The home as a battlefield

di Sandra Burchi.

Districare il nodo genere-potere. Per un’analisi critica del domestico.

I casi di Louise Bourgeois, Martha Rosler, Mona Hatoum.

 

Erano gli anni Quaranta del secolo scorso quando Louise Bourgeois lavorava alla sua serie Femme-Maison. La successione dei lavori mostra un corpo di donna, nudo, incastrato nelle forme di una casa che, come un abito insufficiente, sembra esibire più che nascondere le parti che copre. Bourgeois pare chiedersi così quali movimenti femminili restino intrappolati nello spazio domestico e quali invece, nel gioco di incastri, si rendano pensabili e contribuiscano a creare aperture ulteriori, novità. Il rischio di scomparire nel “troppo piccolo” di una casa, è scongiurato dalle dimensioni “troppo grandi” di un corpo che cerca relazioni possibili con lo spazio.

A molti anni di distanza da quei lavori, Louise Bourgeois dirà: “Puoi sopportare qualsiasi cosa se lo scrivi. Lo devi fare per ritrovarti. Quando lo spazio è limitato, o quando si deve stare con un bambino, si ricorre sempre alla scrittura.  Si ha bisogno soltanto di carta e penna. Ma occorre spostare la propria concentrazione… Le parole, una volta messe in relazione, possono portare a nuovi rapporti… a una nuova visione delle cose”. Frasi come queste si possono ritrovare nei pensieri di altre artiste, scrittrici, filosofe, tanto simili da sembrare un calco. La tensione fra spinte opposte, inconciliabili, è risolta nell’invenzione di uno spostamento, di un’apertura imprevista fra le parole e le cose, fra lo spazio e la realtà. “Splendore di avere un linguaggio” scriveva Clarice Lispector, altra viaggiatrice dello spazio domestico, privilegio di avere un modo per consegnare alla forma momenti che rasentano l’invisibile o oggetti che lanciano segnali deboli nel ritmo dei giorni, come gli oggetti comuni sparsi per la casa.  É la casa, luogo tradizionalmente opposto al viaggio (almeno da Ulisse in poi) a farsi terreno di esplorazioni. È la casa, quella vissuta, a farsi paesaggio e non metafora, spazio visivo abitato.

Martha Rosler, Woman with Vacuum, or Vacuuming Pop Art, from Body Beautiful, or Beauty Knows No Pain, 1966–1972.

Il domestico luogo di esperienza, territorio da risemantizzare o da rifiutare, è stato al centro del lavoro di molte artiste, anche prima – come dimostra il caso di Louise Bourgeois – degli anni Settanta, quando si è potuto parlare di un “movimento femminista nell’arte”, una vera e propria avanguardia unita dal desiderio di portare un radicale cambiamento. Attraverso il lavoro sugli oggetti comuni che vivono silenziosi nello spazio quotidiano, le artiste trasformano il sentimento di familiarità che proviene dagli ambienti della casa, cucine, camere da letto, fino a trovarne il lato oscuro e straniante. Eppure non manca una certa ambivalenza. L’elaborazione di una distanza e di una critica (anche profonda) non esclude l’appropriazione del domestico come spazio vitale, luogo-magma e terreno d’ ispirazione.

Nel mio intervento vorrei tracciare un percorso fra tre artiste diverse, colte in epoche e in contesti culturali differenti, che lavorando sugli oggetti del “domestico” hanno sviluppato una loro traiettoria critica fra i poli genere-sessualità/cultura/politica/economia: Louise Bourgeois, Martha Rosler, Mona Hatoum.

Si tratta di artiste che hanno un rapporto intenso con i materiali e con i codici della vita privata. Il loro lavoro di rielaborazione ne disvela la dimensione politica e li apre a nuovi caratteri di significato.

Louise Bourgeois, costume per la performance A Banquet / A Fashion Show of Body Parts, 1978

Louise Bourgeois

Louise Bourgeois nell’arco di una lunga vita lavora sulla sua storia familiare, mettendo in scena immagini inaspettate del materno e della sessualità, già a partire dagli anni Quaranta.  Vicina e lontana dai movimenti femministi, contribuisce a un lavoro di rovesciamento radicale che vedrà esiti diretti nelle generazioni di artiste che seguiranno.

