Il mostro femmina. Alle tre del mattino ho cominciato a pensare che Hannah Wilke era un modello per tutto ciò che speravo di fare…

Se le donne non sono riuscite a fare arte «universale» dato che siamo intrappolate nel «personale», perchè non universalizzare il «personale» e farne il soggetto della nostra arte? Alcuni passaggi di “I love Dick” di Chris Kraus assumono una vita propria, indipendente da Dick.

Come le straordinarie “meditazioni” su Hannah Wilke di cui riproponiamo un estratto:

 

L’artista Hannah Wilke, nata Arlene Butter nel 1940, è cresciuta a Manhattan e Long Island. É morta di cancro a 52 anni. La sua produzione è stata prolifica e coerente. Attraverso uno sforzo costante è riuscita ad avere una carriera di spicco. A un certo punto, forse durante i primi anni settanta, il suo lavoro ha preso a misurarsi con la seguente questione:

Se le donne non sono riuscite a fare arte «universale» dato che siamo intrappolate nel «personale», perchè non universalizzare il «personale» e farne il soggetto della nostra arte?

Porsi questo interrogativo, essere disposti ad affrontarlo, è tuttora così audace.

Nel 1974, dopo aver prodotto per undici anni disegni, ceramiche e sculture murali – molti dei quali implicavano una «rappresentazione dura e ambigua del tradizionale linguaggio figurativo femminile» (Douglas Crimp, 1972) – Hannah ha cominciato a inserire la propria immagine nelle sue opere. Non so quali esperienze o vicende della sua vita abbiano accellerato questo processo. Vi fu spinta da critici quali Phylls Derfner che, in risposta alle sue fiche confezionate con filtri per lavatrice esposte alla Feldman Gallery nel 1972, scrisse:

«In questo c’è un certo spirito, ma è sommerso da un’ideologia aggressiva…. L’ideologia è quella della liberazione delle donne. I corpi femminili sono stati messi in mostra, ma solo in maniera oppressiva e “sessista”. La presentazione esplicita e monotona da parte di Wilke dell’immagine più intima della sessualità femminile vuole essere un rimedio contro tutto questo. Non capisco come potrebbe funzionare. É noiosa e superficiale».

A differenza di Judy Chicago e delle sue tronfie interpretazioni vaginali delle Grandi Fiche della Storia – una mostra alla quale tutte le madri del mondo potrebbero portare le proprie figlie – Hannah non ha mai avuto pura di perdere la sua dignità, di svilirsi, di chiamare fica una fica. «Voglio rilanciare al pubblico tutto quello che il mondo getta contro di me» (Penny Arcade, 1982). Più tardi Hanna raccontò al «Soho Weekly News» di aver raccolto il «materiale» per quest’opera nel corso di vari anni lavando i panni di Claes Oldenburg, all’epoca suo compagno. Anche allora Hannah era una neodadaista. Claes Oldenburg, Grande Artista Maschile Universale, sgambettato.

Hannah Wilke, Gestures, 1974.

Nel 1974 Wilke realizzò il suo primo video, Gestures. Creato il giorno dopo la morte del marito di sua sorella, Gestures era, tra le altre cose, un’espressione di cordoglio e smarrimento, un ritrovare il corpo dopo la morte. Il critico James Collins lo approvò in pieno su «Artforum». «Ogni volta che vedo il suo lavoro penso alla passera» dichiarò. Sostenitore della prima ora del lavoro di Wilke, Collins descrisse Gestures di conseguenza:

«Eroticamente il video di Wilke era più riuscito – “più arrapato” – delle sculture. Perché? Bè, tanto per cominciare, perché in scena c’è lei. Il video è probabilmente la cosa migliore della mostra perchè apparendo nelle sue opere, non utilizzando che la testa e le mani, l’artista dà in particolare all’atto di piegare un senso più forte. Il gesto di sfregarsi, massaggiarsi, lisciarsi e schiaffeggiarsi la faccia è interessante, ma è il movimento della bocca che si piega ad essere il più spinto. Perché infrange con sensualità una regola culturale ed è una definizione dell’erotico. Tendere le labbra e poi ripiegarle…. Usare la bocca come una vagina surrogata e la lingua come una clotoride surrogata, nel contesto del proprio viso, con tutta la sua storia psicologica, era roba forte!…

Hannah Wilke, S.O.S. – Starification Object Series, 1974-82.

