Exhibited bodies and bodies performance, conversazione con Pierre Bal-Blanc

di Chiara Lupi

«Sono interessato al teatro in relazione all’anti-teatro. Attraverso ciò che contraddice la teatralità delle organizzazioni, costruita solo sulle “facciate” per lasciare nel retro quello che c’è da nascondere. Questa per me è sempre stata una battaglia. Volevo decostruire il teatro per mostrare cosa ci fosse dietro. Quando in una società rappresenti una minoranza vieni relegato alla parte nascosta e non nella zona illuminata».

Franz Erhard Walther,  «1. Werksatz» 1963 – 1969. performance at CAC Brétigny, 2008.

Chiara Lupi: Nella tua ricerca curatoriale affermi una visione dell’esposizione come spazio mutevole e condizionato dall’inserimento del fattore temporale. A proposito di Collective Exhibition forSingle Body, curata per documenta 14, hai dichiarato “Life somehow invades the exhibition space”, in quanto hai inserito il “vivente” e le performance nella struttura espositiva. Quali sono per te i format espositivi possibili e come cambia la relazione dei corpi con essi?

Pierre Bal-Blanc: Vorrei partire da alcune considerazioni sul cambiamento della visione e le possibilità della percezione, prendendo in considerazione il teatro anatomico del Cinquecento come esempio di spazio dell’esibizione. Nel teatro anatomico il corpo è al centro e le persone attorno. La sua struttura è caratteristica del potere sovrano e Michel Foucault descrive questo potere come centrale, nelle mani dello Stato, del Re e con al vertice Dio. Per chi disobbediva c’era un’esecuzione pubblica, teatrale. Fino al XVIII secolo, il potere sovrano è stato il sistema che ha governato la società, le strade, l’architettura, la conoscenza e tutto questo ha sempre ruotato attorno a un paradigma teatrale.

La macchina teatrale è un modo per organizzare le cose.

Si pensi all’apporto che ha dato Sebastiano Serlio nel XV secolo con il suo trattato sull’architettura. Ha incentrato parte della sua ricerca sulle strutture di finzione come i fondali teatrali. Ha preso in considerazione tre tipi di scenografie del teatro romano, tragica, comica e satirica: differenti aspetti del teatro coniugati a una nuova esigenza di rappresentazione della realtà organizzati attraverso la prospettiva e elementi tridimensionali.

Il Teatro Anatomico di Padova è il più antico teatro anatomico stabile al mondo, voluto da Girolamo Fabrici d’Acquapendente nel 1594, Padova Universita degli Studi Palazzo Centrale,1921-1965.

Willem Isaacsz Van Swanenburg, Teatro anatomico Leiden (Museo Boerhaave), incisione su rame, 1612.

Il teatro anatomico è l’ultima architettura rappresentativa di questa visione. Il primo teatro anatomico è stato costruito a Padova nel 1594. Nel 1637 ad opera di Antonio Levanti ne viene edificato uno nell’Archiginnasio di Bologna per accogliere le classi dell’Università di Medicina. Era una sala dedicata allo studio dell’anatomia, a forma di anfiteatro, costruita in legno. C’era un tavolo centrale dove venivano posizionati i corpi e di lato la cattedra del docente. Sopra questa, a reggere un baldacchino, due statue di uomini nudi, privati di pelle, detti “gli spellati”.

L’intera stanza era costruita a strati, a pensarci un po’ come la pratica anatomica del sezionare. Questa struttura accoglieva sempre un atto performativo, che vedeva coinvolti i medici che esibivano allo stesso tempo la loro conoscenza e la perfezione del corpo umano. C’era un aspetto interessante. Il dottore non esercitava in prima persona il sezionamento dei corpi. Lo delegava agli assistenti. Questo permetteva una propagazione di conoscenza che dal dottore si spostava ai delegati e saliva sui gradoni del pubblico, che era osservatore e uditore.

Andreas Vesalius, De Humani Corporis Fabrica, trattato di anatomia, Basel, National Library of Medicine, 1543.

Andrea Vesalio ha scritto il De humani corporis fabrica che ha stampato in Basilea, per promulgare il più possibile la conoscenza sul corpo umano e il suo rapporto con la creazione. Le illustrazioni del trattato raffigurano spesso in primo piano la figura umana con alle spalle il paesaggio. È importante notare che la figura non abbia nulla a che vedere con il cadavere, ma viene spesso ritratto come vivente, perché in ogni caso è creazione divina. Dunque quando si parla di teatro anatomico è corretto pensare a una trasmissione di conoscenza spettacolarizzata e a una serie di elementi connessi tra loro dalla creazione di Dio.

