Living Without Approval. Intervista a Dilar Dirik di Jonas Staal

In un mondo capitalista in cui il consumismo e l’individualismo sono spinti sempre di più all’estremo e dove non sembrano più esserci cause per cui valga la pena di lottare, una resistenza collettiva, condotta strenuamente, fino all’ultimo proiettile, appare un atto irrazionale del tutto inconcepibile. Il sacrificio, la resistenza, il senso comunitario, e la stessa lotta per la giustizia e la libertà sono stati radicalmente estirpati dalla nostra coscienza e oggi sembrano piuttosto beni di consumo da utilizzare in vuoti dibattiti teoretici, in manifestazioni occasionali, in botte adrenaliniche su schermi deformanti o in magliette ribelli prodotte da fabbriche basate sullo sfruttamento!

[…] Improvvisamente il Kurdistan è divenuto un luogo di pellegrinaggio per i movimenti anti-stsema e i rivoluzionari di tutto il mondo. Ma cos’è la libertà? Cos’è l’autonomia?

[…] Qual è il significato del Rojava nell’era delle rivoluzioni rubate e abusate?[i]

immagine tratta dal gruppo “The Women’s Revolution in Rojava”

Jonas Staal: Tu sei una ricercatrice accademica ma anche un’attivista del Movimento delle Donne Curde (Kurdish Women’s Movement). Come descriveresti esattamente la natura di questo movimento, da un punto di vista sia geografico sia organizzativo?

Dilar Dirik: Si potrebbe iniziare analizzando separatamente le parole “curde”, “donne” e “movimento”. Molte persone pensano che una causa nazionale – un movimento di liberazione nazionale o nazionalismo – sia incompatibile con la liberazione delle donne. Sono d’accordo, perché il nazionalismo ha molte premesse patriarcali, feudali, arretrate che in un modo o nell’altro non fanno altro che perpetuare la trasmissione di una eredità maschile e riprodurre dinamiche di dominazione, trasmettere da una generazione all’altra una certa percezione di “nazione”. A ciò si aggiungano i presupposti, altamente genderizzati e discriminanti che accompagnano il nazionalismo, e che intaccano la vita familiare, le relazioni lavorative, l’economia, la conoscenza, la cultura, e l’educazione. Diventa evidente come questo sia un concetto davvero mascolinizzato. Il Movimento delle Donne Curde assume questo nome per via dei molteplici livelli di oppressione e di violenza strutturale che le donne curde hanno subito proprio perché sono curde e perché sono donne.

Storicamente, il popolo curdo è stato diviso in quattro Stati: Turchia, Iraq, Siria e Iran. In ognuno di questi Stati, le donne curde non solo hanno subito discriminazioni socioeconomiche ed etniche, ma hanno anche sofferto in quanto donne per via degli statuti patriarcali di questi Paesi. Al contempo subivano l’oppressione all’interno delle loro stesse comunità. Sottolineare la loro identità di donne curde fa dunque riferimento alla violenza affrontata come soggetti marginalizzati sotto molteplici aspetti. Per questo, centrale per il Movimento delle Donne Curde è che esistono svariati meccanismi gerarchici, vari livelli di oppressione; per raggiungere una convivenza genuina, non possiamo liberarci come donne senza sfidare anche l’oppressione etnica, economica e di classe su tutti i fronti.

In Turchia, per esempio, come negli altri paesi, le donne curde sono spesso escluse dai movimenti femministi. Il femminismo turco si è fondato essenzialmente sul modello nazionalista laico della Repubblica di Turchia: una bandiera, una nazione, una lingua. Così, nonostante le donne turche abbiano conquistato molte vittorie, le femministe turche continuano ad aderire al dogma nazionalista dello Stato, che non concepisce, di fatto, della presenza di persone non-turche nella regione. Le donne curde sono state a lungo rappresentate come arretrate e non degne dello stesso tipo di educazione dei turchi quando scelgono di non aderire alla dottrina nazionalista dominante. Come risultato, lo Stato turco delegittima la lotta delle donne curde con una combinazione di sessismo e razzismo, affermando che le donne sono sfruttate come prostitute dal movimento. Ha anche intrapreso l’utilizzo proattivo della violenza sessuale e dello stupro come armi sistematiche di guerra contro le donne curde militanti tra le montagne o nelle prigioni. Sabiha Gökçen, la figlia adottiva del fondatore delle Repubblica Turca, Mustafa Kemal Atatürk, è un caso esemplare di questa contraddizione. Sebbene elogiata per essere stata la prima aviatrice donna in Turchia, è anche colei che ha bombardato Dersîm (ora chiamato Tunceli) durante il massacro del Kurdish Alevis nel 1937-1938.

La parola “movimento” chiarisce che questo non è solo un partito, un’organizzazione – è ovunque. La parte più importante di questa mobilitazione è il suo elemento dal basso ma ha anche forti componenti teoriche: il Movimento delle Donne Curde è attivo laddove serve che sia attivo, senza restrizioni geografiche. Parte del suo obiettivo è mobilitare donne diverse all’interno regione: donne turche, donne arabe, donne persiane, donne afghane e così via. Nel 2013, la prima Conferenza delle donne del Medio Oriente è stata introdotta dal Movimento delle Donne Curde a Diyarbakır o Amed in curdo, una città della Turchia sudorientale, la regione che i curdi chiamano Bakur, nel Kurdistan settentrionale. Le donne provenienti da tutta la regione, dal Nord Africa al Pakistan, sono state invitate a instaurare una solidarietà interregionale. Il Movimento delle Donne Curde è un’idea: un’idea per assicurarsi che la liberazione delle donne non abbia frontiere e sia considerata come un principio, la condizione fondamentale per arrivare a comprendere resistenza, liberazione e giustizia.

JS: Riesci a vedere una dimensione universale nella lotta dei curdi?