Nata a Parigi nel 1910, dopo un’infanzia e una giovinezza vissuta in Francia, si trasferisce a New York pochi anni prima della seconda guerra mondiale e lì vivrà la sua lunga vita, rimanendo molto attaccata alla sua storia familiare di cui il suo percorso artistico è una continua rielaborazione. Solitaria, si è trovata comunque a condividere la storia e il pensiero di un avvicendarsi di generazioni di artisti a cui non manca di riconoscere la sua gratitudine. Per Louise Bourgeois (come sarà in seguito per Mona Hatoum) il movimento surrealista sarà un punto di riferimento ma più un “lascia passare” che una vera e propria radice: “la rencontre d’une femme e d’une maison dans une immage n’est pas la rencontre d’une machine a coudre et d’un parapluie sur une table de dissection”, scrive Jean Frémon[i] alludendo alla famosa frase di Lautreamont che è servita da manifesto ai surrealisti.

Louise Bourgeois, Cell 1, 1991 (particolare).

Il tornare continuamente ai temi della casa e del domestico per Louise Bourgeois costituisce un andirivieni con la sua storia personale: l’infanzia, il rapporto di lei bambina con i genitori, la sua vicenda di donna adulta (e madre) presa dai ricordi. La casa di infanzia di Choisy, luogo anche della sua formazione (LB ha cominciato a disegnare nell’atelier di restauro di arazzi diretto dalla madre) torna spesso nei suoi lavori, nei suoi racconti, tanto che nel 1991, ormai ottantenne, si deciderà a farne un piccolo modello, cercando ancora di superare il lutto della distruzione. Anche una delle Cells (opere degli anni Novanta) è dedicata a Choisy. Di questa scriverà: “Questa è la casa in cui vivevamo: i laboratori per gli arazzi occupavano la seconda ala e c’erano venticinque petites mains che lavoravano sugli arazzi. La famiglia viveva lì e oggi ovviamente la casa è stata demolita e per me è diventata il simbolo, come si vede qui, del passato di cui il presente si sbarazza. Ogni giorno il presente sfugge al passato. Questa crudeltà è espressa dalla ghigliottina (…) questo passato deve essere sradicato. Per passare efficacemente attraverso l’esorcismo, per riuscire a liberarmi del passato io devo ricostruirlo, rifletterci, farne una statua e poi sbarazzarmene con la scultura. Dopo riesco a dimenticarlo. Ho saldato il mio debito con il passato e me ne sono liberata”[ii]. La ghigliottina (che sovrasta l’istallazione) non si abbatte sulla casa come immagine della vita familiare, ma vuole recidere il passato.

Louise Bourgeois, Cell (Choisy), 1990-1993.

Negli scritti di Louise Bourgeois i rimandi alla memoria, all’inconscio, al passato che torna, sono molteplici. L’arte è presentata come la forza che trasforma senza togliere intensità all’esperienza, a quella vita che – sempre secondo le parole dell’artista– deve integrarsi con l’arte.

È la scultura la forma artistica che permette questo passaggio. Non a caso molti lavori di Bourgeois passano, anche a distanza di molto tempo, da un’elaborazione grafica (disegno, dipinto, incisione) a una su tre dimensioni. Molti lavori degli anni ’40 diventeranno sculture trenta o quarant’anni dopo.  Anche la serie Femme-Maison – dipinti del 1942-1947 – troverà negli anni ’90 una realizzazione in marmo. Questo arco di tempo, così lungo, parla di un tema che non si esaurisce ma che trova nuova vitalità nella trasposizione in scultura che per l’artista è linguaggio privilegiato, un linguaggio che svilupperà con vari materiali[iii].

Le Femme Maison sono disegni che risalgono all’epoca in cui Bourgeois stava cominciando a muovere i suoi passi sulla scena artistica di New York, la stessa epoca in cui la sua vita di madre le lasciava poco tempo e poco spazio per dedicarsi al lavoro.

Louise Bourgeois, Femme-Maison, 1942-1947.

Molti lavori di questo periodo comunicano il senso di claustrofobia o il sentirsi divisa.  Nel dipinto Red Night (1946) una donna si trova a letto con la schiena rivolta verso una finestra aperta rappresentata da una tenda in movimento. La tenda e il letto sono l’unico indicatore dello spazio domestico, il resto del quadro è dominato da pennellate vorticose di pittura rossa, che danno al quadro una sensazione di turbolenza. Al posto del seno e tra le gambe della donna ci sono le piccole facce rotonde di tre bambini a cui il corpo femminile garantisce protezione.

