Theater of the Stateless. Intervista a Jonas Staal di Eleonora Roaro

Rojava in curdo significa Ovest e designa il Kurdistan occidentale, che corrisponde al nord della Siria. Nel novembre 2013 la rivoluzione del Rojava ha dichiarato la propria indipendenza: costruita sull’ideale del Confederalismo Democratico, dell’auto-sostenibilità, dell’auto-governo e dell’autonomia, non avrebbe più operato attraverso lo Stato, esistendo letteralmente senza bisogno di approvazione.

Il vero problema dello stato-nazione è che ha fatto propri i paradigmi di un sistema patriarcale; la dissociazione della democrazia dallo Stato, coincide con un dissociazione dal patriarcato. Spesso è difficile spiegare la coerenza di una causa nazionale, come la rivendicazione del riconoscimento della nazionalità curda, con la liberazione femminile, poiché il nazionalismo è per sua natura intriso di premesse patriarcali che portano in se intrinseci meccanismi di prevaricazione da parte del maschile. Il Kurdish Women’s Movement non vuole essere solo un partito: si prefigge anzi di essere dovunque ce ne sia bisogno.

Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.

Eleonora Roaro: Hai recentemente trascorso un periodo nel Rojava. Potresti parlarci di questa esperienza e del progetto New World Summit – Rojava?

Jonas Staal: Nel 2012 ho fondato un’organizzazione politica ed artistica chiamata New World Summit, il cui scopo è quello di sviluppare parlamenti alternativi per organizzazioni senza stato. Il nostro lavoro prende forma come un’installazione su larga scala che cerca di creare uno spazio democratico dove le organizzazioni perseguite dagli ordini statali esistenti possano discutere dei loro obiettivi e della criminalizzazione. Durante il processo, abbiamo lavorato con diversi membri del movimento della rivoluzione curda, in particolare con il movimento delle donne curde, e in questo modo siamo venuti a conoscenza del radicale passaggio del Kurdish Workers’ Party (PKK) fatto alla fine degli anni ’90: il loro obiettivo non era più quello di stabilire un proprio stato, ma di creare ciò che il loro leader Abdullah Öcalan chiama “stateless democracy”, una democrazia senza stato.

Quando i curdi del Rojava nel nord della Siria dichiararono la loro indipendenza nel 2012 ed iniziarono ad implementare questo modello di democrazia senza stato, Saleh Muslim (co-presidente del Democratic Union Party locale) ci invitò a viaggiare nel Rojava per documentare i suoi sviluppi e risultati. Il nostro primo viaggio fu nel 2014 quando assistemmo alle innumerevoli assemblee della zona, alle organizzazioni auto-gestite dalle donne e alle unità di protezione delle donne, alle nuove università e ai nuovi centri culturali. Il ministro degli Affari Esteri, Amina Osse, fu molto colpita dal lavoro del New World Summit e mi chiese se fosse possibile creare non un parlamento temporaneo così come avevamo fatto nei contesti dei teatri e degli spazi dell’arte, ma uno permanente, ispirato agli ideali della democrazia senza stato. Accettammo e cominciammo a sviluppare con Osse e le comunità locali del Rojava un parlamento pubblico nella città di Derik. Un progetto d’arte, un simbolo, e un luogo concreto per la pratica quotidiana della democrazia senza stato.

Quando cominciammo la costruzione nell’agosto del 2015 trascorremmo circa quattro mesi nel Rojava. Fu un’esperienza paradossale. Da un lato, si erano raggiunti diversi risultati nel Rojava nello sviluppo e nella messa in pratica questo nuovo modello di democrazia senza stato basata sul un governo autonomo locale, sull’uguaglianza di genere ed su un’economia comune. Allo stesso tempo, questo modello prendeva vita attraverso un enorme sacrificio. Mentre eravamo nel Rojava settimanalmente avevano luogo funerali dei martiri morti durante le lotte contro lo Stato Islamico. Così il Rojava rappresenta una conquista ideologica, politica e culturale da un lato, mentre dall’altro deve realizzare il grande sacrificio compiuto da parte delle comunità. Per noi, è stato un onore provare a contribuire con mezzi culturali alla rivoluzione del Rojava.

Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.

ER: Come sei riuscito a sviluppare il progetto New World Summit – Utrecht: Stateless Democracy (2016)?

