Radical Women who fought patriarchy with their bodies. Intervista a Cecilia Fajardo-Hill

In America Latina esiste una forte storia di militanza femminista che, ad eccezione del Messico e di alcuni casi isolati negli anni ’70 e ’80, non si riflette ampiamente nelle arti. Radical Women mette in primo piano l’agenda femminista impegnata in una critica politico-sociale, con l’esplorazione della sensibilità femminile nei suoi legami nascosti e aperti con il femminismo politico.

Prima intervista del report Gender Imbalance con una delle curatrici, assieme ad Andrea Giunta, della mostra all’Hammer Museum di Los Angeles. Radical Women costituisce la prima storia delle pratiche artistiche e politiche in America Latina, affrontando un vuoto storico-artistico si concentra sulla nozione di ‘corpo politico’. Le artiste presenti hanno intrapreso indagini sperimentali e radicali all’inizio degli anni ’60, attraverso nuovi linguaggi – fotografia, performance, video e arte concettuale – creando una originale linea di ricerca focalizzata sulla politicizzazione del corpo femminile, cercando di liberarsi dal clima di repressione politica e sociale che ha oscurato le donne in America Latina tra il 1960 e il 1985. Nel loro lavoro, la rappresentazione del corpo femminile è diventata punto di partenza per interrogare il canone artistico consolidato e anche il mezzo per denunciare atti di violenza sociale, politica e culturale.

A partire dagli anni Sessanta, le dittature e i regimi autoritari dominavano gran parte dell’America latina e mentre istituzionalizzavano la disuguaglianza sociale e di genere, rafforzavano, al tempo stesso, l’indipendenza e l’emancipazione delle donne. Il corpo ha assunto un ordine discorsivo centrale per molte artiste, un corpo “demarcado” che interrogava le strutture del potere patriarcale. Nonostante questo però, poche artiste si riferiscono al proprio lavoro come “femminista”. Invece il desiderio di sostenere le donne era fortemente radicato nella lotta rivoluzionaria e le opere in mostra riflettono un repertorio di temi affrontati dal femminismo, come la maternità, i diritti civili e la violenza sessuale. “Molte di queste artiste erano attive nei movimenti politici dell’ala di sinistra”, hai dichiarato “Ma per loro, i diritti delle donne erano secondari e la sinistra riteneva che il femminismo fosse borghese e imperialista”. Le artiste provengono da Paesi che hanno vissuto regimi dittatoriali: l’atto artistico è un atto politico. Che valore ha oggi rileggere questo tipo di pratiche artistiche radicali?

Cecilia Fajardo-Hill: Ci siamo assicurate, con Andrea Giunta, che la mostra non fosse esibita nella canonica estetica del “white cube”. Abbiamo perseguito una grande e radicale esperienza artistica, ma non a scapito di un riposizionamento del periodo. Abbiamo creato una sorta di paesaggio di sensibilità condivise, opinioni critiche e sperimentazioni, come se fosse un palcoscenico di riferimenti incrociati e relazioni complesse in modo che si ricalcasse quello che accadde durante questo arco di tempo. La realtà è che la situazione politica del mondo oggi è molto problematica; nonostante ci sia una svolta rispetto al nazionalismo, la censura, il razzismo sfacciato e alla dittatura in alcuni paesi, vediamo il contrario nei riguardi di molti dei diritti umani come per esempio il controllo sul corpo delle donne. Tutto questo riecheggia il passato in maniera inquietante. Ecco perchè il lavoro di Radical Women ha una particolare risonanza e attualità con il nostro quotidiano, loro parlano delle nostre realtà e delle nostre lotte e costituiscono una potente connessione tra arte e vita.

María Evelia Marmolejo, Anónimo 1 (Homenaje a los desaparecidos y torturados dentro de los hechos violentos) (Anonymous 1 [homage to those disappeared and tortured in violent incidents]), 1981. Courtesy María E. Marmolejo e Promoteo Gallery di Ida Pisani, Milano.

Il titolo Radical Women suggerisce una relazione tra le richieste della politica femminista, il dibattito teorico e l’esplorazione di artiste informate da queste richieste in America Latina. Quale il contesto espositivo?