DD: Termini come “curdi”, “arabi” sono controversi. In molti hanno discusso riguardo a ciò che definisce un curdo. È la lingua? L’assetto geografico? Ai miei occhi, i curdi – e in particolare le donne curde – incarnano i diversi strati di oppressione subita dai tanti popoli soggetti a molteplici forme di colonialismo. Quindi l’oppressione dei curdi è condivisa da molti altri popoli, ma i curdi hanno affrontato l’eccezionale marginalizzazione delle loro genti da parte non di uno, ma di quattro Stati. I curdi, a parte quelli del Kurdistan iracheno, hanno ricevuto poco o nessun sostegno a livello internazionale – mi riferisco nello specifico all’ala sinistra, la più radicale del movimento curdo. I curdi invece hanno espresso la loro solidarietà e il loro sostegno verso molte altre lotte apolidi nel mondo, mentre i grandi abusi subiti e la loro resistenza fanno appello alla gente colonizzata e oppressa di tutto il mondo in un senso quasi universale. I modi in cui le comunità di tutti i continenti hanno rivendicato la resistenza di Kobanê come una causa propria, per esempio, dimostra il carattere universale che questa lotta può assumere.

Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.

JS: Quali sono i fondamenti coloniali nella regione e come hanno influito nella critica dello Stato all’interno del Movimento delle Donne Curde?

DD: Prima dell’attuale sistema di Stato-nazione, altri sistemi condividevano gli stessi principi gerarchici di sottomissione, dominazione e potere. Il concetto del moderno Stato-nazione è ancora relativamente nuovo; ha solo poche centinaia di anni. In Medio Oriente esistevano imperi, regimi di diverso genere, ma non nel senso dello Stato-nazione in quanto tale: persone di vari gruppi religiosi e etnici vivevano insieme, con diverse gerarchie e ordini sociali in atto contemporaneamente. Il sistema ora dominante a livello globale è piuttosto basato su popoli che formino un’unica collettività, un’unità costituita attraverso il monopolio, istituita e delimitata dalle condizioni e dai confini stabiliti dallo Stato-nazione, emerso in parallelo all’ascesa del capitalismo e a un’istituzionalizzazione più forte e ufficiale del patriarcato.

Di fatto, i colonialisti europei hanno imposto l’idea dello stato-nazione al Medio Oriente, ma tale nozione ha anche trovato il favore di alcune élite della regione che l’hanno vista come un’opportunità per affermare il proprio potere rompendo con le gerarchie e le élite preesistenti. Mi concentrerò adesso sulla regione della Mesopotamia dove vivono i curdi. Prima dell’istituzione dei confini statali attuali, i quali hanno meno di cento anni, c’erano l’Impero Ottomano e l’Impero Persiano; nel diciassettesimo secolo, il Kurdistan era inizialmente spartito tra loro. All’inizio del ventesimo secolo, quando l’Impero Ottomano cominciò a crollare e i governi europei stavano combattendo l’esercito di Atatürk, l’accordo Sykes-Picot [ii] tracciò i confini secondo interessi coloniali. Alcuni di questi confini furono letteralmente disegnati con il righello, dimostrando così l’imposizione arbitraria di costrutti immaginari come lo stato-nazione, che violano e negano le realtà ben più fluide e organiche presenti sul territorio.

Questo è il colonialismo: l’imposizione forzata di confini che non riflettono le realtà, le affezioni o le identità del territorio, ma che si basano esclusivamente su interessi occidentali (o in ogni caso non locali). Si è giunti a questo in modo molto insidioso, perché a coloro che vivevano nell’area fu fatto credere che avrebbero amministrato da sé le regioni appena costituite. Questo è un esempio di colonialismo che opera delegando il potere coloniale a qualcun altro che colonizzerà il popolo per procura. Dall’esterno, sembrerà che il popolo del Medio Oriente si stia auto-determinando.

Nel 1923, a seguito del declino e del conseguente crollo dell’Impero ottomano, fu fondata la Repubblica di Turchia. Durante la pianificazione di questa nuova Repubblica, il genocidio armeno fu attuato sostanzialmente per fare spazio a questo nuovo stato. I curdi hanno giocato un ruolo attivo nel genocidio, e questo è qualcosa con cui devono fare i conti. Ai curdi furono promessi diritti in questo nuovo stato, ma furono successivamente schiacciati dalla medesima oppressione.

La creazione dello stato turco fu un tentativo di copiare il modello francese della repubblica laica. Eppure non si trattava di laicismo nel vero senso della parola, in quanto gli Aleviti, i Cristiani e gli Yezidi presenti nella regione furono soggetti all’assimilazione, a discriminazioni e massacri da parte dello stato turco. L’identità nazionale musulmana sunnita era predominante, nonostante le pretese laiciste della repubblica. Questa concezione nazionalista della modernità dimostra l’effettiva arretratezza e le fondamenta dispotiche e fasciste dello Stato turco. Questa presunta modernità si è costruita sul sangue: pulizia etnica sistemica, negazione storica e assimilazione forzata.

La Repubblica di Turchia intendeva cancellare l’identità dei curdi e ha quindi rimosso tutti i riferimenti alla cultura curda e al Kurdistan dai suoi libri di storia. Ciò si è verificato di pari passo con la guerra psicologica, con l’affermazione da parte dello Stato che non i curdi non esistono, che i curdi sono in realtà “turchi di montagna”. Si è trattato di una politica della negazione e quando i curdi inevitabilmente insorsero, furono fronteggiati con misure severe.

JS: Qual era la posizione dei curdi in altri Stati, come la Siria, l’Iraq e l’Iran?

DD: In paesi come l’Iraq e la Siria, entrambi governati da regimi Ba’ahtist (ideologia araba nazionalista), ci fu una politica attiva di arabizzazione. Questi Stati non rifiutavano i curdi come la Turchia, ma li opprimevano comunque sottraendo loro il diritto di cittadinanza, proibendo la loro lingua e reprimendo ogni forma di attivismo politico. Aree tradizionalmente popolate dai curdi furono reinsediate dagli arabi. La lingua curda era esclusa dalle scuole, il che significa che, per essere colti e istruiti, ai curdi era imposto di imparare l’arabo. Gli Stati in questione commisero molti massacri, dei quali il più rilevante fu l’attacco con le armi chimiche ordinato da Saddam Hussein nel 1988 su Halabja, che in poche ore costò la vita di 5,000 persone. Molti partiti curdi erano attivi anche durante la rivoluzione iraniana del 1979. Volevano prendere parte alla rivoluzione, che era inizialmente guidata da gruppi studenteschi di sinistra che si opponevano allo Shah Mohammed Reza Pahlavi. Ma quando subentrò l’Ayatollah Khomeini, questi emise una fatwa contro i curdi, che legittimò la loro uccisione. Così, le aspettative dei curdi e delle altre opposizioni, furono disattese dalla rivoluzione.

