Alcuni aspetti teorici ed empirici sulla decolonizzazione delle collezioni occidentali, di Marie-Laure Allain Bonilla

In ambito accademico, il pensiero e le metodologie decoloniali sono stati elaborati da alcuni studiosi come Anibal Quíjano, María Lugones, Walter Mignolo, Chandra Talpade Mohanty, Ramón Grosfoguel o Linda Tuhiwai Smith [i], con l’intento di allontanarsi dal canone occidentale del pensiero e di produrre una radicale conoscenza alternativa che considera “seriamente la prospettiva epistemica (…) dei pensatori critici del Sud Globale che pensano da e con spazi e corpi razziali/etnici/sessuali subalterni” [ii]. Più che di una critica antieuropea, si tratta di assumere “una prospettiva che sia al contempo critica verso i fondamentalismi, il colonialismo e il nazionalismo eurocentrici e del Terzo Mondo” [iii].

Nei musei, decolonizzare vorrebbe dire “resistere alla riproduzione delle tassonomie coloniali” e “difendere la molteplicità radicale” [iv]. Ciò dovrebbe iniziare con la riformulazione del modernismo, nella misura in cui questo paradigma rimanda all’imperialismo europeo e coincide con l’eurocentrismo. Infatti, secondo il pensiero decoloniale, fin quando i musei restano ancorati alle tassonomie e ai valori precedenti della storia dell’arte, così com’è stata costruita nei secoli passati, non potranno decolonizzare le loro pratiche. Se consideriamo l’indicazione di Dipesh Chakrabarty per la disciplina della storia, l’Europa ha bisogno di essere provincializzata e in questo senso è indispensabile un approccio transculturale alla storia dell’arte [v]. Questo vuol dire “andare oltre una mossa ‘inclusiva’ per mettere in discussione le basi su cui la nozione di moderno è stata costruita” [vi].

Nei musei, questa svolta epistemica è visibile nella programmazione delle mostre personali di artisti non occidentali o delle mostre di rilievo storico che si propongono di riformulare il modernismo preferendo un approccio transculturale. Possiamo citare alcuni esempi: Seven Stories About Modern Art in Africa (1995), Afro Modern: Journeys Through the Black Atlantic (2010), Non-Aligned Modernity: Eastern-European Art and Archives (2016) o Postwar: Art Between the Pacific and the Atlantic 1945-1965 (2017). Si tratta, tuttavia, di eventi temporanei. Idealmente, una riconfigurazione delle narrative della storia dell’arte dovrebbe andare più in profondità e individuare un modo per avere un effetto più duraturo sull’istituzione rispetto a quello prodotto da un evento temporaneo, per quanto rivoluzionario possa essere [vii]. In questo senso, un esame delle collezioni dei musei e dei loro display sembra essere la mossa giusta. Se l’inizio di ogni decolonizzazione è teoricamente una tabula rasa, come Frantz Fanon ha evidenziato [viii], questo non funzionerà nel caso di una collezione preesistente. Le cose devono essere negoziate e riformulate dall’interno e con un quadro anteriore. Ad esempio, com’è stato fatto al Weltkulturen Museum a Francoforte. Qui, è stato raggiunto un compromesso con la collezione grazie all’invito di studiosi e artisti a lavorare direttamente sugli oggetti, favorendo così una comprensione e una lettura rinnovate [ix].

Sebbene questa metodologia sperimentale, attuata in un museo etnografico, “può essere applicata in altri musei con diverse collezioni storiche” [x], non è sufficiente per decolonizzare i musei d’arte moderna e contemporanea, poiché le loro collezioni d’arte del XX e XXI secolo evolvono e crescono di continuo. Decolonizzare le collezioni museali significa anche adottare una posizione morale ed etica rispetto a come le opere sono acquisite per rendere “i musei morali di nuovo” [xi], volendo supporre non che siano stati “morali” una volta, ma che la loro missione è di fornire prospettive morali ed etiche sulle nostre memorie culturali e artistiche collettive.

Per raggiungere quest’obiettivo decoloniale, i musei devono affrontare due aspetti complementari:

  • Uno, di ordine teorico, che può fornire qualche indicazione su come risolvere i problemi epistemologici ed etici;
  • L’altro, di ordine empirico.

In seguito, esploreremo i limiti di questi due aspetti per mettere in luce le difficoltà che oggi i musei stanno affrontando per la costruzione e la rielaborazione delle loro collezioni in una prospettiva decolonizzata.

Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Pays Barbare, France, 2013, 65′, courtesy the artists and Les Films d’Ici.

Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Pays Barbare, France, 2013, 65′, courtesy the artists and Les Films d’Ici.

Aspetti teorici

È interessante notare che solo di recente i musei occidentali hanno iniziato a mostrare un interesse per la questione decoloniale. Nel 2012, il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid ha promosso il gruppo di ricerca Península. Procesos coloniales y prácticas artísticas y curatoriales (Processi coloniali e pratiche artistiche e curatoriali), orientato ad analizzare:

“il ruolo della penisola iberica nei processi coloniali, la visibilità delle rappresentazioni e delle narrazioni da diverse sfere istituzionali nel passato e nel presente, come anche le risposte di artisti, curatori e ricercatori su alcuni problemi che derivano da queste narrazioni” [xii].

