttura che è già codificata come maschile; devi cambiare la struttura».

Facendo ricerca come guest-editor insieme e su invito di Elena ZanichelIi per la rivista online FKW Nr. 70 (https://www.fkw-journal.de/index.php/fkw/issue/view/85) nel 2021/2022, ho scritto su #feministmanifestos – è stato allora che mi è venuta l’idea per la mostra – e ho imparato molto sui vari femminismi in tutto il mondo. È stato piuttosto impressionante leggere queste voci femministe urgenti, coraggiose e accese in diverse regioni, anche attraverso le petizioni, le dichiarazioni e le affermazioni di femministe indigene intersezionali*, per esempio, o quelle del sud-est asiatico e del Pakistan, che hanno ovviamente ritmi propri completamente diversi e indipendenti dalla categorizzazione occidentale delle cosiddette quattro ondate di femminismo.

Andrea Bowers, Book not Bullets: Ode to Codepink (Santa Barbara), 2018.
Installation view with works by Ulrike Flaig, Holzinger/Sahihi, Marinella Senatore, Monica Bonvicini, Guerrilla Girls, Signe Pierce, and Andrea Bowers © David Brandt

AR: Propongo anche a te, Luise, la stessa domanda che ho rivolto a Valeria Schulte-Fischedick: uno, o più, manifesti a cui ti senti particolarmente legata o che hanno giocato un ruolo importante nella sua formazione femminista, sia intellettuale sia come persona?

LvN: Per la nostra mostra, ho trovato particolarmente importante la posizione di Andrea Bower con le sue serie Political Poetry (2013) e Ecofeminist Oak Branch (2021). L’artista mette formalmente in discussione l’uso delle risorse nell’arte e confronta il pubblico con la distruzione ambientale attraverso varie poesie e slogan, compresi quelli di Vandana Shiva e Khalil Gibran. Nelle parole di Mary Daly, chiama le femministe pirati radicali che lottano per la sopravvivenza della terra.

Nel contesto di MANIFEST Yourself!, la serie di Andrea Bowers può essere vista come un percorso che porta al lavoro di molte altre artiste donne* e queer che usano la loro pratica per difendere le preoccupazioni ecologiche. Attraverso il loro impegno, diventa sempre più chiaro quanto l’idea di crescita infinita del 19° e 20° secolo sia strettamente legata a una visione del mondo occidentale codificata da un maschio*. La resistenza femminista (queer) sembra essere di fondamentale importanza non solo per la vita di innumerevoli donne*, persone trans e non binarie, ma anche per l’ulteriore sviluppo del nostro pianeta.

Opening performance by FRZNTE and luïza luz at Künstlerhaus Bethanien © Galya Feierman
Opening performance by FRZNTE and luïza luz at Künstlerhaus Bethanien © Galya Feierman

Il duo Annie Sprinkle e Beth Stephens esplora la terra come risorsa preziosa e amante sensuale da diversi decenni. All’interfaccia tra arte (performativa), ecologia e teoria queer, hanno sviluppato una forma di ambientalismo che è femminista, sessuale, post-umano, materialista e intriso di umorismo. Nel loro Ecofeminism (2011), Sprinkle e Stephens si dichiarano non solo amanti pacifiche della terra, ma anche combattenti per la sua conservazione:

«Siamo attivisti ecosex. Salveremo le montagne, le acque e i cieli con ogni mezzo necessario, specialmente attraverso l’amore, la gioia e i nostri poteri di seduzione. Fermeremo lo stupro, l’abuso e l’avvelenamento della terra. Non perdoniamo l’uso della violenza, anche se riconosciamo che alcuni ecosessuali possono scegliere di combattere i colpevoli per aver distrutto la Terra con la disobbedienza pubblica, gli anarchici e le strategie di attivisti ambientali radicali. Abbracciamo le tattiche rivoluzionarie dell’arte, della musica, della poesia, dell’umorismo e del sesso. Lavoriamo e giochiamo instancabilmente per la giustizia della Terra e la pace globale. Le bombe fanno male».