Lo Stato iraniano è tuttavia estremamente multietnico. Le “minoranze” in Iran sono molto consistenti e sono costituite da diversi milioni di persone – tra gli altri, vi sono abitanti di Ahwaz, Azeri, Curdi e Beluci. Per questo l’Iran non può semplicemente rifiutare tutti questi popoli e le loro diverse lingue, almeno non allo stesso modo in cui lo ha fatto la Turchia. La politica dell’Iran si basa su una dottrina persiana molto sciovinista. Il regime iraniano non ha negato l’identità dei curdi, ma si è considerato superiore. Rispetto ai curdi in altre regioni, i curdi in Iran hanno avuto più possibilità di preservare gran parte della loro cultura, della loro eredità e dell’arte, perché lo Stato iraniano non ha mai negato loro questi diritti culturali. Piuttosto, ha privato i curdi dei diritti politici: il diritto a organizzarsi politicamente e il diritto ad una rappresentanza politica. L’Iran regolarmente giustizia i prigionieri politici dei diversi gruppi etnici, tra cui molti curdi. Le donne subiscono un ulteriore livello di oppressione a causa della natura teocratica della Repubblica Islamica.

JS: Questa negazione sistemica dei diritti politici ha gettato la base per un forte movimento nazionalista curdo.

DD: Molti, se non tutti, i partiti curdi nelle quattro regioni esordirono con l’obiettivo di uno Stato curdo indipendente. L’idea era che noi curdi subiamo questi abusi proprio perché siamo apolidi, e quindi se noi – “il più grande popolo senza stato” – avessimo uno Stato nostro, non dovremmo più fronteggiare una simile violenza sistemica su vasta scala. Questo genere di nazionalismo spesso emerge nei contesti coloniali. Tuttavia, il nazionalismo di stato è molto diverso dai movimenti anti-coloniali che rivendicano un’identità nazionale per affermare la propria esistenza a fronte di un genocidio. Sono critica nei confronti di coloro che collocano i nazionalismi turco, iraniano o arabo sullo stesso piano del nazionalismo curdo: non si può fare simili affermazioni senza prendere in considerazione le relazioni di potere profondamente asimmetriche che sono alla base di questo conflitto. Eppure, questo non significa che il nazionalismo sia la soluzione o che uno stato curdo aprirebbe la strada vero un’autentica autodeterminazione.

JS: Questa idea ha anche contribuito alla creazione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) di stampo marxista-leninista, fondato da Abdullah Öcalan nel 1978, che ha portato alla necessità di intraprendere una lotta armata contro la repressione dei curdi da parte del governo turco. A un certo punto, la direzione del PKK ha cambiato idea riguardo all’obiettivo di ottenere uno Stato indipendente.

DD: Senza dubbio, il PKK ha esordito con l’obiettivo di uno stato-nazione indipendente come reazione alla violenza di stato e al rifiuto sistemico, all’assimilazione e all’oppressione. È nato in un periodo molto conflittuale in Turchia. Nel 1980, quattro anni prima che il PKK iniziasse la sua lotta armata, un colpo di stato militare in Turchia aveva cercato di eliminare la sinistra e gli altri gruppi di opposizione. Il PKK ha vissuto numerosi alti e bassi, legati alla guerriglia di resistenza contro l’esercito turco, alla caduta dell’Unione Sovietica, al crollo di molti movimenti di liberazione di sinistra e alla cattura di Öcalan in Kenya il 15 febbraio 1999, coordinata dall’Organizzazione Nazionale dei Servizi Segreti Turchi (Turkish National Intelligence Organization) in collaborazione con l’Agenzia Centrale dei Servizi Segreti degli Stati Uniti. Fu in questo contesto che il PKK, sul finire degli anni Novanta, giunto alla conclusione che lo stato è intrinsecamente incompatibile con la democrazia, avvio la decostruzione teorica dello Stato, alimentata in parte del Movimento delle Donne Curde.

L’apolidia (NdR. assenza/privazione di Stato) ti espone all’oppressione, al rifiuto, al genocidio. In un sistema orientato allo Stato-nazione, il riconoscimento e il monopolio del potere sono riservati allo Stato e questo offre una qualche forma di protezione. Ma il punto è che la sofferenza degli apolidi deriva da un sistema che si basa sul paradigma dello Stato-nazione. Quando ottieni il monopolio di potere, i tuoi problemi non sono immediatamente risolti. Avere uno Stato non significa che la tua società sia liberata, che avrai una società giusta, o che sarà una società etica.

La questione è più sistemica: dovremmo accettare le premesse del paradigma statista che è causa primaria di queste sofferenze? Possiamo avere uno Stato-nazione, concetto intrinsecamente basato sul capitalismo e sul patriarcato, e continuare pensare a noi stessi come liberati? In Medio Oriente, nessuno stato è in assoluto veramente indipendente. La Cina, la Russia, gli Stati Uniti e i governi europei: sono loro che controllano gerarchicamente l’ordine internazionale. Questo allontanamento dal desiderio di uno stato è una presa di coscienza del fatto che lo Stato non può effettivamente rappresentare i propri interessi, che il monopolio del potere sarà sempre nelle mani di poche persone che possono manipolarti come vogliono, in particolare perché lo Stato è coinvolto in numerosi accordi internazionali, tra cui l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Ecco perché il PKK ha cominciato a capire l’importanza del rifiuto degli approcci top-down al potere e al governo. Ha concluso che c’era bisogno di strutture politiche che potessero servire all’emancipazione del popolo, strutture che lo politicizzino a tal punto da fargli interiorizzare la democrazia. Il lavoro del Movimento delle Donne Curde è stato fondamentale in quel processo. Il patriarcato è di molto precedente allo stato-nazione, ma gli stati-nazione hanno adottato i suoi meccanismi. È per questo che il dissociarsi della democrazia dallo stato è anche un dissociarsi dal patriarcato.

immagine tratta dal gruppo “The Women’s Revolution in Rojava”

JS: Quando al primo New World Summit nel 2012 ho incontrato Fadile Yıldırım, attivista del Movimento delle Donne Curde, ha affermato che la lotta del Movimento delle Donne Curde è duplice. Da una parte, è una lotta contro lo stato turco e la sua repressione della cultura e della storia curda; dall’altro, è una lotta interna al PKK stesso per il riconoscimento delle donne come combattenti pari agli uomini.