Sempre in Spagna, nel novembre 2014, si è svolto il seminario “Decolonising the Museum”, presso il MACBA di Barcellona [xiii]. In questo contesto, l’analisi era rivolta alle eredità coloniali radicate nei musei e nelle mentalità europee, come anche alle soluzioni suggerite da diversi curatori per superare questi lasciti. Di recente, nel settembre 2017, il Van Abbemuseum di Eindhoven ha riunito studiosi, curatori e direttori d’istituzioni artistiche sul tema delle collezioni, “Collections in Transition: Decolonising, Demodernising and Decentralising?” [xiv]. Inoltre, anche se non si tratta dell’iniziativa di un museo, possiamo citare il simposio “De-Colonizing Art Institutions”, organizzato nel giugno 2017 presso il Kunstmuseum di Basilea dal corso di post-laurea in studi curatoriali della Zürich University of the Arts.

Eppure, questa incursione solo all’apparenza recente del pensiero decoloniale all’interno dei musei è stata infatti preceduta dal pensiero gemello delle teorie postcoloniali, che dagli anni ‘90 affiancano i discorsi curatoriali in Occidente [xv]. Queste teorie si ritrovano all’interno delle istituzioni artistiche sotto varie forme, a loro riferite in modo quasi esplicito. Possono essere ritrovate:

-nell’adozione di un revisionismo geopolitico nelle politiche di acquisizione;

-nella riscrittura di nuovi scenari per la visualizzazione della propria collezione (adottando un punto di vista non eurocentrico);

-nella ricerca di maggiore orizzontalità nelle relazioni/partenariati con le istituzioni e le individualità del Sud Globale;

-nelle dichiarazioni, con l’uso della retorica presa in prestito da pensatori e scrittori postcoloniali (oggi Éduard Glissant è il principale) [xvi].

Tuttavia, è all’inizio del secolo che il ruolo e l’impatto delle teorie postcoloniali sulle istituzioni artistiche sono stati rivalutati. Questo può spiegare il passaggio recente al pensiero decoloniale, che sembra essere uno strumento più efficace e radicale delle teorie postcoloniali – il prefisso “de” implica un’azione, mentre il prefisso “post” suggerisce solo uno stato, una condizione.

Nel 2000, in Australia, la conferenza “Postcolonial + Art: Where Now?” ha esaminato quello che le teorie postcoloniali devono ancora offrire alle arti visive australiane e come le revisioni postcoloniali della storia (dell’arte) hanno interessato (o meno) le istituzioni mainstream [xvii]. Lo stesso anno, in Inghilterra, l’artista e pensatore Rasheed Araeen, une dei più attivi sostenitori e diffusori di queste teorie tramite la rivista Third Text, ha manifestato in un articolo una posizione radicale [xviii]. A suo avviso, l’uso delle teorie postcoloniali rafforzerebbe i presupposti dominanti che le stesse dovrebbero mettere in discussione a spese degli artisti, i quali si troverebbero prigionieri delle loro direttive. La teoria dell’ibridismo di Homi Bhabha è “fasulla” (falsa) [xix], perché è antistorica e contribuisce a promuovere “la curiosità postcoloniale” [xx]. Pertanto, più che la teoria in sé, è “l’atteggiamento ambivalente e acritico di questi intellettuali postcoloniali nei confronti delle istituzioni artistiche e dei loro progetti multiculturali” [xxi] che Araeen vuole sfidare. Ha rimproverato a Edward Said sia la mancanza d’impegno nei confronti del discorso artistico, sia l’aver lasciato la sua idea dell’esilio universalizzata e sequestrata dall’istituzione. Ha poi condannato Stuart Hall per considerare il viaggio culturale dell’artista come contenuto essenziale dell’opera d’arte, in seguito usato per accrescere l’alterità nel contesto ideologico delle politiche culturali.

Araeen considera la loro presenza all’interno delle istituzioni artistiche come un modo, per quest’ultime, di legittimare il loro programma neoliberale. A differenza degli australiani, che hanno cercato di capire in che modo le teorie postcoloniali sono assorbite dalle istituzioni artistiche tradizionali, Araeen si è soffermato quasi esclusivamente sul ruolo svolto da coloro che le hanno prodotte (tra cui Said, Bhabha, Spivak e Hall). Nel portare avanti le sue critiche gli anni seguenti, rimprovera loro di aver concepito delle teorie (in particolare quelle sulla differenza culturale e l’etnicità) che, a suo avviso, hanno causato la caduta del movimento della British Black Art [xxii].

Il tono e il contenuto delle critiche di Araeen, per quanto negativi, sono “sintomatici di un crescente disagio nei confronti della società contemporanea” [xxiii]. Queste contraddizioni risiedono, per esempio, nel divario tra la formulazione di teorie radicali e la loro effettiva applicazione pratica all’interno delle politiche istituzionali. Accusare i teorici per un uso improprio delle proprie teorie sprofonda nella fantasia di considerarli come “i custodi della cultura contemporanea” [xxiv]. In realtà, sotto questa fantasia si nasconde una domanda fondamentale: cosa ci aspettiamo dalla teoria e dai teorici?

Louis Aragon, installazione di arte precoloniale (sinistra), feticci europei (centro) e giocattoli coloniali e chincaglieria (destra), immagini della contro-esposizione surrealista “La Verità sulle Colonie”, Parigi, 1931, tratta dal testo di Adam Jolles, The Curatorial Avant-garde. Surrealism and exhibition Practice in France, 1925 – 1941, Pennsylvania State University Press, 2013.

