Enquête sur une image* Conversazione con Luca Staccioli, di Francesca Zaja

Si performa perché si deve performare: un ruolo, un genere, una cultura, una funzione, una qualità.

 

La frammentarietà del contemporaneo è il palcoscenico sul quale Luca Staccioli mette in relazione la sua dimensione esperienziale quotidiana con le dinamiche di costruzione delle narrazioni geografiche, identitarie e storiche, compiendo un continuo esercizio ermeneutico e ri-narrativo che interferisce con la distanza presente tra individui e strutture culturali egemoniche.

Oggetti, immagini e suoni sono trattati senza una struttura gerarchica. Così un libro di Camillo Sbarbaro, un’immagine coloniale d’archivio, un tessuto di lana trovato a Marrakech sono riletti accanto alla canzone di un musicista algerino ascoltata in un bar a Parigi, un biglietto della metro di Berlino, un pacchetto di sigarette, una sedia abbandonata sul ciglio di una strada di Moltedo.

Attraverso un metodo di stratificazione e ricombinazione di micro-storie, memorie, così come di segni e immagini che prolificano dai rapporti tra globale-locale e la tecnologia, Staccioli performa un’archeologia del presente: in un dialogo tra realtà, finzioni del racconto e teatricalità, le sue opere mettono in atto un processo di ri-appropriazione di un’esperienza del mondo e delle soggettività sottratte da stereotipi conoscitivi, processi di accelerazione sociale e dispositivi di potere.

Luca Staccioli, Inhabiting Atlas. Through the Window-pane, map #8, pagina quotidiano Annahar al maghribia, Café Nouvelle Ville, Marrakech, 70×90 pagina, ricamo di lana su quotidiano, 2015

Francesca Zaja: Ci conosciamo ormai da qualche anno. Hai studiato a Milano, ora ti muovi tra Milano, Berlino e Parigi.  Qualche mese fa, a settembre, sono venuta a trovarti nel tuo studio di Moltedo, frazione di Imperia: un paesaggio in collina, appena distante dal mare e dalla città. Abbiamo fumato e bevuto qualche Pastis in un caffè giù al porto davanti a vecchie gru in disuso, girato in macchina ascoltando Person Pitch. Conturbante è il paesaggio di Imperia dove è tranquillamente percepibile la frattura tra città e provincia. Il fenomeno della globalizzazione sembra aver portato, qui, solo i residui della sua macchina produttrice e devastatrice: un turismo incurante, fabbriche abbandonate, speculazione edilizia. Locale o globale? La città aliena e la provincia allontana purtroppo.

Le forme ricamate sugli oggetti di Inhabiting atlas: through the window-pane, oggetti da te trovati o scambiati in vari luoghi del Mediterraneo, derivano dai segni che il tempo ha sedimentato sulle superfici del vetro di una finestra che proviene proprio da Imperia. Windowscape #1 è un viaggio sullo stesso vetro di finestra, dove il suono, composto da frammenti registrati in vari luoghi, descrive uno spazio immenso. Così il mare di Je mouvrais pour la première fois à la tendre indifférence du monde; un biglietto dell’autobus; una caserma militare abbandonata e riattivata da una composizione sonora performata e registrata all’interno dello spazio e da una danza metafisica di gocce d’acqua e palloni da spiaggia.

I tuoi lavori si collegano in diversi modi a Imperia. Spesso raccontano un universo in bilico tra appartenenza e non-appartenenza. Ce ne parli?

Luca Staccioli: Il vetro della finestra di Windowscape e Inhabiting Atlas viene dal mio studio di Moltedo: le sue macchie sono diventate la metafora di un confine da percorrere, quel qualcosa che unisce al resto del mondo e allo stesso tempo divide. Così il mare o una caserma abbandonata sono uno spazio, in un certo senso, libero, immaginifico, per una possibilità di riscrittura.

Un semplice biglietto del pullman della Riviera Trasporti su cui appunto «Was it me? Where?» penso introduca una riflessione sullo sradicamento, sull’identità, la finzione del nostro ruolo sociale.