DD: Nei movimenti di liberazione nazionale, c’è sempre il pericolo che i diritti delle donne siano compromessi dopo la liberazione. Le donne hanno fatto parte del PKK fin dall’inizio. Alcuni dei suoi fondatori essenziali, come la scomparsa Sakine Cansız, erano donne. Il PKK ha esordito nei circoli universitari dove la gente era esposta a ideologie socialiste; circoli simili accolsero facilmente il concetto di liberazione femminile. Quando il PKK ha iniziato a intraprendere la sua guerriglia nel 1984 e il suo principio di base ha cominciato a prendere vigore, molte persone provenienti dai villaggi e dalle aree rurali – persone con scarsa o nessuna educazione – hanno aderito alla lotta. La presenza di persone di ambiti socioeconomici diversi ha messo in luce molte frammentazioni di classe nella fase iniziale del movimento. Inoltre, a causa dei loro diversi contesti di provenienza, le persone originarie dei villaggi erano più riluttanti ad accettare le donne come pari agli uomini.

Di conseguenza, le donne furono respinte un passo indietro. Mentre all’inizio la mobilitazione era molto ideologica e teorica, quando la guerra si intensificò, i suoi elementi ideologici ed educativi furono spesso messi in secondo piano. A quel tempo, le donne cominciarono a tagliarsi i capelli molto corti per apparire più mascoline: l’idea era quella di imitare gli uomini per dimostrare di essere altrettanto capaci.

Negli anni Novanta, con l’incoraggiamento di Öcalan, le donne che hanno subito discriminazioni all’interno dei propri ranghi hanno cominciato a mobilitarsi. Öcalan ha sempre sostenuto la liberazione delle donne e ha contribuito in modo significativo alle legittimazioni teoriche dell’organizzazione autonoma delle donne all’interno del PKK. A causa di questo, tuttavia, si è anche scontrato con l’opposizione. Gli anni Novanta hanno visto l’inizio del Movimento delle Donne Curde, ma negli ultimi dieci anni il movimento ha preso molto più forza. Sono state affrontate contraddizioni come le divisioni di classe e sono stati adottati nuovi approcci alla liberazione femminile per trasformarla da un ideale elitario a una causa basilare.

Nel 2004 il PKK ha subito un grande contraccolpo, e molte persone dicevano fosse la fine dell’organizzazione. Questo avvenne nel momento in cui iniziarono le forti offensive internazionali contro il PKK. Per di più, il fratello di Öcalan, Osman Öcalan, fu causa di una grande spaccatura nel movimento perché adottò una linea nazionalistico-feudale. Uno degli slogan di Osman Öcalan era “Vogliamo poterci sposare”, perché nel PKK i militari e le guerrigliere non sono autorizzati a sposarsi o ad avere rapporti sessuali a causa della loro militanza.

La posizione di Osman Öcalan fu percepita come un attacco inequivocabile al movimento delle donne. Molte donne si allontanarono dal PKK, e alcune sposarono uomini della cerchia di Osman Öcalan. Il morale del movimento delle donne ne soffrì pesantemente a causa della sensazione che dalle donne curde ci si aspettasse semplicemente che si comportassero come mogli “normali”. Per essere chiari, il movimento delle donne non si oppone al matrimonio in quanto tale; il problema fu il modo in cui Osman Öcalan cercò di indebolire il movimento delle donne dicendo che la loro militanza, e quindi la loro liberazione, non era “normale”.

Da allora, il movimento delle donne si è riorganizzato in un nuove strutture. Ora, il suo corpo principale è costituito dalla Comunità delle Donne del Kurdistan (KJK). L’obiettivo è quello di formare un’organizzazione ombrello, piuttosto che un singolo partito decisivo. Questo potrebbe includere la diramazione femminile di un partito particolare, una cooperativa femminile o un consiglio delle donne in Europa, per citare solo alcune possibilità. Indipendentemente dalle forme che le istituzioni cooperanti potrebbero prendere, sono tutte parte di un unico grande movimento. Oggi, a causa di questa massiccia mobilitazione, tutto il mondo sta parlando del Movimento delle Donne Curde, anche a causa della sua resilienza contro lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS).

JS: Hai parlato di come il Movimento delle Donne Curde e Abdullah Öcalan hanno criticato lo stato per il suo essere intrinsecamente anti-democratico, a causa dei rapporti patriarcali che incarna e del suo concorso nelle strutture del capitale globale. Negli scritti dalla prigione di Öcalan, egli fa riferimento ad un’alternativa politica nei termini di “confederalismo democratico”, che è essenzialmente una forma di democrazia senza lo Stato, e che si basa invece sull’autogoverno, sulle strutture comunitarie e su una rappresentazione politica con parità di genere. Come ha reagito il movimento curdo quando ha articolato questa proposta radicale?

DD: Öcalan ha annunciato il modello del confederalismo democratico nel 2005, dal carcere. Come ho già detto, in quel momento aveva già abbandonato la lotta per uno Stato nazione curdo. Per un movimento che comprendeva milioni di persone che si prefiguravano uno stato indipendente, questo concetto del confederalismo democratico fu inizialmente molto difficile da accogliere. È difficile coinvolgere la gente comune con l’ideale di una democrazia senza lo stato. Infatti, molti hanno accusato Öcalan di aver abbandonato la causa dell’”indipendenza”, perché concepiscono l’indipendenza solo all’interno della struttura dello stato. È molto importante tenere a mente le differenze di condizione e di consapevolezza delle persone all’interno del movimento. Negli ultimi anni, però, e attraverso la pratica attiva, la nozione di confederalismo democratico ha cominciato a fare eco tra molte persone.

Il PKK e le organizzazioni associate hanno potuto introdurre il concetto di confederalismo democratico attraverso comitati, organizzazioni autonome, comunità e scuole alternative in Turchia. In altre parole, modelli di auto-organizzazione – centrali nell’idea del confederalismo democratico – furono utilizzati per comunicare quello stesso concetto alle masse. Attraverso la pratica attiva, hanno dimostrato che un’alternativa allo stato era in realtà possibile. In sostanza, questo si riduce semplicemente ad un insegnamento della politica attraverso la pratica della politica – per superare radicalmente la separazione tra teoria e pratica.