 

Hieronymus Fabricius, Teatro Anantomico di Padova, 1595.

Nel teatro anatomico tutti gli esseri viventi si allineano: le diversità dei corpi umani o animali vengono posti su un stesso piano, con una nudità che cancella qualsiasi differenza gerarchica tra specie, entrambi potenzialmente dissezionabili e lasciati allo sguardo dell’osservatore.

Nel XIX secolo avviene un cambio di paradigma e sempre Foucault individua il panottico come architettura rappresentativa del regime disciplinare.

Pensiamo al Presidio Modelo di Cuba. In questo caso, la struttura rispetto al teatro anatomico è ribaltata. Il panottico è l’esatto opposto. Il corpo non è più al centro, ma ci sono più corpi, ognuno nella sua cella. I corpi diventano oggetti passivi per essere ordinati e disciplinati dalla norma. Tutta l’architettura dopo la rivoluzione francese è costruita su questa divisione. La scuola, le prigioni, gli ospedali e anche la città, si veda quello che ha fatto Haussmann con il suo piano di ristrutturazione della città di Parigi durante l’impero napoleonico. Considero anche il British Museum un esempio emblematico di panottico: immediatamente dall’ingresso del palazzo neoclassico, si vede al centro ergersi la libreria, una sorta di torre di controllo che organizza la conoscenza in diverse sezioni, scaffalature, il tutto ordinato secondo un tempo storico. Questo è fondamentale per l’ordine di disciplina: normare lo spazio e tempo attraverso una compartizzazione.

Noi viviamo in un regime di biopolitica.

“Of museum orgy or mixed omnigamy in composite and harmonic order” di Pierre Bal-Blanc, Project Phalanstère, CAC Brétigny, 2017.

Le Courbusier è la figura attraverso cui vorrei parlare del passaggio dal regime di disciplina a quello di biopolitica. Era solito portare con sé dei taccuini. Nel 1910 fece un lungo viaggio dalla sua città fino a Gerusalemme (Voyage d’Orient 1910-1911). Ci sono stati due momenti salienti durante il percorso: uno ad Atene, nell’Acropoli, e il secondo in Piazza dei Miracoli a Pisa. Queste due tappe hanno cambiato l’intera architettura moderna. Ad Atene Le Courbusier ha avuto la possibilità di campeggiare per circa venti giorni vicino all’Acropoli e questo gli ha permesso di osservare più volte e in momenti diversi il sito archeologico. Annotò che il modo in cui l’architettura era struttura era illogico. Lui era in cerca della logica. Alla fine comprese che questa architettura era stata progettata per essere vista “in movimento” perché il movimento stesso diventava parte della composizione. Nessuna delle sue componenti era stata progettata per essere vista solo frontalmente, come in teatro o attraverso l’espediente prospettiva centrale rinascimentale. Non c’era nessuna facciata regolare e simmetrica su cui l’occhio poteva soffermarsi. La stessa cosa gli è accaduta a Pisa, in quella composizione di diversi elementi che è Piazza dei Miracoli. Gli edifici sono dislocati in differenti punti e l’occhio deve fare un’operazione di montaggio, esattamente come in un film. Dopo questo viaggio, Le Courbusier è diventato pioniere della Plan libre nella progettazione degli spazi. Decide di abbandonare la lunga tradizione di piante architettoniche rigide e fisse. Le nuove tecniche di costruzione gli permisero di contestare le norme e di non obbedire più all’obbligo del muro portante e delle finestre. Da quel momento si è iniziato a aprire gli spazi, a immaginare muri di vetro e a posizionare elementi ovunque si volesse. Il vetro ha costituito una svolta rispetto al passato, un qualcosa che ha completamente rivoluzionato il modo di pensare. E non solo in campo architettonico. Le Courbusier è stato in grado di combinare questa rivoluzione tecnica all’esperienza della composizione di elementi sperimentata nell’Acropoli o in Piazza dei Miracoli a Pisa. In questo modo ha dato inizio a un modo di comporre non legato alla simmetria e alla prospettiva, ma visivamente, attraverso il percorso dello sguardo passando da un’immagine all’altra. Quello che ha capito Le Courbusier è che si poteva costruire un edificio attraverso il montaggio di elementi che lo sguardo catturava. Nella Plan libre, “l’interno” e “l’esterno” perdono il loro valore, proprio come il genere non ha più valore e ogni cosa è fluida dentro il potere biopolitico in cui siamo immersi. Gli stessi corpi subiscono una modificazione e vengono riposizionati all’interno della Plan libre.