CF-H: Questa mostra non è intitolata «donne femministe», come solitamente – e ultimamente – una grande mostra di donne è chiamata o classificata. Però, in linea di massima, questa mostra è considerabile come una mostra femminista, per il suo intento di dare visibilità e rivendicare il potente gruppo di donne che sono state a lungo invisibili o marginalizzate con l’unica accusa di essere donne. Ma storicamente la maggior parte delle artiste in America Latina, fatta eccezione del Messico, non guardavano loro stesse come femministe e nemmeno volevano farsi chiamare tali. Le lotte alle quali hanno partecipato della sinistra contro i regimi oppressivi, le precludeva da ciò che poteva essere percepito come una doppia militanza poichè i diritti delle donne non erano considerati importanti per sè stessi, bensì sottoposti ai diritti sociali in generale. Il contesto dell’esposizione è un momento, un passaggio storico, di grande sperimentazione artistica – come è accaduto ovunque nel mondo – ma qui, ci si trovava nel bel mezzo di dittature, guerre civili o democrazie in lotta. La mostra include artiste Latine e Chicane e anche se gli Stati Uniti erano e sono ancora un paese democratico, non lo sono stati con i latini, i Chicani o la popolazione di colore. I non-bianchi sono stati molestati, marginalizzati e i loro diritti fondamentali sono stati violati, insomma, per loro gli Stati Uniti non hanno concesso un’esperienza democratica. Inoltre, le donne dell’ America Latina, le Latine e le Chicane [i] sono state rese invisibili dal sistema artistico patriarcale – che continua a rimanere tale – e inoltre le donne hanno sperimentato lo sciovinismo a tutti i livelli, dall’essere oggettificate al sopportare violenze sessuali, dall’essere considerate cittadine di seconda categoria ad essere classificate artiste irrilevanti.

Quali esperienze o pratiche espositive ti hanno influenzata?

CF-H: Sono una donna prima di tutto. Mia madre è una brillante poetessa gallese, Rowena Hill, che, nel 1960 ha sfidato ogni norma della sua società, quindi io ho avuto la sua figura pionieristica come esempio delle necessità e delle difficoltà delle lotte per le donne. Ho anche avuto una duplice educazione, europea e venezuelana e ho sperimentato la particolare violenza e il maschilismo che le donne hanno dovuto sopportare in America Latina. Sono una storica dell’arte e consideriamo quanto le donne nella storia siano state rese note principalmente a piè di pagina. Certamente in America Latina il capitolo riguardo il contributo delle artiste in quello che noi abbiamo imparato essere il linguaggio dell’arte contemporanea, non è stato ancora scritto. La teoria femminista, la teoria precoloniale e decoloniale, hanno formato in particolare la mia pratica di curatrice e di storica dell’arte, nonchè il mio posizionamento in quello che si definisce Sud Globale.

Maris Bustamante, El pene como instrumento de trabajo (The Penis as a work instrumen), 1982.

I corpi femminili, nel bene e nel male, sono ancora al centro di molta arte femminista, intrappolati tanto quanto lo sono il nostro sfruttamento sui fronti economici, domestici e mediatici, centrali quanto le nostre campagne per i diritti sul lavoro riproduttivo e contro leggi discriminatorie” – ha detto Lucy Lippard suggerendo come l’uso del corpo delle donne sia ancora “necessariamente complicato da stereotipi sociali”. Che valore assume il corpo in queste ricerche?

CF-H: In Radical Women, il “corpo politico” è il tema della mostra. Ogni lavoro esibito parte dal corpo, da una dichiarata posizione critica e attiva ad una più concettuale del corpo e questo è perchè la mostra non si concentra sull’astrazione. Ci sono temi come l’auto-rappresentazione, la mappatura del corpo, o l’erotismo, dove le artiste, ridefiniscono la propria immagine destrutturano e ricontestualizzano il copo, lo de-essenzializzano, lo de-oggettificano in modo da concettualizzare la loro stessa femminilità, la sessualità e la posizione politica nel mondo così come sperimentare la propria soggettività.

In mostra avete inserito una parte documentaria sulle relazioni internazionali col movimento di liberazione della donna o è una vostra ipotesi critica, quella di una scena femminista del Latino-America?

CF-H: In mostra abbiamo nove tematiche e alcune vetrine con materiali che possono essere considerati di natura documentaria, ma l’esposizione è molto specifica per il suo scopo, ossia esibire artiste latino-americane e latine. Abbiamo incluso una timeline, una sequenza di eventi politici, sociali e dei diritti delle donne dei 15 paesi come informazioni contestuali perché l’esposizione non è né geografica né cronologica. Radical Women offre una potente esperienza artistica e il catalogo è più di uno strumento scientifico con alcuni capitoli introduttivi, biografie e saggi per future ricerche suddivise per paese. La posizione che la mostra propone è che queste artiste abbiano prodotto un arte politica e trasformativa in modo indipendente, anche se con tutti gli -ismi, come il femminismo e dal movimento di liberazione della donna.

Martha Araùjo, Habito-Habitantes, performance, 1985.

Il lavoro di queste artiste è stato marginalizzato rispetto al circuito internazionale delle biennali occidentali e delle international large-scale exhibitions per motivi politici legati ai regimi repressivi totalitari. Quando è emersa questa scena?