C’è bisogno di cooperare con tutte le persone che sono interessate alla democrazia, perché l’idea del confederalismo democratico non è solo di liberarsi instaurando un’autonomia nonostante lo stato, ma anche di democratizzare le strutture esistenti. Ad esempio, in Turchia, malgrado la repressione da parte dello stato, il movimento curdo ha stabilito il principio della co-presidenza: l’idea che ogni organizzazione politica debba avere un rappresentante maschile e uno femminile. La parità di genere su tutti i livelli è uno dei principi fondamentali del confederalismo democratico, ma lo si può mettere in pratica direttamente non solo nelle regioni autonome, ma anche nelle strutture politiche esistenti. Si deve dare l’esempio attraverso la pratica.

JS: Fino a che livello il confederalismo democratico è un progetto politico e quali sono le sue ispirazioni?

DD: Öcalan legge molto in prigione. è lì che ha incontrato, tra gli altri, il lavoro dell’anarchico americano ed ecologista radicale Murray Bookchin, che aveva sviluppato il concetto di “comunalismo”: l’auto-amministrazione senza uno stato, nel rifiuto di strutture di potere centralizzate, memore dei primi Soviet e della Rivoluzione spagnola di stampo socialista libertario del 1936 in Catalogna. Öcalan ha riconosciuto che i concetti di Bookchin, come quello di “ecologia sociale”, riguardano molto da vicino la ricerca curda di alternative allo Stato. Non si tratta solo un’ecologia in termini di natura, ma anche di un’ecologia della vita: la costituzione di strutture di potere non accentrate, diversificate ed egualitarie che si mettano in relazione con le questioni dell’economia, dell’istruzione, della politica, della convivenza e dell’importanza della liberazione delle donne. Ciò che è esplicito nei pensieri sia di Bookchin sia di Öcalan è l’idea di operare “a dispetto di” ciò che sta accadendo intorno a te – in altre parole, agire attraverso la pratica. Ma Bookchin non è l’unico pensatore fondamentale che ha modellato i pensieri di Öcalan; nei suoi scritti egli si riferisce, tra i molti altri, a Michel Foucault e Immanuel Wallerstein.

Il confederalismo democratico si basa sull’opera di molti pensatori, ma è costruito su misura secondo le peculiarità dell’oppressione che affligge il Kurdistan. Esso si interroga su come costruire un’alternativa allo stato – creata per e dalla gente – indipendente dall’assetto internazionale, tenendo anche conto dei regimi oppressivi specifici della regione. Per questo motivo l’insistenza è sempre sui governi regionali e sull’autonomia regionale, anche se il modello del confederalismo democratico è proposto per l’intera regione curda. Ogni regione deve scoprire cosa funziona meglio per sé, tutte però rispettando i principi della parità di genere, dell’ecologia e della democrazia radicale su base locale. Questi sono i pilastri del confederalismo democratico e rimangono incontestabili.

Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.

JS: Il modello del confederalismo democratico si è di recente ritrovato completamente coinvolto nella parte settentrionale della Siria, nella cosiddetta rivoluzione del Rojava, guidata dai rivoluzionari curdi. Potresti spiegare cosa è la rivoluzione del Rojava?

DD: Rojava in curdo significa “Ovest”, e si riferisce al Kurdistan occidentale, o se consideriamo l’attuale cartografia geopolitica, è la parte settentrionale della Siria, che è vastamente popolata da curdi. La rivoluzione del Rojava è stata innescata dalla cosiddetta Primavera araba del 2012, ma le origini e le premesse del movimento risalgono a molto prima. I curdi si sono opposti per lungo tempo al regime siriano. Già nel 2004 ci fu il massacro di Qamişlo, durante il quale il regime di Assad uccise diversi attivisti curdi coinvolti in una rivolta. Sotto il regime di Assad, i curdi non avevano diritti di cittadinanza e non potevano parlare la loro lingua. Per molti versi, la loro situazione era molto peggiore rispetto a quella dell’opposizione araba, e così presero parte spontaneamente alla rivolta generale nel 2012. I curdi capirono però presto che l’opposizione non avrebbe necessariamente fornito loro alternative migliori, poiché era manipolata da attori occidentali e non occidentali mossi dai loro interessi arrivisti nella caduta di Assad, e non da un investimento sincero per una democrazia siriana o il sostegno alla liberazione dei popoli. Di conseguenza, combattenti sempre più radicali furono sostenuti e importati da forze straniere. Oggi li conosciamo come parte dell’ISIS.

Il regime di Assad intraprese forti scontri con l’Esercito Siriano Libero, il principale gruppo di opposizione, in aree come Damasco e Aleppo. Di conseguenza, il regime si ritirò dalle aree curde nella parte settentrionale del paese e i curdi colsero l’occasione per subentrare: presero subito il controllo delle città del nord e sostituirono le istituzioni del regime di Assad con il proprio nuovo sistema. Il 19 luglio 2012 fu dichiarata la rivoluzione del Rojava. La Turchia era molto arrabbiata, non solo perché ha un lungo tratto di confine condiviso con i curdi in Siria, ma ancor più perché la Rivoluzione del Rojava è ideologicamente legata al PKK. In quel preciso momento, il governo turco ha annunciato che avrebbe iniziato le trattative di pace con il PKK: dovevano rispondere alla pressione.

In seguito, il 9 gennaio 2013, tre attiviste curde furono assassinate a Parigi: Fidan Doğan, Leyla Şaylemez e Sakine Cansız, quest’ultima cofondatrice del PKK. Per la comunità curda, era chiaro che gli omicidi fossero un tentativo disperato della Turchia di indebolire il potere di negoziazione curdo, per dimostrare come fossero in grado di sferrare un colpo ai curdi anche in Europa. Nel frattempo, la rivoluzione del Rojava ha fronteggiato diversi nemici: il primo fu il regime di Assad, e poi i gruppi jihadisti emergenti come Jabhat al-Nusra o al-Nusra Front, un’organizzazione esplicitamente sostenuta e finanziata dallo stato turco per minare le strutture autonome della resistenza curda. Seguì poi quell’organizzazione che si fa chiamare ISIS.