Collective Exhibition for a Single Body, a cura di Pierre Bal-Blanc, in collaborazione con il coreografo Kostas Tsioukas e i performers Myrto Kontoni, Tassos Koukoutas. Commissionata da documenta 14, co-produzione Kadist, Kontakt. The Art Collection of Erste Group, Atene, 2017.

Collective Exhibition for a Single Body, in collaborazione con il coreografo Kostas Tsioukas e i performers Myrto Kontoni, Tassos Koukoutas. Commissionata da documenta 14, co-produzione Kadist, Kontakt. The Art Collection of Erste Group, Atene, 2017.

CL: Quindi con la possibilità di togliere i muri e aprire gli spazi, con la Plan libre si è eliminata la prerogativa di funzionalità di una struttura. Questo significa cancellare anche una classificazione binaria di genere al suo interno e avere le condizioni per uno spazio queer?

PB-B: Esattamente. Non voglio dire che il sistema sovrano e disciplinare siano spariti. Sono rimasti nelle istituzioni. Ma si è aggiunta la condizione della biopolitica e di conseguenza ognuno di noi viene riposizionato e si riposiziona in una maniera diversa nella Plan libre.

Il teatro anatomico, il panottico e la Plan libre sono a mio parere tre paradigmi, tre possibilità per costruire la narrativa di un’esibizione.

Si può optare per una forma più tradizionale e teatralizzata d’esposizione, si possono scegliere delle strutture molto disciplinate, come quelle del XIX secolo o si può optare per una “pianta aperta”, che non obbedisce più agli schemi precedenti. Questa analisi è importante per capire da dove nasce la logica del display. Non è rilevante quale paradigma si scelga, ma è necessario essere cosciente del display in cui vivi o quello che andrai a creare.

Driftwood Village – Community, Sea Ranch, CA. Experiments in Environment Workshop, July 6, 1968. Courtesy Lawrence Halprin Collection, The Architectural Archives, University of Penn.

Driftwood Village – Community, Sea Ranch, CA. Experiments in Environment Workshop, July 6, 1968. Courtesy Lawrence Halprin Collection, The Architectural Archives, University of Penn.

CL: All’interno di queste tre tipologie di formato espositivo dove si situano gli spettatori (o il pubblico)?

PB-B: Questi tre paradigmi producono differenti soggettività negli spettatori. Il teatro obbliga la persona a una visione fissa e frontale dal proprio posto a sedere. Invece nello schema disciplinare ci si muove all’interno di un percorso a compartimenti, inserito nel tempo storico, in cui non si può né rompere né modificare la continuità del percorso. La struttura biopolitica rompe con le precedenti forme e propone esperienze simultanee. Questo è quello che cerchiamo di fare di più oggi nei nuovi musei. Un testo chiave che si riferiva a questo cambiamento è The cultural logic of the Late Capitalist Museum di Rosalind Krauss. È stato scritto negli anni Novanta ma lo si può riprendere in considerazione anche ora. La Krauss non parla propriamente di biopolitica ma di “museo temporaneo”, ovvero di quel museo guidato dalla logica dello spazio e dell’evento, in cui l’esperienza si sviluppa in ogni direzione.

A partire dalla mia esperienza di Documenta 14 con Collective Exhibition for a Single Body ho scritto un contributo che non è ancora stato pubblicato ma che dialoga molto con quello della Krauss. Inoltre il suo testo ha analizzato un passaggio importante a cui abbiamo assistito: la nascita di fondazioni sempre più private e del progetto di Thomas Krens di museo come brand globale. Penso a Suzanne Pagé che ai tempi della pubblicazione del testo della Krauss era direttrice del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. La Krauss aveva avanzato un’analisi sul futuro del museo a partire dalla collezione minimalista di Villa Panza, prendendo in considerazione il ruolo che Pagé rivestiva in quel momento per fare un prognostico sul futuro. Ora, come in una profezia, Suzanne Pagé è passata ad essere la direttrice del Louis Vuitton Fondation for Creation di Parigi.