I volti dei tre ragazzi di Bourgeois, Michel, Alain e Jean Louis, appaiono anche in un dipinto a olio su tela del 1945 dal titolo Little Boys: no more food after 4.00, che è forse la rappresentazione più diretta della vita quotidiana di Bourgeois e del suo ruolo di madre in quel momento. Il quadro integra il testo con semplici contorni neri infantili di volti e un orologio. Il testo ricorda ai ragazzini, “Keep your appetite for Callie’s dinner”. Con la rappresentazione delle pressioni fisiche e psicologiche della vita domestica, Bourgeois ha fatto una mossa radicale, quella che ha permesso a molte artiste di seguire il suo esempio, per trovare il proprio modo di presentare, discutere, mettere in discussione o convalidare la propria esperienza di artiste donne.

Bourgeois – ricorderà nei suoi scritti – in quell’epoca stava lottando non solo per conquistare lo spazio fisico e mentale in cui lavorare (e prendere sé stessa seriamente come artista), stava anche lottando per trovare un mezzo, un linguaggio, e un vocabolario che le avrebbe permesso di realizzare la sua poetica.

Del 1947 è un ciclo di incisioni dal titolo He disapperead into complete silence, si tratta di forme allungate e geometriche, senza fisionomia, usate come personaggi di storie un pò vere e un pò immaginate. I disegni rappresentano paesaggi urbani fatti di grattacieli, edifici industriali, abitazioni pubbliche, torri con ascensori, sospesi in un ambiente completamente vuoto, unica definizione è la linea che delimita il suolo d’appoggio. Sembrerebbe la New York moderna in cui però le persone hanno assunto le sembianze della loro città, sono diventati strutture, macchinari, edifici e stanze. Sono diventate palazzi alti e inaccessibili, senza porte né finestre, le cui facciate sono date dall’intersezione di piani e linee verticali. Queste incisioni ricordano la figurazione della Femme-Maison e le sue prime sculture: uomini e donne come abitazioni cieche e chiuse all’esterno, fino a evolversi in entità aperte alla possibilità di relazione.

Louise Bourgeois, He disapperead into complete silence, 1947.

La serie Femme-Maison è costituita da dipinti di case in relazione a un corpo femminile, o meglio case prese in un dialogo eternamente asimmetrico con il corpo femminile. I corpi sono visibili ma non la testa che è sostituita da una casa, a volte dalla finestra escono le braccia protese verso l’esterno o dal tetto una ciocca di capelli. Non è chiaro se queste siano case di bambola in miniatura o se è il corpo femminile che, come nella storia di Alice nel paese delle meraviglie, prova e cerca varie misure, non riuscendo a trovare quella giusta. É proprio il corpo troppo grande che sembra rimandare non un’idea di conflitto ma di tentativo di relazione con lo spazio-casa. Le gambe, rese vulnerabili dall’esposizione e dalla nudità, sembrano abbastanza forti da sopportare il peso della situazione interna. L’ibridazione fra corpo e architettura, mira a un gioco di significati ambivalenti, da una parte l’incastro, la non adeguatezza delle forme costruite rispetto alla vita dei corpi che contengono, dall’altra il gioco delle forme. Queste creature-totem suggeriscono una riflessione sulle composizioni possibili fra vitalità dei corpi e spazi dell’abitare. Questi corpi che Bourgeois caratterizza sempre come eccedenti, femminili, aperti alla sessualità, alla gravidanza combattono attraverso la loro forma con i limiti imposti dallo spazio che li contiene. Il limite c’è e questi corpi così fisici sembrano non sopportarlo. Il limite disegnato dalle forme delle architetture così rigide, è il limite culturale, legato alle abitudini e alle convenzioni che occorre forzare, rimettere in questione.  Il corpo, questo corpo, ha la fisicità necessaria per rompere gli argini della tradizione, e mostrare i limiti e le aperture di quella casa ormai incapace di contenerlo. C’è un bisogno di andare al di là, di aprirsi all’esterno, di oltrepassare il limite, senza negare quella casa che è origine, spazio che non cessa di parlare attraverso la memoria, spazio di affetto, relazione e anche, all’opposto, di paura, solitudine, ripetizione.