Questa domanda è rilevante per riconoscere che non possiamo affidarci solo alla teoria per costruire nuove metodologie e/o pratiche. La teoria è uno strumento che può essere usato per giustificare determinate scelte e orientamenti, ma non è autosufficiente. Come rendere effettive le teorie all’interno del museo? Come trasporre le teorie in pratica? Un gruppo di studiosi, artisti e attivisti riuniti intorno al Transnational Decolonial Institute (TDI) si propone di “affrontare criticamente la tradizione occidentale dell’‘arte’ (…) e i suoi aggiornamenti postmoderni e altermoderni” [xxv]. Nel 2011, il gruppo ha firmato il “Decolonial Aesthetics Manifesto” e da allora ha lavorato per la “cura della ferita coloniale” [xxvi], che richiede un lavoro e un impegno collettivi. Tuttavia, le attività del TDI (per lo più conferenze internazionali) non sono molto diffuse e hanno difficoltà a inserirsi nelle istituzioni artistiche per agitarle.

Come ha chiarito Sarat Maharaj, trovare una cura per la ferita coloniale è un compito difficile. Lo stesso ha identificato un postcolonial pharmakon, al contempo “veleno e rimedio” per curare i binarismi, e una postcolonial panacea che potrebbe rappresentare una strategia d’inversione delle relazioni di potere [xxvii]. Pertanto, il pharmakon e la panacea sono in conflitto. Ribaltando le relazioni di potere, la panacea ricrea un sistema binario che il pharmakon cerca in seguito di contrastare, attivando un circolo vizioso infinito. Quanto detto è stato dimostrato durante la terza Triennale di Guangzhou nel 2008, dove i curatori (un team che includeva Sarat Maharaj), nel tentativo di rovesciare le relazioni di potere postcoloniale, hanno alla fine prodotto dei binarismi controproducenti: Asia vs. Occidente, postcolonialismo vs. “post-postcolonialismo”.

Pertanto, se la teoria dovrebbe essere adoperata con cautela, poiché può essere distorta o aumentare un fallimento, in che modo si può decolonizzare concretamente una collezione d’arte? Da dove iniziare? Quali sono i problemi concreti che le istituzioni stanno affrontando?

 

Aspetti empirici

Adottare un approccio decolonizzato della collezione, vale a dire un punto di vista decentrato e non eurocentrico, non è privo d’insidie. Nell’ambito delle politiche di acquisizione, i programmi sono elaborati considerando un raggio d’azione più ampio, geograficamente parlando, per essere il più inclusivo possibile. I dipartimenti rivolti alle aree non occidentali, di solito assegnati a un curatore della regione dedicata, sono creati per sviluppare ricerche che includono indagini di mercato.

È interessante notare che l’ex direttore della Tate Modern, Chris Dercon, ha legittimato il fatto acquistando arte in zone geografiche dove ancora il mercato occidentale non è arrivato (come il Medio Oriente o il Sud-Est Asiatico), come una conseguenza della sproporzione tra il budget del museo e l’incremento dei prezzi di mercato [xxviii]. Darcon non è stato disonesto affermando ciò, ma ha dimenticato di far luce sulla posizione occupata dalla Tate. Per un museo europeo, collezionare arte dalla maggior parte dei paesi del mondo potrebbe essere letto come il mantenimento di un’attitudine colonialista di saccheggio di altre culture per arricchire la propria.

Nell’era della globalizzazione, i musei sono colpiti da un paradosso: da un lato, il bisogno di far evolvere le loro funzioni e le loro politiche verso un revisionismo geopolitico informato dalle prospettive postcoloniali e decoloniali, dall’altro il rischio d’imporre una nuova espressione geo-estetica del modello occidentale e perpetuare il colonialismo culturale [xxix]. Ad esempio, se non si fa attenzione al modo in cui le opere non occidentali sono acquisite dai musei occidentali, tra qualche decennio non avremo alcuna protezione in termini di restituzione delle opere d’arte moderna e contemporanea [xxx]. La Tate Modern cerca di risolvere parte del problema organizzando scambi curatoriali internazionali e partnership con organizzazioni locali a Kabul, Lagos o Amman [xxxi].

Gli scambi internazionali e le partnership con le banche sono invece la soluzione individuata dal Guggenheim per realizzare la Guggenheim UBS MAP Global Art Initiative (2012-2017), che ha promosso interazioni interculturali e scambi tra artisti, curatori e pubblici tramite mostre, programmi educativi, attività online, creazione di collezioni [xxxii]. Questo progetto si concentra su tre grandi regioni, per le quali sono stati nominati degli esperti d’arte originari di ciascuna di esse: June Yap per l’Asia del Sud e del Sud-Est, Pablo León de la Barra per l’America Latina e Sara Raza per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Nonostante la volontà di assumere una portata globale, il progetto esclude in modo radicale i paesi subsahariani. Quest’omissione è stata giustificata come segue: “Il Medio Oriente e l’Africa del Nord condividono un lignaggio che li rende un’area d’interesse per questo progetto più logica che la gran parte del continente africano, specialmente in termini di sviluppi artistici” [xxxiii]. Quest’argomento, rafforzato implicitamente dall’idea che la cultura araba avrebbe raggiunto un livello più alto di sviluppo rispetto alle culture dell’Africa nera, coincide con la persistenza dell’assimilazione dell’Africa a un “cuore di tenebra” [xxxiv], una questione ricorrente sin dagli anni ’90 in molte discussioni sull’arte contemporanea africana, che intendono risolvere la separazione Nord/Sud del continente africano.