Imperia è il luogo in cui sono nato e cresciuto fino ai diciannove anni. I miei genitori non sono di qui. Un luogo d’origine? Ma che cosa è, in realtà, l’origine? Quel qualcosa cui si ha la sensazione di appartenere è spesso una costruzione imposta, un limite da cercare continuamente di oltrepassare.

Luca Staccioli, Was it me? Screen memories, still frame, full HD video colour, 5.1 sound stereo, 8‘ 06’’, 2017.

FZ: Mi viene in mente Foucault: «non dimenticate di smascherare, di lottare, di inventare la vostra vita». Si relaziona al tuo lavoro questa frase?

LS: La mia ricerca è un divenire tra un orizzonte privato e uno politico.

Il contemporaneo è la dimensione dello sradicamento e della non appartenenza.

Da un lato, lo sradicamento è un’imposizione dei meccanismi accelerati dell’iper modernità che passano attraverso, ad esempio, l’apparente annullamento delle distanze geografiche, l’urbanizzazione, la funzionalizzazione delle scelte dell’individuo e delle collettività. Questo fa anelare la stabilità di un porto, di una protezione.

Ma dall’altro lato, la “tradizione” e il “sapere”, come qualcosa di unitario e certo, sono un modello: una costruzione divenuta falsificazione epistemica dell’egemonia culturale della modernità imperialista. La pericolosa forza di questo modello è espressione, oggi, di un sistema fondato sul potere economico-finanziario delle forme di neo-capitalismo: tech-capitalismo, sino-capitalismo, capitalismo-arabo ecc.

“L’appartenere” è un ruolo sociale.

Il contemporaneo è una dimensione dell’estrema distanza e della violenza della vicinanza.

La cultura, la tradizione, l’identità sono state rappresentate come una stanza chiusa: si è dentro o si è fuori: il fuori è alterità! Si deve prendere possesso di quest’infinità di luoghi che sono stati sottratti. Si deve evitare di cadere in una visione “essenzialista”.

Il senso è riappropriarsi di questa condizione cambiando le categorie con cui la si pensa. Vorrei si ritrovasse un punto di contatto consapevole, da ricercarsi in un continuo movimento tra un dentro e un fuori, un distante e un vicino: una relazione.

Luca Staccioli, Inhabiting atlas: through the window-pane: map #1, pacchetto di sigarette, stazione autobus KTEL, Atene, Grecia 2015 15x10x2 cm ricamo di cotone su pacchetto di sigarette. Courtesy collezione Maria Calderara e Novelio Furin.

FZ: Parlando di relazione vorrei ora collegarmi a Inhabiting atlas: through the window-pane, un lavoro che osserva l’identità complessa del Mediterraneo. Uno spazio che nelle eredità più antiche era visto come un luogo di interconnessioni, luogo di “meticci”, spazio di incontro.

Inhabiting atlas: through the window-pane è una sorta di “collezione” in divenire di oggetti eterogenei, che hai raccolto lungo diversi viaggi per il Mediterraneo. Sono stati ricamati seguendo alcune forme impresse nel vetro di una finestra (qui sopra già citata).

Nei giorni della mia permanenza a Moltedo mi hai mostrato alcuni nuovi oggetti ora ricamati e appartenenti all’atlas: delle ostriche, una ram, lo Straniero di Albert Camus e altri.

Ogni volta che ho visto Inhabiting atlas: through the window-pane all’interno di uno spazio espositivo la sua composizione e impostazione era sempre diversa. Gli oggetti cambiano, si alternano e si sostituiscono. Mi piace molto la fluida composizione di questo paesaggio ogni volta difforme ma sempre congiunto.

Luca Staccioli, Inhabiting atlas: through the window-pane map #20, barattolo di Crème fraîche, supermarket, Medina, Tunisi, Tunisia, 15x7x7 cm ricamo di cotone su barattolo di crème fraîche, 2016.

LS: Inhabiting atlas inizia come un diario personale (ma non per questo non corale), orizzontale, a tratti utopico. Inhabiting atlas: through the window-pane nasce da due fascinazioni.