Louise Bourgeois, Femme-Maison, 1947.

Questo problema non si esaurisce con queste prime opere. Se infatti torniamo alle Cells, gli ambienti che Louise Bourgeois costruisce soprattutto dalla metà degli anni Ottanta, troviamo grandi strutture formate da stanze contigue, da passaggi verso camere da letto, frammenti di corpi disposti su tavoli che immaginiamo pensati per pranzare, piccoli interni con oggetti che raccontano una storia che rimane segreta per lo spettatore. Questi ambienti sono delimitati da porte, tavole di legno, vetro, ma per lo più da rete metallica; talvolta, come in Spider, la cella è sormontata da un gigantesco ragno. Sono spazi chiusi tuttavia trasparenti e, come le case delle Femmes-Maison, non sono prigioni, sono spazi intermedi, compositi, ambienti che mettono in relazione zone diverse dell’esperienza e interrogano – dalla loro parzialità – la capacità della teoria di renderne conto. 
Fra le prime Femmes-maison e queste Cells c’è una relazione legato al rapporto fra interno ed esterno, fra spazio privato e spazio pubblico, fra norma e desiderio, fra segreto e verità. Questi ambienti-cellula, come le case-donna sono spazi abitati dalla consapevolezza che per ogni memoria individuale lo spazio domestico è un campo di infinite ricerche, che i nessi che si possono individuare fra oggetti e affetti, fra spazi e identità hanno ramificazioni lunghe e profonde. Tutto il lavoro di Louise Bourgeois verso il domestico sembra muoversi in questo doppio passo: da una parte la denuncia di un luogo che minaccia la libertà femminile, che chiude i suoi movimenti in un imperativo alla spesa di sé e del proprio tempo verso la cura degli altri, dall’altra il riconoscimento del domestico come terreno mobile e stratificato. Il suo contributo è stato quello di allontanare il domestico dall’ovvio, di mostrarne gli aspetti immaginifici, ma soprattutto è stato quello di usarlo come materiale per il suo discorso artistico, inaugurando una pratica che sarà poi seguita dalle artiste delle generazioni successive.

Martha Rosler

Per parlare di Martha Rosler bisogna fare un salto negli anni Settanta. Qui il tema del domestico è “trattato” politicamente, l’approdo a questo tema non segue – come nel caso di Louise Bourgeois –  il percorso della ricerca di sé e dell’intimità, ma una via più dichiaratamente “militante”. Sono gli anni del momento culminante del movimento femminista. L’arte è attraversata dai temi che provengono dal movimento, le artiste si organizzano consapevolmente in collettivi, gruppi, associazioni e promuovono Mostre e Rassegne (nazionali e internazionali) cercando di conquistare il loro spazio nel mondo dell’arte e di portare i propri temi (di contenuto e di stile). Sono tante le artiste che si potrebbero citare e i momenti che hanno segnato l’emergere di quella che è stata individuata come “un’avanguardia femminista nell’arte”.

In Italia pochi anni fa una mostra (proveniente dalla Sammlung Verbund di Vienna) portava proprio questo titolo Donna: avanguardia femminista negli anni ‘70. Si tratta di una proposta da parte di curatori e organizzatori, una denominazione problematica lanciata alla discussione.  Dello stesso periodo è un’altra mostra che andava nella stessa direzione Elles al Centre Pompidou di Parigi.

Martha Rosler, Bowl of Fruit, from Body Beautiful, or Beauty Knows No Pain, 1966–1972.

Seguendo i cataloghi di queste due esposizioni si vede come la produzione di molte artiste è stata coerente con lo slogan più famoso del femminismo degli anni ’70: “il personale è politico”. Molti temi della vita privata sono entrati a far parte in maniera esplicita e battagliera della pratica artistica. Questioni concrete che toccano la vita delle donne, questioni legate al corpo e alla sessualità, alla relazione uomo-donna sono incorporate nelle opere di molte artiste. Il corpo, ritenuto il centro del dominio maschile e patriarcale, “oggetto” su cui si è costruita la subalternità femminile, viene messo al centro di molti lavori, per mostrarne la forza, la vitalità, la capacità di autodeterminarsi e di rompere le regole. Per questo il cambio di codice e l’approdo a linguaggi artistici non tradizionali (ma che nel frattempo altre avanguardie avevano portato sulla scena artistica): performance, video, fotografia, film. Tutti questi mezzi, e quelli più “classici”, hanno contribuito a realizzare un obiettivo comune: rompere l’immagine tradizionale della donna. Molti lavori sono proprio su questo.