Driftwood Village – Community, Sea Ranch, CA. Experiments in Environment Workshop, July 6, 1968. Courtesy Lawrence Halprin Collection, The Architectural Archives, University of Penn.

Driftwood Village – Community, Sea Ranch, CA. Experiments in Environment Workshop, July 6, 1968. Courtesy Lawrence Halprin Collection, The Architectural Archives, University of Penn.

CL: Stai dicendo che siamo di fronte a una crisi delle strutture pubbliche?

PB-B: Sicuramente, i musei e le istituzioni artistiche nell’era biopolitica subiscono una frequente transizione da pubblico a privato. Il Louvre è passato da essere di proprietà dello Stato a Établissement Public Autonome. Per accedere alla conoscenza si deve pagare un ingresso di 15 euro. Perché le istituzioni devono fare diventare il pubblico un consumatore piuttosto che dei cittadini che riconoscono il valore dell’Arte? Sia Tony Benett (The exhibitionary complex) che Agamben (Che cos’è un dispositivo?) hanno veramente espresso e mostrato la relazione tra il dispositivo e la produzione di soggettività. Se ogni dispositivo produce una soggettività, la vera questione da porre rispetto a una fondazione privata o pubblica dovrebbe essere: qual è la mia soggettività quando vado a Fondazione Prada? Sono un acquirente delle borse griffate Prada, sono un cittadino di Milano o di qualsiasi altro posto? Chi e cosa sono? Questo è il punto. Attraverso Documenta abbiamo cercato di mostrare la crisi delle strutture pubbliche e degli spazi, in risposta alla crescita delle istituzioni o fondazioni private, e il perché queste ultime hanno cambiato le modalità di accesso e la condivisione dell’arte contemporanea. Cosa condividi quando vai alla Fondazione Pinault? Non credo che le fondazioni siano consapevoli di quello di cui stiamo discutendo. Sono cieche ma brillanti teatri. Ecco perché bisognerebbe dubitare di ogni esibizione per essere messa in discussione. Ci dobbiamo chiedere qual è l’ideologia dietro? A un museo pubblico si chiede di condividere cultura per tutti e non solo per pochi. Nelle strutture private invece c’è un interesse per il brand. Vanno attirate le persone, intrattenute per fare con loro il solito business. Ho scritto un articolo sullo Springerin magazine a proposito di questo, sulle istituzioni dell’arte. La trasparenza non è facile in questi posti. Lafayette Foundation è un vero museo biopolitico: a partire dai piani, dalla trasparenza, gli studio di design, fashion connessi al dipartimento d’arte. In quale maniera possono trattare argomenti che possono risultare contradditori rispetto al loro business model?

Si può parlare in maniera pretestuosa di arte e bellezza tutto il tempo per poi venderla. Cosa è possibile fare in queste istituzioni private e cosa no? Non voglio dire che l’istituzione pubblica sia migliore. Sono contesti diversi e si dovrebbe essere consapevoli delle condizioni per entrambi i posti. Gli artisti nelle fondazioni private sono “assunti” o invitati? Parlo di assunzione perché quante volte gli artisti sono costretti a rappresentare il volto di una campagna pubblicitaria del brand.

È qualcosa di estremamente interessante anche a proposito di biopolitica e del network: la colonizzazione dello spazio reale attraverso il linguaggio della comunicazione. Questo obiettivo ha richiesto molto tempo per essere raggiunto. Ma è quello che possiamo vedere oggi attorno a noi anche fuori dal campo dell’arte: Uber, Airbnb…prima era impensabile che il capitalismo si insidiasse nelle nostre vite a tal punto. Prima era pura fantasia, ma in realtà paghiamo cose apparentemente gratuite attraverso la produzione di dati che forniamo. Google acquista potere perché crea connessioni tra le persone, le controlla e gestisce lo scambio di informazioni.

Collective Exhibition for a Single Body, documenta 14, Archaeological Museum of Piraeus, Atene, 2017.

Collective Exhibition for a Single Body, documenta 14, Museum fur Sepulkralkultur, Kassel, 2017.

CL: Riguardo al teatro anatomico, quando hai utilizzato la sua struttura in una tua mostra?