La prima, una riflessione di Fernand Braudel sul Mediterraneo come luogo eterogeneo e complesso, che si compone e scompone continuamente, ma arrivando sempre a ricongiungersi a una unità originale. Così ho iniziato una raccolta di oggetti, tracce, ricordi dei luoghi e delle città che visitavo, delle persone che incontravo. Partendo da Imperia, Genova, la Liguria, poi ad esempio Marsiglia, Tunisi, Marrakech, la Grecia ecc..

La seconda fascinazione è proprio il vetro della finestra del mio studio. Le macchie e le incrostazioni depositate nel tempo sulle sue superfici mi fanno pensare a un arcipelago, una geografia astratta.

Allora ho deciso di ricamare gli oggetti della mia raccolta con le forme che il vetro recava: il vetro così è diventato metafora di un confine, politico ed esistenziale, da ripercorrere in una nuova orizzontalità.

Ricamare sui vari oggetti i segni presenti sul vetro penso mantenga una doppia valenza, una tensione. Da un lato accomuna gli oggetti, racconta di come l’eterogeneità possa diventare una unità o di come l’unità debba essere eterogeneità. Allo stesso tempo però il vetro è una lente e, come una lente o uno schermo, permette di vedere, ma allo stesso tempo allontana, divide.

L’opera è un ripensare a questa contraddizione: attraversare e appropriarmi dello spazio che esiste tra, come dicevo prima, la distanza e la vicinanza, metterla in discussione. L’installazione è un luogo che per un attimo il teatrale viene fermato, ma allo stesso tempo diventa fluido.

Luca Staccioli, Was it me? Screen memories, still frame, full HD video colour, 5.1 sound stereo, 8‘ 06’’, 2017.

FZ: Penso agli oggetti come a dei piccoli spazi, dei paesaggi che raccontano il passare. Ci fanno muovere e abitare. Un biglietto del tram mi consente di andare al lavoro, un biglietto da visita lo potrei collezionare, un libro in chissà quante librerie posso trovarlo.

In Inhabiting atlas: through the window-pane ti sei servito del ricamo, in Was it me? Screen memories (progetto video) intervieni sugli oggetti con la grafia. A mio avvisto, attraverso questi strumenti, che divengono gesti, a tratti alteri o sforzi l’immagine e la natura degli oggetti che raccogli. Non so, ma mi viene in mente Nietzsche che nella Genealogia della morale ha descritto l’interpretare come “violentare, riassumere, accorciare, sopprimere, reprimere, immaginare finzioni, falsificare radicalmente”. 

LS: Il gesto del ricamo e la scrittura appropriano, ma allo stesso tempo denunciano una feticizzazione, mostrano una contraddizione.

L’oggetto dà un’illusione di eternità; è un alveolo dello spazio che raccoglie l’esperienza e il tempo, forse; è un feticcio che ossessivamente viene accumulato – e che si può archiviare –; organizza il ricordo, sembra avvicinarci all’altro. L’oggetto appare così come una brutale estrusione di vissuti, una rovina che continuamente si crea nel tentativo di far varcare all’inarchiviabilità dell’esperito le strette maglie dell’oblio del rapido movimento continuo: dell’oltrepassare nomade.

I processi della società contemporanea, de-soggettivano l’individuo, lo alienano in avanti, verso un orizzonte che scompare.
Il ricamo rimanda all’esperienza del confine, quale luogo continuamente percorso e inesorabilmente vissuto. Il gesto del ricamo riflette il movimento tra un dentro e un fuori dello sguardo che attraversa il vetro. Tu individui il contrasto con la natura dell’oggetto (usi le parole alterare e sforzare), ma in fondo l’oltrepassare è sempre brutale.
Perforato, come l’ago e il filo che affonda e riaffiora dalla materia e si appropria, l’oggetto viene segnato, percorso dalla smania di possedere – o ripossedere – qualcosa che è scomparso. Ma denuncia questa tensione no? In fondo lo cancella anche. Allo stesso tempo il ricamo misura una distanza che, da solo, l’oggetto non può colmare: quella tra l’individuo e l’esperienza che forse rimane sempre sconosciuta. La trama permette di soggettivare l’anonimo, quello che è considerato “estraneo”.
Dunque, il ricamo attraversa l’oggetto-residuo, denuncia una inappropriabilità del perduto, ma, allo stesso tempo, è tentativo del riscrivere, del fare proprio: ripercorrendo oltrepassando.
Allora qui forse subentra la scrittura. Per me è quella nota intima che sempre appunto sulle superfici della mia quotidianità. Credo che i residui, quindi un biglietto della metro, un souvenir, una conchiglia diventino il luogo della nostra esperienza. L’oggetto è una frontiera, è sempre meticcio, è anche esso uno schermo.