La posizione di Wilke nel mondo dell’arte è uno strano paradosso tra la sua bellezza fisica e l’estrema serietà della sua arte. Hannah aspira a realizzare la propria sessualità; ma il suo tentativo di venire a patti con questo dilemma all’interno del movimento delle donne porta in sè una toccante aria di pathos».

Ma vedi, i paradossi nell’opera di Hannah Wilke non sono patetici, sono polemici. (Esattamente come quella sera al telefono, Dick, quando mi hai dato della «passiva-aggressiva»? Sbagliato!) Gestures svela la stranezza della reazione maschile alla sessualità femminile.

Nel frattempo, Hannah-dentro-l’opera stava esplorando un terreno molto più personale e umano.

«Ree Morton mi ha detto che, quando ha visto il video ha quasi pianto» ricorderà Wilke diversi anni dopo. «Mi sono esposta al di là della messinscena e lei ha visto oltre. Ha visto il pathos aldilà della messinscena».

Da quel momento in poi, Hannah diventò volontariamente un’opera d’arte auto-creata.

In SOS Starification Object Series (1974-1979) si gira verso la macchina fotografica di tre quarti, seno nudo e jeans con la chiusura lampo aperta, una mano sui genitali. I suoi occhi sono nudi e severi. La sua lunga capigliatura è acconciata in bigodini da casalinga, ovviamente un lavoretto domestico. Otto pezzetti di chewing gum masticato, sagomati a mo’ di vagina, sono appiccicati al suo viso come cicatrici o foruncoli. «Il chewing gum ha una forma prima che lo mastichi. Ma quando viene fuori, viene fuori come vera e propria spazzatura» dirà più tardi. «In questa società consumiamo le persone come consumiamo la gomma da masticare». Nella sua presenza, Hannah era sempre estremamente bella.

Nel 1977 realizzò un altro video intitolato Intercourse with….nel quale si sentono i messaggi lasciati sulla sua segreteria telefonica da fidanzati, amici e familiari mentre lei cancella dal proprio corpo nudo i nomi dei più inquietanti, scritti a caratteri tipografici. «Diventa il tuo proprio mito» cominciò a dire.

Come ogni altra opera d’arte, Hannah diventò un brandello di carcassa di animale investito dal traffico per gli sciacalli della stampa artistica. Fatta letteralmente a pezzi. Il suo corpo nudo esposto alle interpretazioni inconciliabili di maschi hippie che la vedevano come un avatar della liberazione sessuale e di femministe ostili come Lucy Lippard che considerava ogni auto-esposizione femminile uno stucco patriarcale.

Hannah cominciò a usare l’impossibilità della sua vita, del suo lavoro artistico e della sua carriera come materiali. Se l’arte è un progetto sismografico, quando quel progetto viene frainteso, anche il fallimento deve diventarne il soggetto. Nel 1976 produsse un poster costruito sul modello dei famosi annunci pubblicitari della School of Visual Arts per la metropolitana. Vi si leggeva:

«Avere un talento non vale granchè a meno che tu non sappia cosa farne». Hannah lo riprodusse con una foto del suo fottutissimo sé. Ritratto dell’Artista da Oggetto: Wilke indossa un grembiule fatto all’uncinetto che non nascnde per niente il suo seno nudo e tiene stretto un pupazzo di Mickey Mouse. Le ormai celebri vagine di gomma da masticare sono disposte come minuscole croste sul suo corpo. In un poster successivo intitolato Marxism And Art, Hannah indossa una camicia da uomo completamente aperta a rivelare i suoi seni nudi, fighe masticate e un’ampia cravatta maschile. «Attenti al Femminismo Fascista» dice il cartellone.

Hannah Wilke, Marxism and Art: Beware of Fascist Feminism, 1977.

Fin dall’inizio i critici d’arte hanno considerato un atto di «narcisismo» la propensione di Hannah a servirsi del proprio corpo nel lavoro artistico («Un’innocua atmosfera di narcisismo pervade questa mostra….», «The New York Times», 20 settembre 1975). Questo bizzarro descrittore la segue anche oltre la tomba, nonostante i tentativi appassionati di scrittrici come Amelia Jones e Laura Cottingham di confutarlo. Nella sua recensione di Intra-Venus, mostra postuma di Hannah, Ralph Rugoff descrive le sconvolgenti fotografie del suo corpo nudo e straziato dal cancro come «un emozionantissimo avventurarsi nel narcisismo». Come se per una donna mettersi pubblicamente a nudo fosse possibile solo perchè può essere auto-terapeutico. Come se il punto non fosse rivelare le circostanze della propria riduzione a oggetto. Come se Hannah Wilke non stesse reagendo genialmente al pregiudizio e alla paura del suo pubblico, invitando gli spettatori a partecipare con lei a un pasto nudo.