PB-B: Mi viene in mente come primo esempio la mostra di Marcello Maloberti che ho curato per la Galleria Raffaella Cortese. Nella serata di inaugurazione la forma che il pubblico ha assunto per assistere alla performance, Il Cicerone, era quella del teatro anatomico. Quando si riesce a creare un centro nell’organizzazione della performance, e questo non significa che ci debba essere solo un unico interprete, le persone si dispongono spontaneamente in un teatro anatomico. Con Marcello abbiamo articolato una geografia del corpo che ha influenzato l’intera geografia dello spazio dell’arte.

In Collective Exhibition for a Single Body, che ho curato per Documenta 14, (ndr. strutturate in due episodi espositivi uno di natura performativa ad Atene e uno di carattere documentario a Kassel) non si è mai creata un’unica centralità. Avevo posizionato i performer, “gli osservati”, al centro del mio teatro ma il pubblico non era “unico”: non c’era solo il pubblico di Documenta. C’erano visitatori venuti come turisti per vedere l’Archaeological Museum of Piraeus o come studiosi di arte antica. Erano lì per i reperti archeologici. Mentre il pubblico di Documenta cercava gli “spettacoli” (shows). C’era un doppio livello all’interno dello spazio e quindi anche un’interazione eterogenea con esso.

In La Monnaie Vivante (The living currency) ho cercato di decostruire una visione centrale. Di alcune performance si poteva avere solo una visione indiretta. Questo è quello che considero indisciplinare e fluido. Io mi sono allontanato dal palcoscenico frontale del teatro e dalla sua fissità di visione. Abbiamo utilizzato un approccio cinetico, in cui le performance erano mostrate una in successione all’altra. Mi sono allontano anche dal museo disciplinare e dalla sua narrazione storica, perché condiziona il percorso e i tuoi movimenti. 

Dan Graham, Performer Audience Mirror, 1977.

Dan Graham, Performer Audience Mirror, 1977.

CL: Recentemente hai partecipato come relatore, insieme all’artista e coreografo Manuel Pelmuş, a Večer s WHW Akedemijom, primo evento pubblico dell’Accademia fondata dal collettivo curatoriale WHW a Zagabria. In quell’occasione hai presentato il tuo lavoro per documenta 14, Collective Exhibition for a Single Body e un work in progress della nuova versione del progetto chiamato The Kontakt Collection Score, in preparazione della sua prima viennese che si terrà quest’anno in collaborazione con Tanzquartier Wien. Quando le WHW hanno curato l’11th Istanbul Biennial nel 2009 hanno scelto come titolo What Keeps Mankind Alive? Una questione presa dalla canzone di chiusura del secondo atto dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, scritta esattamente ottanta anni prima. Mi piacerebbe sapere qual è il tuo rapporto con il teatro?

PB-B: Non ho una formazione propriamente attoriale, a parte l’esperienza che ho fatto al college. Mi è molto piaciuto e mi ricordo ancora com’è stato recitare Molière. Sono stato il migliore della classe a recitarlo. Ma è stato poco prima di diventare adolescente. Ero ancora un bambino. La scuola è estremamente normativa, estremamente organizzata in base al sesso e penso di aver avuto uno shock quando si è trattato di rispondere a un’identità. In quel momento ero confuso e ora so perché, sono gay e tutto è probabilmente nato da una mia insofferenza nel rientrare nei parametri prestabiliti. Non era il mio mondo. Me ne sono sentito tagliato fuori ed è stato da quel momento che mi sono “appassionato” di verità, doveva essere prerogativa di vita. Se la società non mi riconosceva, io mi sarei battuto contro le ipocrisie e da quel momento ho rifiutato il teatro, inteso come spazio della finzione e della menzogna.

La Monnaie Vivante / The Living Currency / Die lebende Münze, after Pierre Klossowski, staged by Pierre Bal-Blanc for the 6th Berlin Biennale 2010, HAU. Photo: Uwe Walter.

Mi sono fatto guidare da esempi di realismo e di strategia anti-teatrale della pittura del XIX secolo, in cui si voleva toccare la realtà delle persone, anche delle classi più umili e non fare una mitologia della borghesia. Tutta la storia dell’arte è stata fatta per partecipare al posizionamento del re, di Dio e delle classi agiate. Ma nel XIX secolo è sorta l’esigenza da parte di artisti di rappresentare la vita reale. Gustave Courbet, Greuze, Chardin affermavano una critica al manierismo, alla teatralizzazione e alla pittura teatralizzata. Nel 1855 la giuria dell’Esposizione Universale rifiutò il dipinto L’atelier del pittore e Courbet in risposta ha allestito una mostra di quaranta quadri in un edificio fatto costruire a sue spese, il Pavillon du Réalisme, in rue Montaigne, nei pressi dell’Esposizione. Per me questo è un momento significativo. Da quel momento si è iniziato a includere persone reali nei dipinti, cosa che prima era riservata solo a persone di un certo status sociale.