Ricostruzione della sala dedicata all’Arte Negra della Biennale di Venezia del 1922, nella mostra Il cacciatore bianco. Memorie e rappresentazioni africane, a cura di Marco Scotini, FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano, 2017.

Documenti esposti nella sezione “Arte Negra alla Biennale di Venezia del 1922”, nella mostra Il cacciatore bianco. Memorie e rappresentazioni africane, a cura di Marco Scotini, FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano, 2017.

Oltre alle giustificazioni culturali e artistiche, l’espulsione dell’area meridionale del continente africano potrebbe essere ulteriormente interpretata attraverso il prisma economico di potenziali partnership, che per UBS sembra essere più allettante (promettente?) nel Medio Oriente piuttosto che in Senegal o nella Repubblica Democratica del Congo. Questo ci fa capire quanto la partnership con una banca definisca la politica del museo in termini di collezione, esposizione e educazione [xxxv]. Inoltre, il fatto che UBS sia il principale partner del progetto fa sì che il Guggenheim sia legato al capitalismo e alle pratiche finanziarie ambigue, come il coinvolgimento della banca svizzera negli scandali finanziari del 2008. È sorprendente che il nome della banca sia così prominente nel titolo, conferendo all’intero progetto un aspetto finanziario. Come ha scritto Reesa Greenberg:

Il termine denaro privato risuona perché in molte sfere del mercato dell’arte, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, il denaro privato è percepito come negativo, persino malevolo, sia perché la speculazione finanziaria è vista come la causa della continua dilatazione del mercato dell’arte, sia perché l’eccessiva ricchezza dell’1% ha ancora una volta trasformato il mondo dell’arte in un campo da gioco privilegiato per i super ricchi, dove le opere d’arte funzionano come beni di lusso. [xxxvi]

Se essere coinvolti in questo progetto filantropico è uno dei modi con cui UBS ripristina la propria immagine, sembra, pertanto, con il pretesto di promuovere l’arte, di costituire una nicchia in cui sviluppare altri investimenti finanziari e partnership e, a partire dalla quale, espandere le proprie attività a livello globale. Rispondere a queste ipotesi richiederebbe maggiore ricerca.

Secondo Joaquín Barriendos Rodríguez, il concetto di arte globale, presumibilmente sinonimo di apertura, inclusione totale e libera circolazione di beni e persone, è tuttavia l’espressione della colonialità del potere [xxxvii]. Pertanto, è necessario osservare sia il modo in cui i musei acquisiscono opere d’arte da tutto il mondo, sia le partnership finanziarie nelle quali sono contraenti per adempiere questo compito. Data l’assenza di finanziamenti pubblici, i musei devono rivolgersi al settore privato per ottenere un appoggio economico al loro progetto. Ma a quale prezzo? Nell’articolo “Making Museums Moral Again”, il critico d’arte Holland Cotter ha precisato come:

“Alcuni musei (il MET, il Guggenheim) sono stati invitati a non ricevere più denaro da società eticamente ambigue o da risorse personali, inclusi i membri del consiglio che negano che il cambiamento climatico sia in corso. Altri, invece, sono stati sfidati a tollerare, se non a sostenere attivamente, le condizioni di lavoro disumane, come quelle imposte ai lavoratori migranti per costruire nuove sedi del Guggenheim e del Louvre ad Abu Dhabi” [xxxviii].

Consapevoli del ruolo svolto dal colonialismo nella genesi del capitalismo, è necessario trovare soluzioni per decolonizzare i finanziamenti e puntare a una maggiore orizzontalità negli scambi Sud/Nord.

Le collezioni “riguardano sia i nostri fallimenti sia i nostri successi. Rappresentano le relazioni tra le cose e le idee, tra l’eredità del significato e la sua cancellazione nel tempo” [xxxix]. Quindi, oltre a trovare finanziamenti etici per non riprodurre la colonialità del potere, i musei devono definire i termini della loro collezione e per questo, forse, guardare alle loro carenze e fare un lavoro introspettivo per capire come affrontarle. Ad esempio, il Museo Stedelijk e il Centre Pompidou hanno organizzato di recente una mostra delle loro collezioni per affrontare questi problemi [xl].