JS: Mentre stavamo lavorando alla costruzione del parlamento nel Rojava, collaboravamo con il centro d’arte BAK di Utrecht (Olanda) per vedere se potevamo espandere le discussioni sugli ideali della democrazia senza stato. Nell’era della globalizzazione, la nozione di stato e il modo d’intendere la sovranità così com’era nel diciannovesimo secolo sembrano essere incapace di alterare l’ordine capitalista con cui ci confrontiamo oggi. Il nostro obiettivo è di re-immaginare l’eredità emancipatoria dello stato nel contesto del ventunesimo secolo. Penso che il movimento della rivoluzione curda stia facendo ciò, implicando avvocati e politici progressisti, così come altri movimenti e artisti senza stato. Era un gruppo di gente incredibilmente diversa, da Leila Khaled del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina a Birgitta Jonsdottir dell’Icelandic Pirate Party: tutti riuniti intorno alla questione se la nuova democrazia senza stato del Rojava potesse essere un nuovo modello per definire l’autodeterminazione e le politiche emancipatorie del ventunesimo secolo.

ER: Perché avete deciso di costruire un parlamento nell’aula dell’Università di Utrecht?

JS: L’aula dell’Università di Utrecht è il luogo dove venne firmata l’Unione di Utrecht nel 1570, che è considerato da molti un momento storico fondamentale per la creazione del moderno stato olandese. Ho progettato il parlamento con l’architetto Paul Kuipers e il designer Remco van Balder nel tentativo di un dialogo storico con lo spazio, per rivisitare un momento fondamentale dello stato olandese per esplorare le sue alternative in una forma di democrazia senza stato. In molte delle installazioni d’arte del New World Summit questo è un approccio importante per coinvolgere a storia come un “attore” nei parlamenti.

ER: L’assemblea era divisa in tre giorni diversi con tre diversi argomenti: Failed Democracy, Stateless Democracy! and Future Democracy?. Se dovessi sintetizzare ciascuno di essi un tema particolare o in una considerazione, che cosa diresti?

JS: Nel primo giorno, Failed Democracy mostrava come il concetto di democrazia fosse stato dirottato dalla guerra al terrorismo per servire brutali guerre neoliberali e neocoloniali, con il compito di cancellare il dissidio, la memoria dell’Imperialismo occidentale e il passato coloniale. Lo spazio era circondato dagli scritti di Mohamedou Ould Slahi: egli trascorse quindici anni nel Guantanamo Bay. Il suo resoconto scritto dell’esperienza, censurato dal dipartimento statale, era il giusto documento per andare al cuore dell’erosione della democrazia da parte del guerra al terrorismo. Il secondo giorno, Stateless Democracy! proponeva il modello del Rojava come punto contrapposto al concetto di democrazia da parte della sua recente storia di guerre e occupazioni brutali. Infine, durante il terzo giorno chiamato Future Democracy? abbiamo chiesto se dovessimo mantenere le premesse della democrazia o no: se la democrazia senza stato è forte come modello e concetto per rompere con l’uso improprio della democrazia attraverso la guerra al terrorismo, o invece se dobbiamo articolare insieme nuove condizioni. La progettazione dello spazio consisteva solo di questa domanda, ma è stata tradotta nelle diverse lingue delle organizzazioni presente, che in certi casi han posto un dilemma interessante circa la parola stessa “democrazia”, che non esiste in tutte le lingue.

Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.

ER: Anatomy of a Revolution consiste in una serie di fotografie. Perché hai scelto questo medium?

JS: Mentre viaggiavo verso la parte nord del Mali con il National Liberation Movement di Azawad e verso la Siria del nord con il governo autonomo non cercavo di creare opere d’arte ma, piuttosto, volevo documentare e testimoniare il processo in cui questi nuovi modelli alternativi per lo stato stavano emergendo. La fotografia è arrivata in maniera naturale nel processo, sebbene abbia notato che mentre lavoravo i miei occhi erano sempre catturati alla dimensione culturale e artistica dell’artigianato indipendente. Sia in Azawad sia in Rojava ho realizzato che i concetti di indipendenza o di autodeterminazione sono innanzitutto praticati attraverso la cultura: attraverso le canzoni, le immagini e la scrittura che memorizzano la storia e le battaglie della gente e vengono tramandati di generazione in generazione. In altre parole, la nazione viaggia attraverso l’arte. In questo senso, sembrava logico usare un medium artistico per documentare questo processo culturale e artistico.

ER: Cosa pensi della relazione tra la Rivoluzione del Rojava e la sua ricezione da parte dei media?

JS: Nel tempo, il Rojava è stato in grado di rendersi visibile ai media interazioni per il suo unico esperimento democratico nel mezzo della crisi della guerra civile in Siria. Ovviamente, la sua mediazione è spesso riduttiva, poiché si focalizza sulle guerriere donne contro lo Stato Islamico, piuttosto che sul profondo e storico ruolo delle donne nel movimento di rivoluzione curdo, e la loro filosofia di jineology, ovvero “scienza delle donne”. Tuttavia i media hanno una memoria breve, e le battaglie del Rojava saranno solo una dele tante del decennio: hanno bisogno di più di un report della CNN. Il Rojava per questa ragione ha creato un suo network di media, e ha recentemente fondato la sua casa cinematografica, il Rojava Film Commune, con lo scopo di mediare la rivoluzione nei suoi termini e non in quelli occidentali. A parte ciò, penso che abbiamo bisogno di sviluppare un modello alternativo di solidarietà e cooperazione che possa perdurare anche ad un livello strutturale. Noi, come New World Summit, proviamo a fare ciò attraverso lo scambio artistico e culturale e la collaborazione, e intendiamo che ciò sia un progetto che duri per tutta la vita.