La Monnaie Vivante / The Living Currency / Die lebende Münze, after Pierre Klossowski, staged by Pierre Bal-Blanc for the 6th Berlin Biennale 2010, HAU. Photo: Uwe Walter.

Sono interessato al teatro in relazione all’anti-teatro. Attraverso ciò che contraddice la teatralità delle organizzazioni, costruita solo sulle “facciate” per lasciare nel retro quello che c’è da nascondere. Questa per me è sempre stata una battaglia. Volevo decostruire il teatro per mostrare cosa ci fosse dietro. Quando in una società rappresenti una minoranza vieni relegato alla parte nascosta e non nella zona illuminata.

CL: Quando parli di anti-teatro penso tu faccia riferimento a Bertold Brecht che è riuscito a rompere questa facciata e a dare luce alle parti in ombra, è così?

PB-B: Sì, il mio approccio anti-teatrale fa riferimento a Brecht. È riuscito a rompere la sintassi dello spettacolo, per mostrarne l’artificio. Lo stesso Jean-Luc Godard con la Nouvelle Vague. Il modo in cui loro mostrano la realtà è veramente un modo che ho voluto portare dal teatro all’arte contemporanea per organizzare i miei progetti espositivi. Devo molto a questi esempi. Tutti i miei progetti sono legati a questo.

La Monnaie Vivante / The Living Currency / Die lebende Münze, after Pierre Klossowski, staged by Pierre Bal-Blanc for the 6th Berlin Biennale 2010, HAU. Photo: Uwe Walter.

CL: E cosa rimane invece della struttura di finzione e di “teatricalità”?

PB-B: Rimane una sorta di dialettica tra finzione e realtà, perché di sicuro tutto è in un certo senso finzione e anche Michel Foucault ha detto “Je viens d’écrire une fiction”. Foucault oltre che essere stato un grande pensatore è stato anche un grande scrittore. Non so come sia tradotto in italiano, ma in francese è meraviglioso. Parlo proprio del suo modo di scrivere. Amo la sua scrittura perché amo anche il suo modo di scrivere. È come una finzione, ma il contenuto è realtà. Penso di essere molto vicino a lui. Il mio rapporto con la finzione deve comunque passare attraverso la realtà. Non posso costruire solo un artificio. Ecco perché non vado mai al cinema a guardare i film. Mi annoio subito della finzione cinematografica. Non riesco a restare. Ho bisogno di qualcosa che sia più complesso. La sola finzione senza un apporto dalla realtà lo riesco a percepire come puro intrattenimento, ma sono frustrato dalla sola finzione. Ecco perché mi piacciono le mostre: sono tutto ciò che combina l’artificio o la finzione con la realtà della propria percezione. Questo è il motivo per cui mi piace la struttura espositiva.

Nicola L., The Secession Evolution Rug, 2009, performance. Courtesy the artist.

CL: Nella mostra Sbandata di Marcello Maloberti ho individuato, tra le tante foto impaginate su dei fogli disponibili al pubblico, il frame di quello che ricordo essere stata una tua esperienza come performer per Untitled (go-go dance Platform) di Felix Gonzalez-Torres nel 1992 presso l’Hamburger Kunsterhalle. Mi parleresti di quell’esperienza e se pensi che abbia influenzato la tua carriera come curatore, in quanto la performance rappresenta un elemento centrale della tua pratica curatoriale?

PB-B: La foto è stata estratta da un video che si chiama Walking Contract.  È un video che mi sono fatto per documentare la mia esperienza, quotidiana e per tre mesi, come performer dell’opera di Felix Gonzalez-Torres. Alla Kunsterhalle cercavano qualcuno che non fosse un professionista e che ballasse su quella piattaforma cinque minuti ogni mattina. Sono stato assunto come lavoratore.  Non avevo mai sentito parlare di Felix Gonzales-Torrez, perché all’epoca non era ancora conosciuto in Europa. Avevo venticinque anni e avevo appena finito l’accademia d’arte. All’inizio ero entusiasta di avere trovato lavoro, che non vedevo neanche come tale, ma dopo un mese divenne un incubo andare ogni giorno di fronte alle persone indossando mutande argentate e con un walkman. Ho iniziato a soffrire per quel difficile contratto di lavoro. Per questo ho deciso di documentare questa esperienza: volevo riappropriarmi dell’esperienza perché stava diventando una semplice routine.