CF-H: Tante di queste artiste hanno partecipato a biennali internazionali e ai loro circuiti e sistemi artistici specifici, ma per molte di loro il lavoro è stato alla fine dimenticato o addirittura escluso o considerato meno importante di quello realizzato da artisti (uomini). Il Brasile ha avuto una delle più importanti biennali internazionali del mondo, La Biennale di San Paolo; per di più, Buenos Aires, Città del Messico e Caracas ad esempio, erano centri internazionali. E non dimentichiamoci che l’America Latina fa anch’essa parte dell’Occidente, e anche se marginalizzata è profondamente internazionale. Il problema è che molte di queste donne non trascendono nel medio o lungo termine, come dovrebbe invece accadere. Le ragioni sono molte, come per esempio, data la situazione politica, molte sono andate in esilio, altre hanno dovuto lottare con le loro vite personali, la maternità, i vincoli finanziari, etc. E quindi non aver avuto una carriera di successo, così come il patriarcato la intendeva, sono state cancellate. Non tutte le artiste sono state marginalizzate, per esempio, Lygia Clark, Lea Lubin, Marta Minjin o Ana Mendieta sono riuscite a rimanere visibili nei loro contesti internazionali, ognuna a vari livelli. Il problema è che non esiste una panoramica o un riconocimento del ruolo che le donne hanno avuto negli sviluppo dell’arte contemporanea, anche se le cose ora stanno cambiando.

Monica Mayer, arte feminista, poster, 1976.

Le artiste sono state riconsiderate per il loro valore storico e artistico sin dagli anni 90. A questa rivalutazione storica a partire dagli anni Novanta è corrisposta anche una valorizzazione economica? Quando esattamente c’è stata le possibilità di “romanticizzare” il femminismo e le pratiche marginalizzate, in favore delle considerazioni teoriche dell’arte femminista?

CF-H: Questo non è accaduto in America Latina, nè per le artiste Chicane nè Latine. L’arte femminista o femminile senza, necessariamente essere femminista, continua a rimanere meno del 30% del sistema dell’arte, e questo non è perchè non ci siano state delle grandi artiste nell’arte. Non credo che ci sia, come dire, un forte mercato per l’arte femminista. Di solito il mercato dell’arte favorisce l’astrazione e altre forme d’arte meno soggette al genere.

La mostra comprende più di 100 artiste, da 15 paesi diversi e presenta circa 260 opere. Sono cifre significative che sembrano indicare la volontà di risarcire tutte le espressioni negate?

CF-H: La mostra segnala che tra il 1960 e il 1885 molte donne importanti hanno prodotto la maggior parte dell’arte più radicale e sperimentale di questo periodo e, a causa della loro invisibilità, la storia dell’arte scritta in questo periodo “dimentica” molte di loro. Doveva necessariamente essere una grande esposizione per il grande numero di artiste del periodo considerato e anche perchè volevamo fare una dichiarazione inequivocabile dell’importanza e della potenza di questi artiste, e del fatto che non si può più in assoluto continuare a scrivere la storia dell’arte o fare mostre senza considerare l’importante ruolo che le donne giocano e hanno giocato in questo sistema. L’Hammer Museum si è assunto un forte impegno verso le donne artiste. Connie Buttler, la curatrice principale è stata anche la curatrice della mostra WACK! Art and the Feminist Revolution (N.d.R. WACK è stata la prima esposizione istituzionale che ha esaminato in modo completo le radici internazionali e l’eredità dell’arte prodotta sotto l’influenza del femminismo, nel 20017 al MOCA di Los Angeles). Ne consegue che questa istituzione ha colto la sfida di realizzare questo ambizioso progetto e di farlo nel migliore dei modi. Molte delle donne in mostra, non possiedono ancora oggi un catalogo e sentono di avere solo un ruolo parziale o simbolico.

Ana Mendieta, Rape Scene, 1973. Courtesy Estate of Ana Mendieta Collection, LLC, Galerie Lelong, NY.

Oggi molte posizioni femministe hanno avuto un grande potenziale di rottura conflittuale che non rivendicava solo la specificità di genere ma denunciando la propria posizione dentro l’organizzazione capitalistica del lavoro, dei rapporti sociali e delle discriminazioni sessuali, hanno aperto uno sguardo inedito sui meccanismi di sfruttamento, come elemento strutturale del capitalismo contemporaneo. Questo ha per te un significato particolare ed è ancora in grado di inventare un immaginario di segni e di discorsi in grado di annullare il confine tra azioni artistiche e politiche?