Allo Stedelik Museum, lo scopo era di capire se il museo “riflette la realtà geopolitica del mondo” [xli]. Dopo aver rivisitato le opere d’arte provenienti dall’Africa, dall’America Latina, dall’Asia e dal Medio Oriente presenti nella collezione, l’analisi prendeva in considerazione la marginalità della rappresentazione dell’ “arte proveniente dalle aree al di fuori dell’Europa (soprattutto Europa Occidentale) e dell’America del Nord (gli Stati Uniti). (…) Di per sé, non è una novità” [xlii]. In un suo saggio, Jelle Bouwhis, il curatore di How Far How Near – The World in the Stedelijk (19 settembre 2014 – 1 febbraio 2015), ha ripercorso la storia delle mostre tenutesi presso lo Stedelijk dal 1930 e che includevano arte non occidentale [xliii]. Da oggetti provenienti dalla Papua Nuova Guinea e dall’Africa, esposti accanto a opere di artisti moderni europei, alla fotografia africana passando per l’arte sudamericana, la storia delle mostre dello Stedelijk rivela l’influenza del “Soft Power” [xliv] sul museo. In questo contesto, il Soft Power deve essere inteso come la possibilità per l’arte moderna di “rappresentare una nozione ultima di libertà e coltivare forme di esclusione (geograficamente motivate)” [xlv]. Questo spiega perché le mostre di artisti sudamericani o di artisti sudafricani potevano essere organizzate allo Stedelijk, senza però ricevere “un seguito, semplicemente perché i lavori presentati erano difficili da inserire nel paradigma dell’arte moderna” [xlvi].

All’inizio del XXI secolo, lo Stedelijk ha adottato una strategia diversa, istituendo programmi a lungo termine come: Project 1975: Contemporary Art and the Postcolonial Unconscious o Global Collaborations, per sviluppare partnership con istituzioni artistiche in Africa, Medio Oriente e Sud Asia, attraverso mostre, residenze, scambi, collaborazioni ecc. Inoltre, lo Stedelijk ha iniziato ad acquisire opere prodotte (o selezionate) per le mostre realizzate durante questi programmi, costruendo gradualmente una collezione che riflette in modo accurato la transizione del museo verso una maggiore inclusione di artisti non occidentali. How Far How Near ha presentato alcune di queste opere, come quelle di Meschac Gaba, Abdoulaye Konaté e Billie Zangewa, facendo prova di un grande interesse per gli artisti del continente africano.

Al Centre Pompidou, la storia è molto diversa. Une histoire: art, architecture et design, des années 80 à aujourd’hui a cura di Christine Macel era una mostra sulla collezione, quasi simultanea a quella tenutasi ad Amsterdam (2 luglio 2014 – 11 gennaio 2016). Ha poi viaggiato presso la Haus der Kunst di Monaco con un titolo leggermente diverso: A History: Contemporary Art from the Centre Pompidou (25 marzo – 4 settembre 2016). Con oltre 400 opere esposte, l’obiettivo della mostra era mostrare l’ampiezza della collezione piuttosto che rivalutarne difetti e mancanze. A differenza della mostra dello Stedelijk, che è stata un’introspezione critica, la dichiarazione della curatrice dimostra che l’obiettivo era quello d’iscrivere l’approccio del Centre Pompidou nel discorso classico sulla globalizzazione del mondo dell’arte (a partire dal 1989, il fenomeno delle biennali, ecc.) e non di rivalutare le insidie della collezione nei confronti di questa storia [xlvii]. Nonostante Macel affermi quanto segue: “considerando l’impossibilità di tenere traccia dell’intero sviluppo mondiale dell’arte, è stata fatta una selezione mirata invece di fissare obbiettivi di totalità” [xlviii], le aree non occidentali, in particolare la parte subsahariana del continente africano, sono tuttavia sottorappresentate nella collezione [xlix]. È stato quindi sorprendente scegliere una fotografia di Samuel Fosso (La Femme américaine libérée des années 70, 1997, acquisita nel 2004) per illustrare il comunicato stampa inviato da e-flux, così come l’annuncio sul sito del Haus der Kunst. Pertanto, Macel si è interrogata su: come affrontare il concetto di arte globale dalla prospettiva di una collezione e come risolvere il problema della ricontestualizzazione di un’opera d’arte? Qualsiasi museo cosiddetto buono e che si rispetti ha bisogno di possedere alcuni “standard di base” di una storia dell’arte (globale) nella sua collezione?

Al contrario, in Cina, i musei di nuova costituzione stanno acquisendo compulsivamente tele impressioniste. Quello che è ricercato non è la volontà di includere le avanguardie europee nel discorso della storia dell’arte cinese, quanto il valore d’uso di queste opere d’arte per attirare il turismo, seguendo la “logica economica imparziale [dicendo che] “Il ‘successo’ dei musei è determinato dal numero di visitatori che attraggono” [l]. Oltre alla posta in gioco del mercato, quali sono gli interessi epistemologici nel possedere questi capolavori? La domanda può essere rivolta a qualsiasi museo nel mondo che collezioni arte da un’altra parte del mondo, considerata commerciabile o esoticamente interessante (sceglierne uno). Sembra urgente ripensare il ruolo e la missione dei musei d’arte prima che il fenomeno della globalizzazione, conseguente a quello moderno, produca spazi e narrazioni omogeneizzate, dove sarà possibile osservare lo stesso tipo di opere e di discorsi a Rio, a Houston, a Shanghai, a Londra o ad Abu Dhabi.

Modernità non allineata. Arte e Archivi dell’Est Europa dalla Collezione Marinko Sudac, a cura di Marco Scotini, FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano, 2017, veduta dell’esposizione.

Non-Aligned Modernity: Eastern-European Art and Archive, Marinko Sudac Collection, a cura di Marco Scotini, Ludwig Museum of Contemporary Art di Budapest, 2017, veduta dell’esposizione.