Verso la fine del 2012, nonostante il fatto che dovessero combattere queste forze jihadiste, i curdi hanno iniziato a istituire le proprie amministrazioni autonome e consigli e hanno costruito alleanze con partiti di tutta la regione. Nel novembre 2013, la rivoluzione del Rojava dichiarò la sua autonomia: non operava più entro i limiti dello Stato.

La situazione diventava sempre più difficile, giacché tutto il mondo veniva trascinato nel conflitto: gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia, gli stati arabi del Golfo Persico, la Turchia, l’Iran… Divenne una seconda Guerra fredda. Il combattendo dei ribelli da parte di Assad era solo un microcosmo di tutti gli interessi internazionali investiti nella regione. Per via dell’appartenenza della Turchia alla NATO e dei loro interessi nel rovesciare tanto di Assad quanto dell’autonomia curda, i curdi non furono invitati alla cosiddetta Conferenza di pace Ginevra 2 sulla Siria nel gennaio 2014, che doveva essere destinata a trovare una soluzione per il conflitto in Siria. Se fosse stato davvero un tentativo di riunire diverse fazioni per trovare una soluzione, sarebbe stato scontato che si dovessero convocare i curdi, che costituiscono il 10-15% della popolazione e che si erano rivelati attori fondamentali della guerra. La cosiddetta opposizione fu selezionata dai poteri che volevano sbarazzarsi di Assad. Questa non è da intendersi come un’apologia di Assad – Assad doveva essere rovesciato – ma non si può semplicemente costruire un’opposizione secondo i propri interessi. Le conclucsioni della conferenza, come molte altre importanti decisioni internazionali, non rispecchiarono affatto la volontà del popolo siriano e non mirarono di certo ad una soluzione democratica.

I cantoni indipendenti della regione autonoma del Rojava, modellati secondo il confederalismo democratico, furono proclamati mentre stava avendo luogo il convegno di Ginevra II. Quindi, fondamentalmente, la risposta della Rivoluzione del Rojava era: “Bene, se non ci invitate a Ginevra II, a questa importante conferenza internazionale, noi proclamiamo i nostri cantoni; noi reclamiamo la nostra piena indipendenza con o senza la vostra approvazione.” Questa è la posizione generale del confederalismo democratico, è attorno a ciò che ruota tutto: lavorare insieme e andare avanti, non importa ciò che ti accade intorno.

A seguire, gli attacchi jihadisti sul Rojava si intensificarono. Ci furono segnalazioni di jihadisti curati negli ospedali turchi. Se il mondo avesse ascoltato allora, si sarebbero potuti evitare molti massacri. A Salih Muslim, il co-presidente del partito politico principale del Rojava, il Partito dell’Unione Democratica (PYD), furono negati quattro o cinque volte i visti per spostarsi negli Stati Uniti a spiegare la minaccia del terrorismo di stato nella regione. Sinem Mohammed, un importante rappresentante del TEV-DEM, non ha ottenuto un visto per il Regno Unito, tutto a causa di interessi politici esterni. Oltre a tutto questo, sussistono diversi embarghi economici e politici sul Rojava. Nel 2014 anche il governo regionale curdo dell’Iraq ha collaborato con la Turchia in un tentativo di marginalizzare la rivoluzione dei Rojava, con l’ambizione di affermarsi come la forza curda dominante nella regione. È notevole come la rivoluzione del Rojava sia avvenuta e abbia persistito nonostante questi ostacoli. Tali ostacoli, in realtà, rappresentano in parte la ragione grazie a cui il Rojava ha ottenuto così tanto, perché se fosse stato cooptato da una forza più ampia, con interessi davvero antidemocratici, non sarebbe potuta diventare una vera rivoluzione.

JS: Vale a dire che le condizioni rivoluzionarie che hanno permesso alla rivoluzione del Rojava di svilupparsi sono anche parzialmente dovute al rifiuto da parte dell’assetto internazionale, che ha costretto le cellule della resistenza curda a rafforzarsi e diventare ancora più sofisticate?

DD: Esattamente. Era uno sforzo completamente auto-sostenuto – non vi era alcun supporto da nessuna parte. La rivoluzione dovette lavorare nonostante questa guerra e gli embarghi, per cui le persone dovevano trovare soluzioni creative. Le Unità di Difesa Popolare (YPG) e le Unità di Protezione delle Donne (YPJ), le forze armate autonome del Rojava, dovevano pure costruirsi i propri carri armati! Il regime siriano era solito ripetere spesso che alcuni prodotti non possono crescere nel Rojava, ma attraverso la sperimentazione, le persone hanno appreso che molte verdure effettivamente vi crescono molto bene e da allora hanno avviato progetti agricoli sostenibili. Questa autostima generale si è rivelata efficace nel corso della rivoluzione, soprattutto quando le forze combattenti del Rojava hanno gestito la propria difesa da soli, piuttosto che affidarsi alle armi o a istruzioni dall’estero.

Naturalmente, sarebbe stato ottimo se si fosse ricevuto un sostegno, ma solo dai luoghi giusti – per esempio dai movimenti e partiti di sinistra. Eppure il fatto che non ci fosse alcun sostegno esterno ha anche alimentato la politicizzazione della gente, che ha imparato a fare tutto da sé. Ma i costi e il sacrificio furono molto gravosi.

JS: In ogni rivoluzione, per quanto tragica, sembra esserci una necessità intrinseca verso la creazione di una situazione collettiva dove non vi sia più nulla da perdere: una rottura totale con l’assetto dell’oppressione.

DD: Ciò che è unico nella rivoluzione del Rojava è che aveva già una solida base ideologica. Fu costruita sulle idee del confederalismo democratico, dell’auto-sostenibilità, dell’autogoverno, dell’autonomia, della vera indipendenza: non attraverso lo stato, ma nel senso di vivere senza approvazione. Questa è infatti l’eredità del movimento curdo filosoficamente affiliata al PKK. È qualcosa che vi potranno dire gli stessi attori di questa rivoluzione, ma è difficile da accettare per coloro che si appropriano della resistenza del Rojava contro l’ISIS per i propri scopi personali. Prima del Rojava, per esempio, c’erano i consigli autonomi creati dal PKK in Turchia, per i quali molte persone furono imprigionate. La gente del Rojava non era spaventata, perché conosceva il costo della propria rivoluzione, il prezzo da pagare per istituire qualcosa nonostante il sistema dominante oppressivo e i suoi attacchi. Ecco perché la resistenza a Kobanê fu così difficile da comprendere per molte persone. Che la gente potrebbe continuare a resistere fino all’ultimo proiettile, tutto per una vita diversa – questa filosofia e mobilitazione collettiva non possono essere considerate indipendentemente dalle vittorie militari contro l’ISIS.