Pochi uomini intelligenti come Peter Frank e Gerit Lansing hanno riconosciuto la strategia e lo spirito dell’opera di Hannah, anche se, forse, non la sua audacia e il suo costo. Il fatto che fosse un genio. A ogni buon conto, la controversia attorno al suo lavoro non si è mai agglomerata in vera popolarità. Nel 1980 Guy Trebay fiutava sul «Village Voice» che la vagina di Hannah «adesso ci è familiare come una scarpa vecchia».

Qualcuno ha mai detto una cosa simile del pene di Chris Burden?

Nessuno, a parte gli amici più stretti e i familiari di Hannah, ha riconosciuto la dolcezza e l’idealismo alla base della sua opera. Il suo calore. L’umanità del suo essere femminile.

In un testo formidabile scritto nel 1976 Hannah dimostrerà di essere il proprio critico più avvertito:

«Riorganizzare il tocco della sensualità con una magia residuale fatta di filtri per lavatrice o latex disposti senza ordine come l’amore si mostra in tutta la sua vulnerabilità….espormi di continuo a qualunque situazione si presenti…Puntare oltre a giocare…Esistere invece di essere un’esistenzialista, fare oggetti invece di essere un oggetto. Il modo in cui fa capolino il mio sorriso, il modo in cui sorseggio il mio tè. Essere una zuccheriera invece di una saliera, non svendersi….».

Hannah Wilke Wittgenstein era ingegno femminile puro, il suo intero magnifico essere teso in una proposizione paradossale.

Nel 1979 Claes Oldenburg, partner di Hannah dalla fine degli anni sessanta, cambiò le serrature di casa un giorno che lei era fuori e sposò qualcun’altra. Lei ricreò la collezione di cinquanta pistole laser che aveva raccolto per il lavoro di lui e posò nuda insieme ad una serie di «autoritratti performalisti» intitolata So Help Me Hannah, in cui «dimostra» e ribalta le sue citazioni classiche preferite della filosofia e dell’arte maschili.

Hannah Wilke, So Help Me Hannah, 1979.

Hannah Wilke su Ad Reinhardt: accosciata nuda in un angolo, aria derelitta, testa tra le mani, gambe con tacco alto divaricate. É circondata da pistole e bazooka giocattolo. «CHE COSA RAPPRESENTA/CHE COSA RAPPRESENTI» dice il titolo.

Hannah Wilke su Karl Marx: Precariamente in posa sui pistoni di un motore a combustione con i suoi sandali a strisce dal tacco alto, il corpo nudo integrato nell’ingranaggio, Hannah scatta in avanti di profilo, le pistole giocattolo in pugno. VALORI DI SCAMBIO. (Valori di scambio? Di chi?)

L’inserimento della complessa presenza umana di Hannah Wilke mette in discussione tutti gli slogan. La sua bellezza è irresistibile ma, come in Gestures, la sua presenza elude la posa.

«Ho deciso da molto tempo di essere un ebreo…Lo considero più importante della mia arte» hanno dichiarato R.B.Kitaj e Arnold Schönberg. Hannah Wilke diceva: «Per me il femminismo in senso lato è intrinsecamente più importante della mia arte». Nessuno ha mai dato del cattivo ebreo a questi uomini.

L’ironia più amara della carriera di Hannah Wilke è che le sue imitatrici rischiando assai meno, sono diventate le star dell’arte dei primi anni ottanta. «La proiezione di sè operata da Wilke è in netto contrasto con le impersonazioni più impersonali dei…lavori recenti di Cindy Sherman, le cui finzioni, “en travesti” sono au fond non meno narcisistiche, ma in qualche modo più facili da accettare o digerire come arte perchè mascherano il sè e fanno la parodia della sofferenza, del dolore e del piacere che percepiamo come reali nell’opera di Wilke» commentava Lowery Sims nel 1984 in un catalogo del New Museum. Ma a quel punto la storia dell’arte aveva già affibbiato a Wilke l’etichetta di stupida, alle sue imitatrici quella di intelligenti:

Judith Barry e Sandy Flitterman, 1980: «Mancando di una teoria della rappresentazione femminile, [l’arte di Hannah Wilke] presenta le immagini delle donne come se non fossero problematiche. Non tiene conto delle contraddizioni sociali della “femminilità”» («Screen»: 35-39).