CF-H: Come ho già spiegato, la mostra non è incentrata solo sul femminismo, ma uno dei nove temi riguarda il femminismo. Il contesto più forte dell’esposizione è la dittatura, la guerra civile e i regimi oppressivi. Naturalmente il capitalismo svolge un ruolo nella critica di molti dei lavori, ma non si può dire che abbia un ruolo centrale nel discorso politico. Queste donne, femministe o meno, scardinano la nozione normativa di genere, potere, società, struttura sociale, sessualità etc., e il loro lavoro erode la separazione tra arte e vita, tra politica e arte poichè sono radicate nel tessuto sociale e politico della loro condizione esistenziale e offrono forti riferimenti per pensare politicamente ed esteticamente alla vita e all’arte oggi.

Come ha scritto Nelly Richard: “Una parte del dibattito che circonda le donne e la creazione artistica – in vari contesti internazionali – comporta la differenziazione tra “estetica femminile” ed “estetica femminista”. La definizione di una “estetica femminile” di solito connota l’arte che esprime la donna come un fatto naturale (essenziale) e non come una categoria simbolica-discorsiva formata e deformata dal sistema di rappresentazione culturale. L’arte femminista non rappresenta dunque l’universalità di un’essenza femminile che incarna un universo di valori e di significati (sensibilità, corporeità, affettività, ecc.) tradizionalmente riservato alle donne dentro un sistema binario maschile-femminile […] D’altra parte, una “estetica femminista” sarebbe quella che postula la donna come un segno immerso in una concatenazione di forme patriarcali di oppressione e repressione che devono essere rotte, attraverso la consapevolezza che la superiorità maschile possa essere esercitata ma anche combattuta. L’arte femminista cerca di correggere le immagini stereotipate del femminile che la maschera egemonica ha gradualmente squalificato e penalizzato”. Come avviene, in mostra, una critica dell’ideologia dominante di genere?

CF-H: In Radical Women non facciamo una distinzione tra l’estetica femminista o femminile, in effetti non ci affidiamo a nessuno dei due concetti. Il termine femminile o quello di donna artista sono entrambi carichi e complessi. Nella nostra mostra abbiamo proposto di evitare assolutamente le insidie degli stereotipi nel tentativo di definire in maniera stretta le pratiche artistiche basate sul genere, che sarebbero patriarcali e limitanti, e che alla fine avrebbero perpetrato un’idea essenzializzata del femminile. Molti dei lavori nella mostra decostruiscono la norma binaria del genere (maschile/femminile) e propongono un diverso tipo di iconografia che può essere omosessuale, o che unisca il femminile con il maschile, o che possa mettere in crisi l’idea canonica di bellezza, maternità, sessualità, etc. Ci sono alcuni lavori in mostra che hanno una natura scatologica, comprendono fluidi corporei come il sangue mestruale o gli escrementi; in altri, il corpo è frammentato e quindi impossibile da oggettificare; molti artisti esplorano se stessi attraverso la scienza per sfidare i sistemi di classificazione, e così via. É difficile parlare in termini generali perchè ogni lavoro in mostra sfida in modo unico e radicale molte delle nozioni limitate e prestabilite sul genere e sul ruolo della donna nella società.

[traduzione di Andrea Bassan]

[i] Chicano è un termine dispregiativo ultilizzato per identificare i Messicani immigrati negli USA; Latini sono i residenti del Sud America mentre Latino Americani è il termine (antidemocratico) per identificare i cittadini Americani di origine Latina.

Gender Imbalance è un gruppo di ricerca nato all’interno del Master in Contemporary Art Markets presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, a cura di Silvia Simoncelli (course leader), Caterina Iaquinta ed Elvira Vannini (docenti del Dipartimento Arti Visive). Lo scorso 23 ottobre è stato presentato il report 2017 “Presenza e rappresentazione delle donne artiste in Italia”, realizzato dal Master in Contemporary Art Markets, con i dati statistici relativi all’attuale situazione italiana, dalla programmazione di gallerie private agli spazi istituzionali, con uno sguardo alla storia recente del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia e al mercato delle aste – con la partecipazione di artiste, curatrici/critiche, collezioniste, galleriste di diversa generazione. Un’analisi del sistema dell’arte dove si riproducono rapporti di potere che rispecchiano quelli presenti anche in altri campi culturali e sociali.

L’intervista a Cecilia Fajardo-Hill è stata realizzata durante il workshop condotto da Elvira Vannini sugli spazi di produzione e cooperazione femminista dagli anni Settanta fino all’attuale discussione internazionale sulla genderizzazione dell’exhibition-making insieme agli studenti: Elena Casarotto, Chiara Celoria, Francesca Cucinotta, Irena Ivanova Filipova, Giulia Lopalco, Cristina Masturzo, Claudia Mazzoleni, Francesco Paini, Marta Sangiovanni, Yang Zi, Juliana Curvellano.

Per info su Gender Imbalance: redazioneCAM2017@gmail.com

Sylvia Palacios Whitman, Passing Through, Sonnabend Gallery, 1977. Courtesy Babette Mangolte e Broadway 1602 Harlem, NY.

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