Conclusioni

Per i musei occidentali d’arte moderna e contemporanea, il passaggio a un metodo decoloniale delle proprie pratiche di acquisizione è stato innescato non dalle Indipendenze, ma molto più tardi dal fenomeno della globalizzazione che ha accentuato gli squilibri e quindi ha richiesto politiche non eurocentriche. Gli esempi discussi mostrano come l’idea di decolonizzare le collezioni d’arte dei musei occidentali (implicando almeno due aspetti, teorico ed empirico) sia una questione molto complessa che richiede un’ulteriore considerazione. Tuttavia, questa sfida decoloniale non può limitarsi alle politiche di acquisizione e dovrebbe essere presa in considerazione nei diversi settori e dalle missioni dei musei, che si tratti di politiche di acquisizione rivolte ad artisti e ad aree non occidentali, di mostre su collezioni con nuove narrazioni, della programmazione di mostre temporanee di artisti prima emarginati o, più in generale, di politiche museali come il reclutamento di personale non occidentale / non bianco (non solo come guardie o addetti alle pulizie) o di programmi educativi specificamente orientati alla decostruzione di discorsi dominanti.

Il problema di capire come avere successo o come raggiungere una decolonizzazione dei musei (e delle loro collezioni) non può essere ridotto alla sola ricerca teorica di un rimedio che può essere applicato a qualsiasi museo − ogni museo ha una sua storia e quindi dovrebbe individuare la propria ricetta − né può solo fare affidamento all’acquisto di opere d’arte che dovrebbero correggere le narrazioni.

La battaglia probabilmente non sarà vinta fino a quando i musei non diventeranno spazi di “conoscenza senza potere”, [li] assumendo la piena responsabilità del proprio ruolo nella costruzione di narrative influenti che plasmano la storia dell’arte e, più in generale, la storia del nostro mondo, nelle nostre memorie collettive.

Traduzione di Roberta Garieri

 

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su On Curating (#35), Some Theoretical and Empirical Aspects on the Decolonization of Western Collections, disponibile on-line.

 

Marie-Laure Allain Bonilla ha conseguito un dottorato in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Rennes 2. È affiliata all’Università di Basilea, dove ha completato un post-dottorato e attualmente insegna nel dipartimento di antropologia sociale. È membro del collettivo Globalisation, Art et Prospective de l’INHA (Institut National d’Histoire de l’Art) di Parigi. Specializzata in storia delle mostre, la sua ricerca attuale si rivolge alle politiche di acquisizione dei musei nell’era della globalizzazione e alle possibilità di decolonizzare le pratiche istituzionali.

 

La rubrica Linee di fuga, a cura di Roberta Garieri, invita la scrittura a un andare e venire nella storia e nelle storie, sotto forma di articoli, traduzioni, recensioni e interviste. È uno spazio in cui è possibile tracciare delle prospettive di emancipazione e liberazione e dove disordinare le rappresentazioni sociali date. Come ambito sotto controllo, ci rivolgeremo all’arte e alla sua storia, agli/alle artisti/e, alle forme e agli spazi che li/le ospitano.

La storia dell’arte vuole qui essere osservata in relazione alla sua storia culturale, sociale e politica.

Roberta Garieri sta svolgendo un dottorato in storia dell’arte contemporanea presso l’Università Rennes 2 (Bretagna). Rivolgendosi alla riscrittura della dimensione reale e simbolica dell’esilio artistico cileno durante la dittatura, i suoi interessi di ricerca si aprono alle problematiche che derivano dai transfert culturali mondializzati in una direzione che privilegia una storia dell’arte connessa e l’incrocio di elementi geografici lasciati spesso distanti. Scrive per Hot Potatoes. Art, Politics, Exhibition Conditions, Critique d’art, Point Contemporain.

 

L’immagine di copertina è la rielaborazione di uno still da video tratto da Reassemblage, del 1983 di Trinh T Minh ha.

 

Note

[i] Vedi in particolare Aníbal Quijano, “Colonialidad y modernidad/racionalidad”, Perù Indigena 13, n. 29, 1992, pp. 11-21; Chandra Talpade Mohanty, Feminism without Borders: Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, Duke University Press, Durham, 2003; María C. Lugones, “Heterosexualism and the Colonial/Modern Gender System”, Hypatia, Vol. 22, n. 1, 2007, pp. 186-219; Walter Mignolo and Madina V. Tlostanova, Learning to Unlearn: Decolonial Reflections from Eurasia and the Americas, Ohio State University Press, Columbus, OH, 2012; Linda Tuhiwai Smith, Decolonizing Methodologies: Research and Indigenous Peoples, Zed Books, London/Dunedin, 1999; Ramón Grosfoguel, “The Epistemic Decolonial Turn”, Cultural Studies, Vol. 21, n. 2-3, 2007, pp. 211-223.

[ii] Ramón Grosfoguel, “The Epistemic Decolonial Turn”, p. 212.

[iii] Ibid.

[iv] “Introduction”, in L’Internationale Online ed., Decolonising Museums, 2015, p. 5. Consultato a gennaio 2016, http://www.internationaleonline.org/bookshelves/decolonising_museums.

[v] Dipesh Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton, NJ, 2000.

[vi] Monica Juneja, “Global Art History and the ‘Burden of Representation’”, in Hans Belting, Jacob Birken, Andrea Buddensieg, Peter Weibel ed., Global Studies: Mapping Contemporary Art and Cultures, ZKM, Karlsruhe, Hatje Cantz, Ostfildern, 2011, p.282.