Anche Martha Rosler entra spesso con il proprio corpo e con la propria immagine nei suoi lavori.

Nata nel 1943 a Brooklyn, New York, ha trascorso gli anni della formazione in California, dal 1968 al 1980. Fa parte di una generazione di artisti consapevolmente militante, il suo lavoro di artista non ha mai escluso quello di studiosa e intellettuale, ha preso parola attraverso la pubblicazione di libri teorici e un lungo percorso di insegnamento in varie istituzioni americane. Ha usato una varietà di mezzi e di linguaggi, ma il suo percorso è particolarmente riconoscibile per il ricorso alle video-istallazioni e alla performance. Anche il fotomontaggio e il collage. Il suo lavoro è incentrato sulla vita quotidiana e la dimensione politica del privato/domestico, in particolare sul contrasto apparente fra la tranquillità che si presume essere caratteristica della vita domestica e la violenza del sistema economico o della guerra.  La sua produzione artistica degli anni ’70 è molto interna al movimento femminista, come dimostrano alcune delle sue performance più conosciute e pionieristiche. Temi ricorrenti sono quelli relativi ai media, al loro potere di condizionare l’opinione pubblica, ma anche alla loro possibile efficacia in ambito artistico. Anche i temi dell’architettura, dell’abitare, dei sistemi di convivenza in ambito urbano, attraversano il suo lavoro e la sua produzione di scrittura.

Martha Rosler, Semiotics of the Kitchen, 1975.

Nella sua videoperformance più famosa, Semiotics on the Kitchen (1975), impartisce una lezione di femminismo militante attraverso una mescolanza di allusioni associative agli oggetti della cucina, alla televisione, al sentire comune. Costruendo il contesto di una lezione di cucina televisiva (il riferimento parodistico è a quella Julia Child a cui Hollywood ha consacrato un film pochi anni fa), mostra i più svariati utensili di cucina, seguendo l’ordine alfabetico delle loro iniziali (“apron” – “bowl”, “chopper”), producendo urti e movimenti che creano una tensione crescente fra la normalità del gesto quotidiano e il suo possibile estraniamento. Questo confine fra scena e oggetti comuni e riconoscibili, ma dotati di un altro senso, consente all’artista di sviluppare una sottile – e ironica – critica all’immagine femminile veicolata dai media. Ed è proprio il ricorso a una situazione quotidiana, domestica e del tutto comune a permettere un rovesciamento di senso. Nel video quello che sarebbe un “normale” momento di intrattenimento assume i toni di una sequenza assurda, allucinatoria. É interessante notare che quasi fino alla fine dell’alfabeto i gesti – pur con piccole variazioni – si ripetono. Le lettere che seguono, la U, V, W, X, Y e Z vengono mimate dall’artista che con un coltello e una forchetta in mano utilizza il proprio corpo come un sistema di segni. Con il coltello alla fine traccia una rabbiosa Z in aria, richiamando alla mente la figura di Zorro, il vendicatore dei poveri. Alla fine Martha Rosler incrocia le braccia, si ridà un contegno, guarda la camera, scuote le spalle e poi sorride maliziosamente. Parlando di questo lavoro Martha Rosler dirà “in this alphabet of kitchen implements, when the woman speaks, she names her own oppression”.

Martha Rosler, Cleaning the drapes, dalla serie “House Beautiful Bringing the War Home”, 1966-72.

Se questa è la più famosa opera di Martha Rosler, non è l’unica in cui riflette criticamente sull’uso dei media e ancora su quei media che si insinuano in uno spazio domestico, che convenzionalmente si vuole spazio franco, dedicato alla cura, privo di conflitti. In Bringing the War Home (1967-1972) Rosler propone un lavoro critico sul nesso guerra-media nel momento di maggiore tensione legato all’intervento militare in Vietnam da parte degli Stati Uniti. Mettendo insieme le immagini di vietnamiti mutilati in guerra pubblicate sulla rivista Life con le immagini di americani benestanti pubblicate sulle pagine di House Beautiful, Rosler letteralizza la descrizione del conflitto come “guerra living-room”, così chiamata negli Stati Uniti proprio perché le immagini di quel conflitto arrivavano nelle case americane filtrate (e attutite) dai reportage televisivi. Questi fotomontaggi (tecnica molto usata da Rosler) rivelano la misura in cui l’esperienza della guerra può essere modellata dalle immagini costruite dai media e invitano i cittadini (resi spettatori) a prendere visione della differenza e al tempo stesso delle connessioni fra il loro ambiente di vita e quello delle popolazioni in guerra.