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (go-go dance Platform), Hamburger Kunsterhalle, 1992.

Felix Gonzalez-Torres, Untitled (go-go dance Platform), Hamburger Kunsterhalle, 1992.

Ho cambiato il mio modo di percepirla, inserendola nella mia corsa quotidiana. Uscivo di casa correndo, arrivavo al museo, mi toglievo la tuta, rimanevo in mutande, ballavo per cinque minuti, mi rimettevo la tuta e correvo via. Così mi sono riappropriato del mio corpo, era una mia scelta che non vedevo più come una costrizione imposta da fuori. Avevo capito cosa fosse la difficile condizione degli operatori dell’arte e le condizioni di lavoro che vengono proposte. Nessuno mentre guarda tutt’oggi la performance di Felix Gonzalez-Torres si immagina o pensa quali siano le condizioni del performer. Avevo bisogno di mostralo. Questa è stata un’esperienza fondamentale per me per capire cosa significhi un corpo vivente, pulsante nello spazio dell’esibizione. Nel 1992 le performance non esistevano ancora. Gli anni Novanta sono stati tutti orientati sull’oggetto. Ho realizzato che un corpo nello spazio dell’esibizione fosse molto forte e questo ha aperto in me una nuova consapevolezza sulla relazione tra corpo vivente e oggetti.

Successivamente ho scoperto il lavoro di Santiago Serra, sono andato in Messico per conoscere Santiago Serra, Teresa Margolles e altri artisti che facevano performance o che delegavano performance. Claire Bishop descrive molto bene in Artificial Hells questo momento che io ho vissuto, in cui si affermano le performance per delega. Ma non è teatro, non sono attori, non è uno spettacolo da fare, è la realtà. Santiago Serra coinvolge la realtà delle persone, non fa teatro. Sono persone spesso pagate per essere loro stesse nello spazio dell’esposizione. Questo mi ha permesso di costruire un mio pensiero sulle performance.

Nella mostra La Monnaie Vivante che ho fatto ho articolato diversi artisti che usavano la strategia della delega: Roman Ondak, Santiago Sierra o Sanja Iveković che ha usato la pubblicità per mostrarne la grande capacità di condizionamento che ha sui nostri gesti, Prinz Gholam che hanno “incorporato” un’iconografia storica. Ho voluto aprire uno spettro ampio di presenze nello spazio anti-teatrali e brechtiane, che rompessero il display e che utilizzassero la vita come materia.

La Monnaie Vivante / Living Currency, a cura di Pierre Bal-Blanc, CAC Brétigny, 2005.

La Monnaie Vivante / Living Currency, a cura di Pierre Bal-Blanc, CAC Brétigny, 2005; performance di Sanja Iveković.

CL: Per la tua mostra nomadica, aleatoria e dal contenuto aperto La Monnaie Vivante (The Living Currency), come mai hai preso in prestito il titolo del libro di Pierre Klossowski?

PB-B: L’ho scelto perché questo testo è stato centrale nella mia formazione e penso sia uno dei testi più importanti del XX secolo. È un testo molto complesso e con una scrittura molto personale. Oltretutto mi ha permesso di mettere in relazione il campo dell’economia con quello delle performance. È stato una figura di grande personalità. È stato il segretario di Walter Benjamin. Era fratello di Balthus. Lavorò a stretto contatto con Benjamin sul saggio L’opera d’arte nellepoca della sua riproducibilità tecnica e ha avuto origine dalla collaborazione tra i due. Lavorò anche con André Gide al famoso magazine Acéphale con George Bataille. È stato uno dei maggiori esperti del Marchese de Sade e di Nietzsche, ha scritto un libro su di loro (Nietzsche and the Vicious Circle).

A settant’anni smise di scrive e iniziò a disegnare. Faceva grandi disegni fatti con i pastelli a cera per bambini, il suo modo per connettersi a degli aspetti infantili, ma anche a quello di trasgressione di genere e sessualità inconscia. Si mise anche a fare dei film. È considerato un artista, ma questo viene dopo essere stato un grande scrittore e filosofo.