JS: Come funziona oggi il confederalismo democratico nel Rojava?

DD: L’amministrazione del Rojava è fondata sul Contratto Sociale, noto anche come Carta. è stato scritto collettivamente da tutti i popoli che abitano la regione: i curdi, gli arabi, gli assiri, i caldei, gli aramei, i turkmeni, gli armeni e i ceceni. Esso contiene i pilastri del modello del confederalismo democratico, un modello politico laico che garantisce la parità di genere, sostiene i principi di una pratica collettivista e comunalista, il che significa che i poteri centralizzati sono ridotti al minimo e che le comunità locali, le componenti fondamentali, detengono la massima rappresentanza politica. I tre cantoni di Rojava – Afrîn, Cizîre e Kobanê – sono affiliati, ma gestiscono autonomamente i propri affari. Uno dei principi è che ogni regione potrà capire al meglio le proprie realtà. Kobanê, per esempio, è abitata prevalentemente dai curdi, mentre Cizîre ha una popolazione molto multietnica.

Ogni cantone ha ventidue ministeri; ogni ministero ha un ministro e due deputati. Se il ministro è curdo, allora le due cariche di deputato devono essere ricoperte da un arabo e un assiro – e almeno uno di loro deve essere una donna. Ogni cantone è presieduto da una donna e un uomo. Parallelamente ai Cantoni vi è un movimento sociale chiamato TEVDEM, il Movimento per una Società Democratica. Il loro compito è quello di tenere in contatto l’amministrazione e la gente, per garantire che i cittadini assumano un ruolo guida in tutte le questioni. Nonostante le amministrazioni cantonali, considerate misure necessarie per fronteggiare le diverse minacce geopolitiche in questo momento transitorio, il Rojava è sostanzialmente diretto da consigli – consigli di vicinato, consigli comunali e consigli cittadini – dove le persone prendono decisioni insieme e formano comitati per mettere in pratica queste decisioni. È importante sapere che l’organismo amministrativo del Rojava non è separato dalla società civile: è questo che la rivoluzione del Rojava cerca di fare, di rimodellare l’amministrazione come questione collettiva.

Il movimento delle donne è anche organizzato autonomamente nella forma dell’ente di coordinamento della Yekîtiya Star, di cui l’YPJ fa parte. La Yekîtiya Star decide le questioni femminili, in materie come, ad esempio, chi debba essere co-presidente di un certo cantone. È anche l’organo che insiste sulla liberazione delle donne come punto focale per la comprensione e l’istituzione della democrazia. Molte cooperative sono state fondate per garantire l’integrazione sistemica delle donne nella politica e nell’economia. I consigli autonomi delle donne esistono parallelamente ai consigli popolari generali su tutti i livelli, dai comuni vicini fino a livello cantonale. Hanno il potere di porre il veto incondizionato sui consigli popolari.

Alcuni meccanismi operativi come i contingenti e le co-presidenze potrebbero sembrare molto burocratici, ma questi sono dispositivi che aiutano a garantire che un vero cambiamento sia messo in atto. Il vero lavoro sociale, la vera lotta, consiste nel garantire che questi principi di liberazione fortemente auspicati vengano accettati e interiorizzati in tutta la società, per comprendere che se vogliamo essere una società in cui persone diverse possono vivere pacificamente, allora dobbiamo tutti governare questa società collettivamente e equamente. Se stimiamo veramente le donne, dobbiamo stabilire delle quote per garantire che le donne siano pienamente riconosciute nel loro potenziale. Potrebbe essere che un giorno le quote non saranno più necessarie. E questo vale per entrambe le parti: ad esempio, ora esistono molte aree in cui dominano le donne, per cui in queste regioni è stata recentemente introdotta una quota del 40% per evitare una maggioranza schiacciante di donne in una commissione. Ciò è anche per assicurarsi che gli uomini non evitino alcuni aspetti della vita politica e sociale, come nel caso dei comitati familiari, in cui anche gli uomini devono partecipare e assumersi responsabilità.

L’intensità della guerra – soprattutto a Kobanê, che è stata in prima linea nella lotta contro l’ISIS – ha costretto molti aspetti del progetto politico ad un rallentamento. Tuttavia, nonostante ciò, il confederalismo democratico e il suo obiettivo di un’autonomia democratica hanno continuato a svilupparsi e prosperare, in particolare nel cantone di Cizîre, che costituisce l’area più grande e sicura, situata perlopiù nella parte orientale del Rojava. Non molto tempo fa, è stata fondata un’università alternativa, l’Accademia di Scienze Sociali di Mesopotamia, nonostante la guerra in corso. Lì, le premesse e metodi dominanti attorno a concetti quali la conoscenza e la scienza vengono sfidati e rinvigoriti. Una delle cose che le persone hanno imparato in questo processo è che se non si stabilisce qualcosa di parallelo alla propria lotta armata, tutto si sgretola. La rivoluzione sociale nel Rojava è anche una garanzia per la battaglia stessa. Significa istituire qualcosa, creare strutture che le persone sono disposte a proteggere perché rappresentano una prospettiva di cui hanno disperatamente bisogno.

Molto spesso l’idea del radicalismo è intesa come la necessità di qualcosa di molto lontano da quello che ti sta accadendo intorno in questo momento. Quel che capisco di ciò che costituisce il radicalismo, o il femminismo radicale nel caso della questione curda, è che le donne ora sono riconosciute come ugualmente capaci di amministrare la vita insieme agli uomini; che hanno un’organizzazione autonoma, persino un esercito; che sono insegnanti nelle scuole; che partecipino attivamente all’economia; che il patriarcato non è più visto come la norma; che la liberazione delle donne è diventata uno scopo prezioso di una rivoluzione che cerca di cambiare la mentalità della società. E tutto questo in una regione in cui il fatto che una bambina di dodici anni potesse essere data in sposa a un uomo di settant’anni, era tollerato.