Luca Staccioli, Was it me? Screen memories, still frame, full HD video colour, 5.1 sound stereo, 8‘ 06’’, 2017.

FZ: Usando la metafora di Erving Goffman: alla fine siamo tutti attori e il mondo è un immenso teatro. Interpretiamo e cambiamo ruoli in base ai gruppi e ai contesti in cui ci muoviamo.

Dobbiamo mettere in discussione il ruolo, il front(man), la scena, il retroscena, il linguaggio, il pubblico e via discorrendo. Dobbiamo de-categorizzare e ri-categorizzare i nostri presupposti impliciti, questionandoli radicalmente. Eliminare ogni tipo di pregiudizio poiché la cultura è fluida e in continuo mutamento. Trovare un modo per ripensare le domande e ricostruire spazi più ampi per i soggetti sociali.

A mio avviso il tuo lavoro si pone come un invito a ripensare, attuato attraverso un gesto di appropriazione (se si può parlare in questi termini) non per “privatizzare” ma per appunto prima distanziare e poi ricostruire. Quindi, in modo più preciso, il tuo sembra un metodo di rielaborazione che si instaura attraverso il rapporto fra distanza e appropriazione…

LS: Penso non esista un concetto di cultura autentico e chiuso: dalla violenta conquista del continente americano, se non, molto prima, dalla nascita del Mediterraneo come spazio culturale condiviso attraverso il commercio (a.C.), il concetto di cultura mostra la sua ambiguità.

Le culture si sono mischiate principalmente attraverso scambi silenziosi e nascosti, nei bar, nella musica, nel cibo, con l’amore e l’odio, storie minori che sono scivolate attorno, sopra e sotto, di lato, alle grandi narrazioni.

La maggior parte della conoscenza culturale non è informativa, ma passa attraverso una dimensione performativa. Ecco che sul tema del ruolo, entra in gioco quello dell’azione. Lo scambio e la commistione sociale e culturale passano attraverso un processo, a volte violento altre volte no, che include appropriazioni e riappropriazioni di concetti, usi, strutture e così via; così anche la conoscenza. L’appropriazione è un’azione, e può avere una forza conoscitiva, quindi ermeneutica, sempre che abbia al suo interno una dimensione di rinuncia, una visione, in un certo senso, relazionale.

Un autore che mi interessa è Paul Ricoeur con Sé come un altro e l’ermeneutica del testo come azione: egli individua un’idea di soggetto che include la complessità della relazione con una “alterità”, che poi forse è il mondo stesso; quindi l’ermeneutica si propone come un processo conoscitivo che cerca di smascherare, scavare, mettere in relazione per comprendere, diventando uno sforzo anche etico e forse anche collettivo.

(Questo è per me uno dei concetti importanti per trovare un posizionamento, o punto di vista, nel fuggire una concezione individualista e statica, culturalmente e socialmente).

Salto.

Marcel Broodthaers, nel suo impianto di critica del modernismo, sostiene che l’aspetto finzionale dell’arte sia il migliore strumento per svelare la verità-finzione di un certo sistema costruito.

Ecco di nuovo il ruolo. Esso è una messa in scena attraverso gli elementi di una narrazione, così è anche una “parte” che si deve mettere in discussione. Come? Attraverso la stessa dimensione di performatività che è imposta, ma comprendendola, relazionandola con l’altro da sé, ribaltandola, deformandola, portandola alla rottura che ne manifesta l’assurdità.

Si performa perché si deve performare: un ruolo, un genere, una cultura, una funzione, una qualità.