Nel 1970 scrisse La Monnaie Vivante in collaborazione con il fotografo Pierre Zucca, il famoso fotografo della Nouvelle Vague e colui che ha fatto tutte le fotografie dello studio Photographies de plateau. Klossowki e Pierre Zucca lavorarono insieme a questo libro che alternava parti scritte a fotografie. Per me oltre a essere un libro a questo lavoro andrebbe riconosciuto il valore di opera. È stato un testo centrale per la filosofia francese del dopo guerra e degli anni Settanta: Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacque Derrida, Jean-François Lyotard. Tutti cambiarono dopo La Monnaie Vivante.

Perché questo testo toccava ciò che non era ancora mai stato toccato prima: la relazione tra il corpo e l’economia. Klossowki ha disegnato un parallelo tra economia e relazioni umane: entrambi sono modelli di scambio, anche se quest’ultime si occupa di impulsi ed effetti. Dopo sappiamo che Lyotard ha scritto Economia Libidinale, Deleuze L’AntiEdipo. Ma è Klossowski ad aver creato questa connessione con il corpo. Ovviamente anche Bataille si era avvicinato a questo, ma Klossowki ha saputo porre diversamente la domanda. Bataille era in certo senso troppo “surrealista”. Lyotard, Deleuze e Foucault volevano distanziarsi da Bataille.

The Death of the Audience, a cura di Pierre Bal-Blanc, exhibition view, Secession, Vienna, 2009, Photo: Wolfgang Thaler; sono di Klossowski il quadro a terra sullo sfondo e l’ultimo appeso sulla parete destra.

The Death of the Audience, a cura di Pierre Bal-Blanc, exhibition view, Secession, Vienna, 2009, Photo: Wolfgang Thaler.

CL: Hai voluto omaggiare Klossowski inserendo anche i suoi quadri nella mostra The Death of the Audience alla Wiener Secession nel 2009.

PB-B: Ho inserito Klossowski perché è considerato un outsider. È molto strano che oggi sia considerato soltanto da una ristretta cerchia borghese. Ho voluto toglierlo dal contesto borghese, perché questo rischia di connotarlo in maniera sbagliata. Il suo lavoro è molto più interessante di questo cabinet bourgeois. Ho voluto portarlo molto più vicino al lavoro di Santiago Sierra. Quello è stato il mio intento.

Marco Scotini introduce Pierre Bal-Blanc, lecture presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 29 novembre, 2018. Photo: Daniele Marzorati.

Lecture di Pierre Bal-Blanc presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018. Photo: Daniele Marzorati.

Lecture di Pierre Bal-Blanc presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018. Photo: Daniele Marzorati.

Pierre Bal-Blanc è un curatore indipendente con sede a Parigi e ad Atene. È stato curatore di Documenta 14 ad Atene e Kassel. Il suo ultimo progetto Der Canaletto BlickThe Canaletto View nel 2017 è stato un programma di commissioni per la Erste Group Bank AG presso l’Erste Campus di Vienna, Austria. Project Phalanstère è il suo ultimo libro pubblicato da Sternberg Press nel 2017. Le sue sequenze espositive La monnaie vivante/Living Currency (CAC Brétigny/Micadanses, 2005-06; Stuk Leuven, 2007; Tate Modern London, 2008; MoMA Warsaw and Berlin Biennale, 2010) e Draft Score for an Exhibition (Le Plateau Paris, Artissima Torino, Secession Vienna, 2011; Index Stockholm, 2012; catalogo NERO Publisher Rome, 2014) negoziano l’analisi attuale e storica del corpo e delle strategie legate alla performance nelle arti visive.

Chiara Lupi si sta specializzando come curatrice, sviluppando la sua ricerca sulla queer ecology, gli spazi indisciplinati nelle aree urbane, la Bioarte e mostrando interesse specifico per le pratiche performative degli anni Settanta e neo-performative. Tra i suoi progetti curatoriali: Vacaresti’s Utopia, an Undisciplined Community in collaborazione con Camilla Alberti, un progetto comunitario per una trasformazione ecologica, politica e sociale a Bucarest. Frequenta attualmente il secondo anno di Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti e ha una laurea in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano.

Pierre Bal-Blanc e Chiara Lupi alla fine di una lunga intervista.

 

 

 

 

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