Non si può sconfiggere l’ISIS o cambiare la società attraverso azioni individuali che possono sembrare radicali perché scioccanti, che è il modo in cui il femminismo radicale è stato percepito negli ultimi tempi. Al contrario, si sfida la società attaccando veramente – collettivamente – le radici dell’oppressione e potenziando e politicizzando radicalmente le comunità fondanti.

Lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria è per molti versi solo un’estensione di ciò che sta succedendo nel mondo su larga scala. I suoi attacchi sistemici sulle donne, i suoi femminicidi, trovano la propria nemesi nel Movimento delle Donne Curde. Inoltre, ci si deve chiedere perché si definiscono lo Stato Islamico? Che cosa hanno trovato di allettante nel concetto di stato? I meccanismi di dominazione che lo stato perpetra in modo molto efficace in questo mondo – ecco che cosa. Per molti versi, l’ISIS è un prodotto dell’assetto mondiale in cui viviamo, che sfrutta attivamente le condizioni esistenti, e nel contempo è il risultato di queste stesse condizioni. È per questo che la rivoluzione del Rojava non è solo un’alternativa in opposizione all’ISIS, ma è anche un’opposizione contro le politiche di quella regione e i meccanismi dell’ordine globale più in generale.

Per esempio, le Nazioni Unite si concentrano solo sugli attori statali: gli stati riceveranno aiuto, gli stati riceveranno sostegno, gli stati riceveranno riconoscimento. Ecco perché non molti aiuti umanitari sono giunti ai popoli del Rojava, perché i Cantoni non sono riconosciuti come stati, anche se il regime siriano lì non esercita più il proprio potere. Legalmente, è una terra di nessuno. A causa di queste politiche burocratiche assurde, i rifugiati nel Rojava continuano a morire di fame.

Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.

JS: Quello che stai descrivendo sembra avere molto a che vedere in pratica con la definizione di una vera e propria rivoluzione culturale e democratica. Questo è evidente non solo nel modo in cui i Cantoni del Rojava si organizzano, in cui affrontano i loro avversari, come l’ISIS, un prodotto della politica imperialista e delle politiche statali totalizzanti, patriarcali e radicali – ma più sostanzialmente – nel modo in cui i cantoni del Rojava operano a fronte di un assetto geopolitico che non è in grado di riflettere sulle premesse radicali della democrazia, della liberazione della democrazia dalla struttura dello stato.

DD: La rivoluzione del Rojava, per esempio a Kobanê, è molto spesso minimizzata come una lotta di sola autodifesa, come se si trattasse unicamente di rovesciare l’ISIS, che è di certo una questione importante altrimenti la gente andrebbe incontro al genocidio. Ma è il sistema che viene messo in atto nel Rojava, la sua struttura e la sua mentalità, a sconvolgere davvero l’ISIS così come l’ordine internazionale. In un certo senso, questa è un’autodifesa in senso anche filosofico, si tratta di porre i termini per la propria esistenza.

La Turchia definisce il PKK, il PYD e l’ISIS tutti come terroristi. La parola “terrorismo” è molto delicata per i curdi, perché le nostre comunità sono state criminalizzate come terroriste per così tanto tempo. Ma è chiaro che questi due “sistemi terroristici” non sono la stessa cosa per la Turchia, già solo per il fatto che il PYD, per esempio, non ha ricevuto finanziamenti o sostegno o almeno tacita approvazione dalla Turchia, mentre l’ISIS lo ha fatto. Allo stesso tempo, l’ordine internazionale per due anni è rimasto intenzionalmente cieco alla minaccia dell’ISIS, nonostante le ripetute avvertenze da parte dei curdi.

JS: In fin dei conti, l’ordine geopolitico sembra più spaventato da una democrazia capace di organizzarsi al di fuori dello Stato – criticando e minando quell’assetto – che dall’idea del cosiddetto terrorismo.

DD: È molto interessante, infatti, vedere come nessuno voglia riconoscere i cantoni, nonostante sia ormai molto chiaro a tutti che i curdi in Siria sono i più forti avversari dell’ISIS. Quale modo migliore per sostenere la resistenza che riconoscere la sua amministrazione? Nessuno sfida il sistema. Anche l’ideologia con cui le donne stanno combattendo l’ISIS è etichettata come terrorista. Riconoscere il Rojava significherebbe affrontare la Turchia, membro della NATO, ritenere responsabili diversi paesi del Golfo, ammettere che la politica estera occidentale ha fallito, portare alla luce il commercio mondiale di armi. Tutto ciò causerebbe un caos drammatico.

JS: Quindi, quello che stai dicendo è che riconoscere il Rojava implica uno scontro con le proprie strutture oppressive interne, così come è stato per coloro che dirigono la rivoluzione del Rojava per poter arrivare al modello del confederalismo democratico.

DD: Tanto per cominciare perché diavolo l’ISIS è affiorato? Perché gli Stati hanno sfruttato il genuino desiderio di cambiamento sociale dei Paesi arabi? Perché gli Stati promuovono nuovi tiranni per prendere il loro posto in questi governi? Perché hanno sostenuto il settarismo? Perché così tanti giovani in Europa si uniscono all’ISIS? Perché l’alternativa del Rojava, che sembra una prospettiva possibile per la regione, è così marginalizzata?

La risposta sta nel fatto che il sistema globale è intrinsecamente viziato. Ecco perché il Rojava continuerà a combattere il sistema.

[Traduzione di Federica Mutti e Ilaria Zanella]

 

Dilar Dirik è un’attivista del Movimento delle Donne Curde (Yekîtiya Star) che opera nel Kurdistan del Nord, oltre ad essere una dottoranda in sociologia all’Università di Cambridge. Questa è una versione modificata dell’intervista svolta il 22 ottobre 2014 presso il De Balie ad Amsterdam. È stata in seguito rivista da Dilar Dirik e Jonas Staal via e-mail nel febbraio 2015.

 

[i] Dilar Dirik, “Rojava: il coraggio di immaginare”, in Rojava una democrazia senza stato, a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson, Elèuthera, Milano, 2017.

[ii] L’accordo Sykes-Picot, firmato il 16 maggio 1916, era un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, con il sostegno della Russia, che ha mappato le sfere di influenza proposte dai rispettivi governi in Medio Oriente. L’accordo è stato stipulato in previsione della sconfitta dell’Impero ottomano da parte della Triplice intesa durante la prima guerra mondiale.

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