Allora l’inatteso emerge dal processo di analisi del quotidiano, lento e meditativo, e dalla radicalizzazione e messa in discussione dell’“appartenenza” a un sistema culturale.

Mostrando il grottesco, la finzione, il conturbante dei ruoli preposti si mostra come, in realtà, l’alterità sia culturale e corra dalle superfici della nostra quotidianità fino ad un altrove: ogni cosa è precostituita, il senso celato, meno comprensibile. L’alterità va percorsa, bisogna ricongiungersene. Bisogna riappropriarsi della libertà di essere!

Luca Staccioli, Inhabiting atlas: through the window-pane, veduta della mostra “The Great Learning”, curata da Marco Scotini, Palazzo della Triennale, Milano, 2017.

FZ: Interessante è leggere questa azione, risiedente all’interno del tuo processo di costruzione (pensiamo a Inhabiting atlas: through the window-pane, a Was it me? Screen memories oppure anche Untitled), in termini di ermeneutica.

Viviamo in un mondo che si può comprendere e osservare come un testo in tutte le sue più svariate forme. In quanto tale, è lecito, o necessario, interrogarlo tenendo presente la lezione ermeneutica; lasciarsi interpellare dal suo immaginario, demistificandolo, costruendolo, criticandolo per comprendere e così comprendersi. Quando si parla di ermeneutica si parla di alterità. L’ermeneutica designando l’atto del comprendere, presuppone l’esistere altro di ciò che viene compreso.

Il contemporaneo, come hai detto tu, è la dimensione della distanza e della vicinanza, ma anche dell’incontro e dello scontro di più voci. Nell’ermeneutica classica interpretare indicava il colmare una distanza, raggiungere un’alterità preservandone l’identità, ovvero evitandone il fraintendimento. Quindi, cosa è per te l’alterità?

LS: Il concetto di “sé”, di “altro” e di “norma” sono costruzioni. Tutto quello che non rientra all’interno di un piano precostituito, razionale, funzionale è pericoloso per il sistema culturale, sociale ed economico dominante. Quindi il “potere” lo pone come qualcosa di “altro e pericoloso”, mentre in realtà aiuterebbe, libererebbe da un pensiero precostituito e consegnato, perché creerebbe complessità, alternativa.

Se ci pensi, si è arrivati a percepire sé stessi come “altro da sé” quando ad esempio si è malati, si è depressi, si ha un dubbio e quindi non si è produttivi. Come ci si può riconoscere se si è stranieri a sé stessi. La debolezza e l’errore sono in realtà cose stupefacenti.

FZ: Ora vorrei parlare più precisamente di Was it me? Screen memories. Questo lavoro è un viaggio fisico e virtuale, che appare come un video racconto o un commentario che a livello di fruizione mi ricorda Chris Marker e se vogliamo anche vicino ai film diari di Jonas Mekas. Esso si presenta come una narrazione non-lineare articolata su più livelli, composta da pensieri, documenti, memorie, oggetti, immagini, rappresentazioni di luoghi e persone. Questi linguaggi e questi sguardi sono utilizzati e mostrati attraverso tempi e spazi diversi in continua contrazione e sovrapposizione.

Il video inizia con una punta di cinismo e ironia. Lo schermo è nero, non vi è nessuna immagine, ma si sentono i rumori della tua presenza: il tintinnio delle chiavi, i tuoi passi e uno schiarimento della voce. Si apre la prima immagine: un uomo cammina su un tapis roulant con dei tutori ai polpacci; ai suoi piedi un sottotitolo con scritto: «We are beginning the age in which machines attached to our bodies will make us stronger and faster and more efficient». Tu mentre guardi quest’immagine, probabilmente seduto davanti allo schermo del computer, sorseggi rumorosamente qualcosa: una bibita? Mi ha fatto sorridere.

LS: Bene. Allora si capisce. Camminavo sul parquet consumato e scricchiolante del mio studio a Berlino. La giornata era fredda, bevevo caffè: l’esterno alla stanza scorreva solo dietro schermi e finestre. Per quanto riguarda l’immagine la trovai in una Ted Talk sugli ultimi sviluppi della ricerca biomedica e robotica nel campo della protesi. Una conferenza davvero interessante. L’immagine racconta di due robot attaccati a due gambe sane per ridurre notevolmente la fatica del movimento e rendere l’uomo più veloce con i suoi arti. Ho deciso subito che avrei iniziato il film in questo modo.