ER: Hai parlato di una necessaria relazione tra trasformazione culturale, politica e artistica nelle pratiche rivoluzionarie….Secondo la tua esperienza, quale potrebbe essere lo scopo dell’arte in tempi di emergenza?

JS: L’arte generalmente non ha potere politico, ma ha il potere dell’immaginazione. Penso che sia cruciale, poiché se non siamo in grado di immaginare un futuro differente, allora è impossibile agire per il futuro. Penso che lo scopo dell’arte in un momento di emergenza sia quello di allinearsi con le politiche d’emancipazione: ovvero allineare all’immaginario della politica l’immaginario dell’arte. Non penso che arte e politica siano la stessa cosa, ma che si modellino l’un l’altra, e il nostro compito è quello di rendere chiaro che questo processo di influenza reciproca sia diretto a nuovi modelli politici di democrazia emancipata. I curdi ci hanno dato la direzione di ciò che la futura democrazia potrebbe essere, e ora è nostro compito trasferire questi ideali nel nostro contesto e nelle nostre comunità. So che per molti che lavorano come artisti assieme a movimenti politici sono considerati di “propaganda”, ma penso che la peggiore propaganda sia fare arte per lo status quo ed abbracciare la falsa neutralità per “rendere il capitalismo più bello”, come Hito Steyerl ha detto molto bene.

Penso che l’arte possa fare di più di questo. Ho così lavorato con partiti politici, movimenti pan-Europei e governi autonomi come quello del Rojava. Ogni volta ho vissuto queste collaborazioni come una liberazione, in quanto questi scambi hanno permesso all’immaginario dell’arte di impattare e mobilitare nuove comunità, un nuovo gruppo di elettori. E’ come muoversi dal collage su carta all’assemblaggio di corpi nella realtà. Chiamo ciò l’arte di “Assemblism”, essenzialmente, il processo di assemblare nuove coalizioni di persone nel processo di immaginare e istituire un nuovo mondo. Ciò – penso – è il ruolo dell’arte in un momento di emergenza.

Jonas Staal (1981) è un artista e fondatore dell’organizzazione politica New World Summit (2012-in corso) e della campagna New Unions (2016-in corso). La pratica di Staal include interventi nello spazio pubblico, mostre, spettacoli teatrali, pubblicazione e lectures, che si focalizzano sul rapporto tra arte, democrazia e propaganda. Le sue mostre recenti includono: Art of the Stateless State (Moderna Galerija, Ljubljana, 2015), New World Academy (Centraal Museum, Utrecht, 2015) e After Europe (State of Concept, Athens, 2016). I suoi progetti hanno trovato ampio riscontro internazionale, tra cui 7th Berlin Biennial (2012), the 31st São Paulo Biennale (2014) e the Oslo Architecture Triennial (2016). I suoi libri recenti includono Nosso Lar, Brasília (Jap Sam Books, 2014) e Stateless Democracy (BAK, 2015), ed è un contributor di e-flux journal. Attualmente, Staal sta finalizzando una commissione per la progettazione e costruzione di un nuovo parlamento assegnato dal governo autonomo del Rojava (nord della Siria), come parte di un progetto di ricerca di dottorato presso il programma PhDArts presso l’Università di Leiden.

Eleonora Roaro nasce a Varese nel 1989. Studia Fotografia (BA, IED – Milano), Arti Visive e Studi Curatoriali (MA, NABA – Milano) e Contemporary Art Practice (MA, Plymouth University – Plymouth). Come artista visiva lavora principalmente con le immagini in movimento, con un particolare interesse per l’archeologia del cinema. Collabora inoltre con alcune riviste (D’ARS, Doppiozero, Espoarte) per le quali scrive soprattutto di fotografia, video-arte e cinema. Vive e lavora a Milano.

L’ambasciatore Salih Muslim (è co-presidente del Democratic Union Party, PYD, che raggruppa le comunità indipendenti del Rojava e il loro braccio armato, l’YPG e l’YPJ) presenta le sue keynotes su Rojava, solidarietà e transdemocrazia.

Jonas Staal, New World Embassy: Rojava, Oslo City Hall, 26 novembre 2016.

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