Opening performance by FRZNTE and luïza luz at Künstlerhaus Bethanien © Galya Feierman

AR: Pensando alle pionieristiche e ormai memorabili mostre femministe e queer che si sono susseguite negli anni, per citarne alcune: Women Artists: 1550-1950 (1976-77) a cura di Linda Nochlin e Ann Southerland Harris; Witnesses: Against Our Vanishing (1989) a cura di Nan Goldin; Bad Girls (1993 e 1994) a cura di Kate Bush, Emma Dexter e Nicola White, Marcia Tucker, Marcia Tanner; In a Different Light: Visual Culture, Sexual Identity, Queer Practice (1995) a cura di Nayland Blake e Lawrence Rinder; Global Feminism: New directions in Contemporary Art (2007) a cura di Linda Nochlin e Maura Reilly; WACK! Art and Feminist Revolution (2007-2009) a cura di Cornelia Butler; Gender Check. Femininity and Masculinity in the Art of Eastern Europe (2010) a cura di Bojana Pejić. Secondo te, come il rapporto tra femminismo e arte si è evoluto nel tempo? Si dice che fare la conta sia una questione femminista: tuttora il numero di artist* donne, queer, non-binary espost* in mostra o rappresentat* da gallerie è basso. C’è quindi ancora oggi la necessità di fare mostre dichiaratamente femministe?

VSF: Assolutamente, c’è – purtroppo – ancora un enorme e urgente bisogno di tali azioni, spettacoli, libri, canzoni e – sì – mostre. Le Guerrilla Girls stanno realizzando da decenni opere sorprendenti e molto ironiche sul basso numero di artiste donne*, queer, trans o non binarie nella scena artistica.

Nel 2000, Barbara Höffer ed io abbiamo messo in discussione nella già citata mostra collettiva cross female il discorso in parte celebrato con euforia dell’incrocio – o addirittura della dissoluzione dei sessi – negli anni ‘90 presente nelle teorie, nuovi media, moda, pubblicità, pop e sottocultura, per lo più inespresso nella società.

Billie Zangewa, The Rebirth of the Black Venus, 2010
Billie Zangewa, The Rebirth of the Black Venus, 2010 (installation view) © David Brandt

Ora, 22 anni dopo, la speranza – e probabilmente l’ingenua supposizione – di un continuo miglioramento della situazione delle donne*, delle persone trans e non binarie non trova conferma. È vero il contrario: basti pensare alla situazione in Afghanistan o in Iran, alla guerra di aggressione russa in Ucraina, alla limitazione del diritto all’aborto negli Stati Uniti, all’alto numero di femminicidi in Sudamerica, ma anche qui in Europa, in Germania. Colpisce l’urgenza di tali esclamazioni e “chiamate alle armi”, come ha scritto Sara Ahmed.

Pay-Care- e Data-Gap mostrano inoltre quanto precarie siano state le conquiste queer-femministe dopo le lotte per il diritto di voto delle suffragette.

Del LaGrace Volcano, Dred King: Club Casanova, NYC 1997.
Ouassila Arras, Photos de famille, 2018/2022, and works by Del LaGrace Volcano (installation view) © David Brandt

Grazie per la splendida lista di mostre femministe che hai citato, vorrei aggiungerne altre più recenti – elencate anche nella mia introduzione al catalogo della mostra – come ad esempio Fun Feminism, Basilea, 2022/2023; Empowerment, Wolfsburg, 2022/2023; Worin unsere Stärke besteht – 50 Künstlerinnen aus der DDR, Berlino, 2022; Widerständige Musen. Delphine Seyrig und die feministischen Videokollektive im Frankreich der 1970er und 1980er-Jahre, Vienna, 2022; Feminist Sloganizing, Berlino, 2022; Feminismen Global, Berlino, 2022; No Master Territories – Feminist Worldmaking and the Moving Image, Berlino, 2022; I AM MILLI, Osnabrück, 2022; Feministische Avantgarde: Auf dem Weg der Freiheit, Novi Sad, 2022; Ladies and Gentlemen – Das fragile feministische Wir, Graz, 2021/2022; 1 Million Rosen für Angela Davies,Dresda, 2020/2021; DGTL FMNSM, Hellerau, 2020; Latin American Feminist Performance in Revolt, New York, 2019/2021; Manifestos: Art x Agency, Washington, 2019/2020; Kiss My Genders; Londra, 2019; Straying from the Line, Berlino, 2019; ´Ctrl+Alt+Del´ She Said, Berlino, 2019; Body Talk: Feminism, Sexuality and the Body in the Work of Six African Women Artists, Bruxelles, 2015.

La mostra conteneva, in omaggio alla meravigliosa curatrice femminista Marcia Tucker, il catalogo della mostra collettiva Bad Girls posto su una piccola mensola. Marcia Tucker (1940 – 2006) è stata una curatrice femminista, scrittrice e fondatrice del New Museum of Contemporary Art di New York nel 1977, che ha diretto fino al 1999. Ho avuto la fortuna di incontrarla a New York durante un viaggio di ricerca nel 2004. Ha curato mostre personali tra le altre di Joan Jonas (1984), Linda Montano (1984), Ana Mendieta (1988), Nancy Spero (1989), Mary Kelly (1990), Carolee Schneemann (1996) e Mona Hatoum (1998).