[vii] Ad esempio, Magiciens de la terre (1989) avrebbe cambiato a livello globale la storia delle mostre, ma qual è stato il suo impatto reale sulle politiche del Centro Pompidou? Questa è la domanda che bisogna porsi ora che si ha una certa distanza.

[viii] Frantz Fanon, “Concerning Violence”, in The Wretched of the Earth, trans. Constance Farrington, Grove Press, New York, 1963, p. 35.

[ix] Clémentine Deliss, “Materiality and the Unknown, Dating, Anonimity, the Occult”, in L’internationale Online ed., Decolonising Museum, p.34.

[x] ibid., p.33.

[xi] Holland Cotter, “Making Museum Moral Again”, New York Times, 17 Marzo, 2016. Consultato a marzo 2016. L’uso dell’avverbio “di nuovo” indica che i musei siano stati morali una volta. Quest’affermazione discutibile potrebbe essere oggetto di un intero articolo.

[xii] Vedi Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Península. Procesos coloniales y prácticas artísticas y curatoriales. Consultato a luglio 2016, http://www.museoreinasofia.es/pedagogias/centro-de-estudios/investigacion/peninsula

[xiii] Vedi gli atti pubblicati su L’Internationale Online. Consultato in gennaio 2016. http://www.internationaleonline.org/bookshelves/decolonising_museums.

[xiv] Vedi il programma completo qui: https://vanabbemuseum.nl/en/programme/programme/collections-in-transition-sold-out/

[xv] Vedi Marie-Laure Allain Bonilla, Visualiser la théorie. Usages des théories postcoloniales dans les pratiques curatoriales de l’art contemporain depuis les années 1980. Tesi di dottorato (storia dell’arte), Università di Rennes 2, 2014.

[xvi] Per maggiori dettagli, vedi il precedente articolo pubblicato sul tema: Marie-Laure Allain Bonilla, “Some Sketches for a Hypothetical Postcolonial Theories for Museum Handbook”, Qalqalah, n.1, 2015, pp. 51-63. Disponibile online: http://kadist.org/en/programs/all/2115

[xvii] Vedi gli atti pubblicati: Charles Green ed., Postcolonial + Art: Where Now?, Artspace Visual Arts Centre, Woolloomooloo, 2001.

[xviii] Rasheed Araeen, “A New Beginning. Beyond Postcolonial Cultural Theory and Identity Politics”, Third Text, n. 50, 2000, pp. 3-20.

[xix] Ibid., p. 8.

[xx] Ibid., p. 12.

[xxi] Ibid., p.11.

[xxii] Vedi: Rasheed Araeen, “Re-Thinking History and Some Other Things”, Third Text, n. 54, 2001, pp. 93-100; Rasheed Araeen, “The Success and the Failure of the Black Arts Movement”, Third Text, vol. 18, n. 2, 2004, pp. 135-152.

[xxiii] Nikos Papastergiadis, “Cultural Identity and Its Boredom: Transculturalism and its Ecstasy,” in Nikos Papastergiadis ed., Complex Entanglements: Art, Globalisation and Cultural Difference, Rivers Oram Press, London, 2003, p. 162.

[xxiv] Ibid., p.164.

[xxv] Vedi Transnational Decolonial Institute. Consultato luglio 2016. https://transnationaldecolonialinstitute.wordpress.com/about-2/.

[xxvi] Ibid.

[xxvii] Sarat Maharaj, “Sublimated with Mineral Fury: prelim notes on sounding Pandemonium Asia,” in Farewell to Post-Colonialism, The Third Guangzhou Triennial. Guangzhou: Guandong Museum of Art, Time Museum, 2008, p. 53. Catalogo della mostra.

[xxviii] Chris Dercon interviene durante la conferenza internazionale Les Clefs d’une passion tenutasi presso la Fondazione Louis Vuitton, Parigi, dal 12 al 13 giugno 2015.

[xxix] Vedi Joaquín Barriendos Rodríguez, “Geopolitics of Global Art: The Reinvention of Latin America as a Geo-Aesthetic Region,” in Hans Belting, Andrea Buddensieg eds., The Global Art World. Audiences, Market and Museums, Hatje Cantz, Ostfildern, 2009, pp. 98-116.

[xxx] Questa è una delle logiche di acquisizione portata avanti da alcuni collezionisti di arte africana contemporanea, come l’ex direttore esecutivo della Puma, il tedesco Jochen Zeitz, che ha collezionato arte africana contemporanea per circa vent’anni, con l’idea di presentarla in un museo specifico costruito sul continente e renderla così accessibile a un pubblico direttamente interessato. Il Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (Zeitz MOCAA) ha aperto nel settembre 2017 a Città del Capo. Non è il primo museo privato di arte contemporanea a Città del Capo. L’anno scorso, il collezionista Piet Viljoen ha inaugurato la New Church, che ospita la sua collezione d’arte del Sudafrica. Tuttavia, la collezione Zeitz supera i confini del Sudafrica ed è molto più grande. Inoltre, l’uomo d’affari congolese, Sindika Dokolo, sposato con la figlia del Presidente angolano, Isabel do Santos, sarebbe arrivato a possedere non meno di 5.000 opere d’arte. In attesa dell’apertura del proprio spazio per ospitare la sua collezione in Luanda, Dokolo l’ha presentata nel 2015 a Porto (Portogallo), dove vorrebbe stabilire la sua base europea. Lo stesso si batte anche per il rimpatrio dell’arte africana rubata durante la guerra civile angolana e il periodo coloniale.