Luca Staccioli, Was it me? Screen memories, still frame, full HD video colour, 5.1 sound stereo, 8‘ 06’’, 2017.

FZ: Nella formalizzazione di Was it me? Screen memories hai toccato i principali aspetti della comunicazione virtuale: la velocità, l’ipertestualità, l’ipermedialità, l’anonimato, i giochi di identità, l’estensione e il superamento dei vincoli spazio-tempo, l’accesso a relazioni multiple.

Il desktop è un’altra finestra, “Internet” è un modo di stare al mondo.

L’immagine dell’uomo con i robot attaccati alle gambe, appena citato, introduce ed estremizza alcuni aspetti di questo tuo lavoro: l’uomo accelerato e la percezione dello spazio attraverso la protesi, estensione tecnologica dei sensi…

LS: Di sicuro mi sono relazionato a queste tematiche. Il paesaggio del video accenna a tutto questo. Ho esplorato archeologicamente la raccolta “internet”, essa è una sorta di “intelligenza” collettiva. In Was it me? il centro del discorso è il ruolo del soggetto, il viaggio, il retaggio coloniale contemporaneo, la relazione identità-alterità – e nel web tutto è accentuato.

Ogni produzione culturale, oggi, è influenzata da una ideologia o una processualità di networking. Intorno al concetto di immagine-oggetto trovo interessante e problematica l’idea di ubiquità nello spazio e ubiquità dell’autorialità che internet introduce.

Parli di uomo accelerato e di percezione dello spazio attraverso la protesi. Va ripensato il ruolo del soggetto in una dimensione percettiva e conoscitiva sempre più segnata dalle protesi. Forse è l’ennesima forma di alienazione, anche se non necessariamente si palesa come tale. La tecnologia e il concetto di protesi non sono un male in sé, ma le percepisco troppo spesso connesse con una idea di sottrazione e scomparsa del corpo, affermazione di violenza.

FZ: A un certo punto nel video hai inserito un estratto della canzone Ecoute Moi Camarade di Mohamed Mazouni, musicista algerino considerato tra i più popolari in Francia negli anni Sessanta e Settanta. Non la conoscevo. L’ho cercata e poi ascoltata in loop per tutta una giornata. Le canzoni di Mazouni hanno forte retaggio coloniale che si legano perfettamente ad alcuni aspetti post-coloniali presenti in Was it me? Screen memories.

LS: Ero da Le Relais, bar “gauchista” in Rue de Belleville a Parigi. Iniziai a osservare una giovane coppia: lei francese, lui francese-algerino; entrambi molto belli. Lui indossava una maglietta nera e una giacca di pelle scura. Mi hanno colpito le sue mani, il modo in cui abbracciava la ragazza. Lei aveva i capelli molto corti, un paio di jeans, una canottiera bianca senza reggiseno. I loro corpi si abbandonavano l’uno nell’altro. Iniziò Ecoute moi e in sala tutti iniziarono a ballare. Non conoscevo la canzone, ma mi innamorai di quel momento: feci una foto allo schermo del computer dove YouTube recava titolo e autore del pezzo. Il momento dell’opera in cui lo possiamo ascoltare – appunto su un biglietto della metro di Berlino: «The connection to global circuits lays me on a comfortable sense of powerlessness» – rivela la fascinazione e la contraddizione. In fondo viviamo tutti, chi più violentemente chi meno, in una condizione di colonizzati e colonizzatori.

Luca Staccioli, Was it me? Screen memories, still frame, full HD video colour, 5.1 sound stereo, 8‘ 06’’, 2017.

FZ: All’interno di questo lavoro sono presenti alcuni frammenti di video d’archivio trovati su internet, immagini di mostre coloniali o documentari in bianco e nero del periodo coloniale Europeo. Esse sono associate a immagini contemporanee e ultra-contemporanee di viaggi e turismo, social network, pornografia ed esperimenti tecnologici. Come spieghi questa giustapposizione che sembra non tenere conto della dimensione temporale?