Martha Rosler, Red Stripe Kitchen dalla serie “House Beautiful: Bringing the War Home”, 1966-72

Nel 1973 con Travelling Garage Sale (presso Art Gallery dell’Università della California, San Diego) Martha Rosler crea un altro nesso fra casa, ambiente domestico e questioni che vanno al di là della scena privata. In questa performance Rosler vende – nel tipico quadro del “garage sale” – abbigliamento, libri, giocattoli e articoli per la casa, insieme a oggetti personali come le sue lettere private, le scarpe da bambino del figlio, cose ancora più intime (i diaframmi usati). Riconoscendo al garage sale di periferia il carattere di “forma d’arte della società contemporanea”, Rosler gestisce le vendite come una padrona di casa hippie, immergendosi con l’abbigliamento in una figura tipica di quegli anni nel sud della California. La vendita è accompagnata da una registrazione audio di una voce che invita a riflettere su come anche una vendita di garage evoca sistemi di valore e di economia capitalista e cita Marx sulla teoria del feticismo delle merci.

Martha Rosler, Monumental Garage Sale, 2000. The New Museum, New York.

Con questa installazione quindi il lavoro di Rosler crea esplicitamente dei nessi fra l’economia del garage sale (un’economia domestica, basata sugli scarti che la vita domestica produce) con quelli del mercato e, mettendo in scena sé stessa e le sue cose, anche il mercato dell’arte. É una performance che Rosler ha portato avanti negli anni, cambiando il contesto e passando sempre in nuove gallerie, coinvolgendo nuovi spettatori. Gli oggetti sono cambiati nel tempo e si sono mescolati con altri oggetti, diventando tutti parte dell’istallazione.

Il lavoro di esposizione di oggetti privati in un contesto privato (il garage sale reinventato nelle varie gallerie), l’atto del vendere (che coinvolge gli spettatori e l’artista che ogni volta rientra nella sua parte di artista-venditrice) è una rappresentazione concreta di una società in cui le relazioni umane incarnano rapporti di mercato. Per questo Rosler rinnova sempre questa installazione, e la porta avanti da ormai quarant’anni coinvolgendo generazioni di spettatori in questo lavoro. Nel tempo infatti l’istallazione è diventata sempre più “esperienziale” per chi la vive e Rosler si è attrezzata per dare sempre più spazio e ruolo a chi la esperisce. In una delle sue ultime versioni, il garage sale si è svolta nell’atrio del MoMA nel 2012, diventando il “Monumental garage sale”.

Quello che Martha Rosler fa nel suo lavoro è in linea con molti temi che il femminismo bianco americano stava portando avanti nella politica e negli studi. Esplicitare il ruolo nascosto della relazionalità “riservata” alle donne mettendo in relazione i nessi e le somiglianze fra le relazioni che regolano la vita domestica e quelle che vigono nell’intero della società. Mettere al centro “il domestico” come costruzione sociale oppressiva per rivelarne stereotipi e arretatrezze oppure per svelarne la complicità con il sistema di ingiustizie che Rosler denuncia come la guerra o la violenza economica.

Mona Hatoum, Over my dead body, 1988-2002.