[xxxi] Sono stati istituiti diversi programmi, come The Unilever Series: turbinegeneration, che coinvolge le scuole d’Inghilterra e di tutto il mondo per lavorare con la collezione della Tate o Level 2 Exchange Series, che collabora con strutture artistiche locali all’estero e aiuta a creare mostre.

[xxxii] Ad oggi, 125 opere sono state incluse nella collezione in una varietà di medium, riunendo 67 artisti delle aree selezionate. Vedi il sito del Guggenheim per maggiori informazioni: https://www.guggenheim.org/MAP. Consultato a luglio 2016.

[xxxiii] Estratto della dichiarazione del direttore dei Media e delle Pubbliche Relazioni, Betsy Ennis, come risposta data al giornale sudafricano online ArtThrob, che chiede perché la regione dell’Africa sub-sahariana sia stata esclusa dalla Guggenheim UBS Map Global Art Initiative. Il resto della dichiarazione così segue: “Le società del Nordafrica si vantano per i loro legami storici con la cultura e la lingua araba che risalgono alla conquista della regione da parte dei musulmani arabi nel VII e VIII secolo. Anche il Medio Oriente e il Nordafrica hanno condiviso il destino della sofferenza del dominio coloniale occidentale, soprattutto francese e britannico, dopo un’esperienza postcoloniale in cui l’Egitto ha preso l’iniziativa nel sostenere la retorica nazionale che si basava su un revivalismo culturale arabo all’inizio del XX secolo. Ci sono aspetti culturali comuni che continuano a unire gli stati nordafricani alle loro controparti in Medio Oriente. La lingua araba, e soprattutto la sua grafia, hanno un ruolo guida nella diffusione della coerenza politica e culturale. La lingua e la grafia erano strumenti particolarmente importanti per gli artisti della metà del secolo che utilizzavano la scrittura per creare un discorso visivo moderno unico. Gli artisti contemporanei continuano a esplorare queste storie ed eredità condivise”. Pubblicato online il 18 aprile 2012 da M. Blackman: ” Sub-Saharan Africa out in the Cold “, Artthrob. Consultato a maggio 2012 (non più disponibile). http://www.artthrob.co.za/News/Sub-Saharan-Africa-out-in-the-Cold-by-M-Blackman-on-18-April.aspx#.

[xxxiv] Vedi, per esempio, l’argomento di Olu Oguibe in “In the Heart of Darkness”, Third Text, n. 23, 1993, pp. 3-8.

[xxxv] Questo problema deve essere affrontato e richiede ulteriori ricerche che guardino da vicino i legami tra società private, banche e istituzioni artistiche.

[xxxvi] Reesa Greenberg, “Activist-Patron-Curators and North American Museums,” in Heidi Bale Amundsen, Gerd Elise Mørland ed., Curating and Politics. Beyond the Curator: Initial Reflections, Hatje Cantz, Ostfildern, 2015, p. 53.

[xxxvii] Joaquín Barriendos Rodríguez, ” Geopolitics of Global Art: The Reinvention of Latin America as a Geo-Aesthetic Region “, pag. 110. L’espressione “colonialismo del potere” è stata coniata dal sociologo e specialista politico Aníbal Quijano. Vedi: “Colonialidad y modernidad / racionalidad”.

[xxxviii] Holland Cotter, “Making Museums Moral Again”.

[xxxix] Clémentine Deliss, “Materiality and the Unknown, Dating, Anonymity, the Occult,” p. 24.

[xl] Più di 100.000 opere per il museo parigino e 90.000 per il museo di Amsterdam.

[xli] Jelle Bouwhis, “How Far How Near – The World in the Stedelijk,” in How Far How Near – The World in the Stedelijk. Amsterdam: Stedelijk Museum, 2014, p. 1. Catalogo della mostra.

[xlii] Ibid., p. 2

[xliii] Vedi Ibid., p. 1-16.

[xliv] Ibid., p.9.

[xlv] Ibid., p. 15.

[xlvi] Ibid., p.12.

[xlvii] Vedi la versione online inglese: Christine Macel, “A History”, Haus der Kunst. Consultato a luglio 2016. http://issuu.com/haus_der_kunst/docs/160418.hdk.essay.christine_macel/5?e=4227978/35159290.

[xlviii] Christine Macel, “A History”, p. 4.

[xlix] Per citare solo due esempi: Chéri Samba è l’unico pittore della parte subsahariana del continente africano a essere rappresentato nella collezione del Centre Pompidou, e solo cinque fotografi di quest’area sono rappresentati (Zanele Muholi, David Goldblatt, Guy Tillim, Malick Sidibé e Samuel Fosso).

[l] Mirjam Kooiman, “The Dutch Voc Mentality”, in Decolonising Museums.

[li] Trinh T. Minh-ha, Woman, Native, Other: Writing Postcoloniality and Feminism, Indiana University Press, Bloomington, IN, 1989, p. 41.

 

 

 

 

 

 

 

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