Un uomo inginocchiato beve in un posto a lui “non attribuito”. Dove siamo? La rappresentazione dell’altro come bestia o primitivo? Il suo superamento? Così lo ricalchi, lo sottolinei, lo metti in risalto, ti sovrapponi a lui? Una piccola conchiglia che tieni tra le dita e mentre la ruoti e la possiedi compare la parola Sexotic.

Sono presenti molte figure di donne…

LS: Certo emergono domande riguardanti l’impossibilità di afferrare il mondo se lo si cerca di rappresentare, l’esotismo intrinseco nell’idea di viaggio e turismo di massa.

Le immagini d’archivio coloniali che ho inserito mostrano la conturbante rappresentazione dell’alterità negli immaginari dell’imperialismo, così come la ricorrente presenza della donna rimanda ad una cultura patriarcale e oggettificante del corpo femminile.

La scelta dei documenti storici presenti è frutto della collaborazione con Giulia Golla Tunno ricercatrice presso la Scuola IMT Lucca, l’Université Bordeaux Montaigne. La ricerca di Giulia indaga l’uso della categoria “arte” nel periodo coloniale tra cui le Mostre Internazionali di Arte Coloniale presenti nel video. Ho associato questa ricerca a documentari propagandistici coloniali e a immagini contemporanee perché sono convinto l’archivio non sia qualcosa di statico e appartenente al passato ma una domanda sul presente e sul futuro.

FZ: Vorrei concludere con la tua formazione. Hai studiato filosofia, poi hai studiato pittura, poi arti visive e pratiche curatoriali.

LS: La filosofia è una matrice generativa che si associa a un’idea visiva. É un metodo di lavoro. La bellezza si crea attraverso il dialogo tra la forza di un pensiero critico e un’intuizione formale. La forma in sé, l’estetica, soprattutto nella sovrabbondanza visiva del contemporaneo è una cosa pericolosa. La filosofia penso salvi l’arte dalla mera estetizzazione tecnica e formale. La tecnica mi ha sempre inquietato.

FZ: Libro e colore preferito?

LS: Dissipatio Humanis Generis di Guido Morselli e Satura di Montale. Il mio colore preferito è il rosso. Il tuo?

FZ:

 

Francesca Zaja (Venezia, 1991) è ricercatrice indipendente. Ha studiato Storia e Tutela dei Beni Culturali all’Università di Padova per poi specializzarsi in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Interessata ai formati espositivi non convenzionali si è laureata con una tesi dal titolo Le Stanze del Bookmaker. Il libro come spazio espositivo. Oltre a portare avanti una ricerca sul ruolo della art publishing collabora con diverse realtà artistiche, culturali ed editoriali indipendenti. Collabora con hotpotatoes. Si occupa attualmente dell’Archivio di Bert Theis.

Luca Staccioli (Imperia, 1988) artista visivo e ricercatore, ha studiato musica, filosofia all’Università Cattolica di Milano, pittura all’Accademia Ligustica di Genova, Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Tra le sue mostre recenti: 2017 – Studio Visit a cura di Pietro Gaglianò, Museo Masaccio-Giovanni Mannozzi, San Giovanni Valdarno; The Great Learning, a cura di Marco Scotini, Palazzo della Triennale, Milano; 2016 – NESXT, Kalki Club, Current project, Q35, Torino; 2016 – Accomplices Plot III: The Great Bubble of Important Nothings, Hole of Fame, Projektraum, Dresda, Germania. Ha preso parte a varie residenze, workshop e premi tra cui: 2016 – Salzamt International Residency Program, Atelierhaus, Linz, Austria; 2014 – workshop Memory in Pocket, con Luca Vitone, Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova; 2017 – secondo premio, Talent Video Awards, Careof, FIDMarseille, Mibact.

https://www.lucastaccioli.com/

Luca Staccioli, Je m’ouvrais pour la première fois à la tendre indifférence du monde, Still frame, film super 8, 38’’ loop, 2015.

 

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