Bad Girls, allestita in due parti nel 1994 al New Museum, è ad oggi considerata una mostra femminista chiave.

Lizzie Borden, Born in Flames, 1983 (installation view) © David Brandt
Lizzie Borden, Born in Flames, still, 1983.
Lizzie Borden, Born in Flames, still, 1983.

Una parte molto bella della pratica curatoriale è la possibilità, al contrario di un saggio accademico, di creare la tua narrativa abbastanza liberamente e aggiungere anche note a piè di pagina molto personali, quindi, ho incluso accanto a Marcia Tucker e artiste-icone come Lynda Benglis anche omaggi nella forma di CD di Hildegard Knef, Aretha Franklin e Laurie Anderson. Nella vetrina dell’area ricerche, Luise ha esposto due libri dell’importante e influente Rivolta Femminile con testi di Carla Lonzi e altri. Durante l’opening indossavo una giacca (ovviamente vintage) di Jil Sander, ai miei occhi una fashion-maker-manifesto. Più tardi ho pensato che anche Vivienne Westwood sarebbe stata eccellente, ma sono troppo timida per quello stile fantastico, ahah!

Mi chiedi come penso che la relazione tra femminismo e arte si sia evoluta nel tempo. Questa è una domanda ottima e davvero fondamentale. Penso che sia un rapporto molto stretto, che sta diventando – dopo i grandi successi degli anni ‘60/70 e ‘90 – ancora più stretto oggi. Con tutti i conflitti menzionati in tutto il mondo e le sfide, come un fortissimo antifemminismo che tira un sacco di fili stranamente potenti nei (social) media, è qui l’urgenza. Soprattutto l’arte ha un forte impatto sulla promozione delle voci femministe queer, delle sue esclamazioni, slogan, canzoni. Ogni opera di Monica Bonvicini, per esempio, è tanto un forte manifesto femminista quanto, ovviamente, una meravigliosa opera d’arte.

Luise scrive in catalogo nel suo saggio Manifestos Against Speechlessness –The Voice of Women*, Trans and Non-Binary People in the Arts, come quelle voci siano state messe a tacere e come le artiste (queer)femministe e le loro opere le riportino sul palco – e questa volta ad alto volume!

Monica Bonvicini, Power Joy Humor Resistance,2021. Red neon double tube letters, electric cables 58 x 115 x 4cm.Photo: Anna Lott Donadel
Advertisement by Lynda Benglis published in Artforum magazine, November 1974, and exhibition announcement for “Metallized Knots” at Paula Cooper Gallery, New York City, 1974 2020 © Eric Tschernow

AR: Non c’è dubbio che siamo in un periodo nel quale la spinta al cambiamento è molto sentita. Penso, in particolare in Italia, alle numerose iniziative e proteste organizzate da Non Una Di Meno, penso alle marcione, alla grande quantità di fanzine autoprodotte da soggettività femministe, queer, afrodiscendenti, non binarie che si possono trovare alle fiere di editoria indipendenti. Secondo te, questa pluralità di voci e differenze che caratterizza il presente può portare ad una accelerazione e a una trasformazione reale del sistema (compreso quello artistico), oppure restano “parole gridate al vento”, per citare la performance di Regina José Galindo?

LvN: Gli attuali sforzi per promuovere la diversità e l’inclusione nelle arti e oltre si basano su discorsi sociali che sono qui per restare. Indipendentemente dalle tendenze e dal simbolismo, questo sviluppo dal basso sta cambiando il modo in cui le opere d’arte, gli artisti e le istituzioni artistiche sono percepite dal grande pubblico. C’è un nuovo senso di responsabilità. Le istituzioni artistiche non possono più evitare di affrontare questioni come la discriminazione basata sul colore, il genere o la disabilità, così come il loro utilizzo delle risorse. Sempre più spesso la capacità di cambiamento viene proclamata anche nell’ambito di macchine espositive come i musei statali, le biennali e le grandi collezioni.

Inoltre, artiste come Tabita Rezaire dimostrano che il cambiamento non deve dipendere dalla trasformazione dell’intero sistema. Il suo lavoro Peaceful Warrior (2015) è un manuale per un viaggio autonomo e olistico di guarigione dalla discriminazione, tra cui omofobia, transfobia, grassofobia e abilismo. Mira a decolonizzare e rigenerare i corpi traumatizzati attraverso pratiche fisiche, mentali e spirituali come lo yoga, la meditazione, l’alimentazione a base vegetale e l’amor proprio radicale.

Il cambiamento inizia sempre con scelte individuali e gesti di resistenza.

Monica Bonvicini, And Politically, 2020, poster layed out in the exhibition as well as displayed in Berlin in December 2023 © Maximilian Rauschenbach

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