Catherine Liu, 1989: «Wilke è ben nota per essere apparsa nuda nelle sue opere. Proietta un agio da figlia dei fiori nei confronti della propria nudità. Ma la sua esposizione di sè, che si traduce in una specie di retorica della libertà sessuale per le donne, è una formula troppo banale, troppo semplice. L’opera di artiste come Cindy Sherman e Aimee Rankin ha mostrato che la sessualità femminile è il sito della sofferenza tanto quanto del piacere» («Artforum» 12/89).

«Poichè rifiutavamo un certo tipo di linguaggio critico, la gente ne ha semplicemente dedotto che fossimo stupide» mi ha detto la poeta Alice Notley l’anno scorso a Parigi. Per tutta la vita Hannah Wilke ha dedicato un sacco di energia a cercare di dimostrare che aveva ragione. Se l’arte è un progetto sismografico, quando quel progetto viene frainteso, anche il fallimento deve diventarne il soggetto. Caro Dick, è di questo che mi sono resa conto quando mi sono innamorata di te.

«Ovviamente Hannah è diventata un mostro» ha detto Warren Niesluchowski. Warren è un amico, una personalità del mondo dell’arte e un critico, un tipo sveglio e raffinato. Eravamo seduti nel patio di Mike Kelley per un barbecue, e stavamo mettendoci in pari con le novità. Warren conosce tutti nel mondo dell’arte. Conosceva Hannah dal 1975, quando si erano incontrati da Food, un ristorante di Soho.

Warren ha riso sommessamente: «Sì, è diventata un mostro. Ma del tipo sbagliato. Non un mostro dell’ordine di Picasso, o…» (e qui ha nominato vari altri maschi famosi). «Il problema è che ha cominciato a prendere tutto così personalmente. Ha rifiutato di fare un atto di fede. Il suo lavoro non era più arte».

Nel 1985 Claes Olbenburg minacciò un’ingiunzione contro la University of Missouri Press. Stavano preparando un libro sull’opera di Hannah Wilke e alcuni testi a corredo della sua prima retrospettiva importante.

Per proteggere la sua «privacy», Claes Olbenburg pretese che i seguenti articoli venissero rimossi: 1) una fotografia da Advertisements for Living raffigurante Claes insieme alla nipotina di otto anni di Hannah. 2) Qualsiasi menzione del suo nome negli scritti di Hannah. 3) La riproduzione di un poster realizzato in collaborazione, Artits Make Toys. 4) Citazioni da una corrispondenza tra lui e Hannah che era parte di un testo di Hannah Wilke, I Object.

La fama di Claes e la riluttanza dell’università a difenderla consentirono a Oldenburg di cancellare un’ampia porzione della vita di Hannah Wilke. Eraser. Erase-her – il titolo di uno degli ultimi lavori di Wilke.

Ho chiarito a Warren la differenza tra mostri maschio e mostri femmina. «I mostri femmina ne fanno una questione così personale perchè si tratta davvero di una questione personale. Esaminano i fatti. Anche se il rifiuto le fa sentire come la ragazzina che non è stata invitata alla festa, vogliono capire perché è successo».

Mostruosità: il sé come macchina. The Blob, che ingoia e ingurgita senza pensarci, che rotola lungo le corsie del supermercato assorbendo impasto da pancake e dolce di gelatina e tutti gli abitanti della città. Sventato e inarrestabile. L’orrore di The Blob è l’orrore che si prova nei confronti di chi non ha paura. Diventare The Blob richiede una certa forza di volontà.

Ogni domanda, una volta formulata, è un paradigma, contiene la propria verità interna. Dobbiamo smetterla di distrarci con false domande. Così ho detto a Warren: miro ad essere un mostro femmina anch’io.

Con affetto,

Chris

 

Estratto da Chris Kraus, I love Dick, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2017, traduzione dall’inglese americano di Maria Nadotti,  pp.223-231.

Hannah Wilke davanti a Ponder-r-rosa Series, White Plains Yellow Rocks, Museum of Modern Art, New York, 1975.

Comment (1)

  1. Non mi sono mai piaciute le opere di Oldenburg, adesso capisco meglio il perché di questa mia epidermica idiosincrasia…
    Complimenti per hotpotatoes.it a Elvis e alla redazione!!! Fantastico!!!

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