Mona Hatoum

Mona Hatoum, un’artista nata in Libano da una famiglia palestinese e diventata presto senza patria, si forma a Londra, nel corso di una carriera che abbraccia un trentennio torna spesso sul tema della casa e del domestico. Anche nel suo percorso, che ne ha fatto un’artista riconosciuta e apprezzata, sono evidenti alcuni temi che la legano al femminismo, al desiderio di superare il sistema di assegnazione di ruoli a uomini e donne. É Mona Hatoum stessa a dirlo. “Siamo il prodotto di una società che assegna un ruolo all’uomo e un ruolo alla donna. Come artista e come pensatrice mi rifiuto di accettare questa assegnazione di ruoli.  Non siamo realtà monolitiche né un tutto coeso. Noi tutti abbiamo in noi stessi qualità e desideri contraddittori e antitetiche”. Per molti anni, tutti gli anni Ottanta, il lavoro di Hatoum si sviluppa soprattutto attraverso performance e video. In questo periodo la riflessione sul corpo sarà centrale. Nel solco della tradizione femminista, il corpo è oggetto di indagine, investigazioni, domande, di precise messe in scena. É un filo che continua nella produzione di Hatoum passando dalla performing art che è, dichiaratamente, il background dell’artista, a opere più complesse che seguiranno il suo percorso negli anni Novanta, con lavori come Corps étranger, (1994), una videoproiezione dell’interno del suo corpo esplorato con una camera endoscopica e altri) e dopo il Duemila con Hair and Blood drawings (2003), Brain (2013) o lavori che riprendono l’idea forte del corpo come superficie e come materiale, e che spingono l’artista a lavorare con quelli che lei chiama “gli scarti del corpo”, come nel lavoro Hair necklace (alabaster) del 1995, in cui capelli  intessuti e ricamati su una trama a reticolo, formano una collana di perle su un busto d’alabastro.

Mona Hatoum, Hair Necklace, 1995.

Ma è un altro il lavoro sul corpo di questa prima produzione di Hatoum ad avvicinarsi al tema della casa e del domestico (tema che l’artista tratterà sempre in contrasto con la propria esperienza di nomadismo, di esilio, di distanza dalla propria origine): Measures of Distance, del 1988. Il corpo è l’elemento centrale.  Il video è un racconto per immagini della nostalgia che lega Hatoum alla madre. Le lettere scritte a mano che percorrono la distanza da Beirut a Londra, sono rappresentate sullo schermo da una commovente trascrizione in caratteri arabi che scorre mentre l’artista legge ad alta voce e in inglese il loro contenuto. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un viaggio in Libano. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione in arabo fra madre e figlia, discorsi intorno alla vita, l’amore, la sessualità, le confidenze della madre sulla sua vita intima con il marito. Il corpo materno, forte e al tempo stesso indifeso, si confonde con lo sfondo dell’immagine e le lettere che scorrono sullo schermo – in una lingua per molti inaccessibile in Occidente – sono tramite e divisione, una gabbia di caratteri arabi che mettono in contatto madre e figlia ma le lasciano distanti nello spazio e nel tempo.  Legate da un rapporto che è rappresentato per la sua intimità, le due donne vivono realtà lontane. Nel racconto per immagini di questo legame madre figlia si inseriscono molti temi che ricorrono nel lavoro di Hatoum: l’esilio, l’identità culturale, il peso della guerra, il senso di fragilità esistenziale e di spaesamento e, al tempo stesso, il desiderio di far parlare un mondo nascosto, intimo.

Mona Hatoum, Measures of Distance, 1988.

Intimità ed estraneità si fronteggiano nel lavoro di Hatoum. Anche il suo continuo ricorrere ai temi della domesticità, i suoi lavori intorno agli oggetti domestici, sembra dominato da questa ambivalenza. Da una parte la direzione sembra essere quella del disvelamento: la poetica del lato nascosto, dell’intimità che crea un mondo altro, invisibile. In Bukhara, (2008) un’opera costruita a partire da un tradizionale tappeto orientale apparentemente in stato di disgregazione. Ampie parti di superficie sembrano logore o mangiate dai tarli, a uno sguardo più attento, si scopre però che le chiazze mancanti si congiungono a formare le mappa di un mondo nascosto. Dall’altra parte l’avvicinamento ai temi del domestico avviene tramite la poetica del perturbante, quello stato d’animo che suggerisce il rovescio mostruoso delle cose che conosciamo bene, che viviamo come familiari. Ed è ancora un’opera /tappeto che possiamo prendere ad esempio Undercorrent (red) del 2008 in cui da un quadrato centrale, tessuto di cavi elettrici anziché di fili, un’ampia frangia serpeggia e si allunga sul pavimento ad invadere lo spazio. Ogni filo termina con una lampadina da 15 watt che silenziosamente si illumina e cambia di intensità, come un lento respiro inquietante che lascia immaginare una presenza sinistra sotto i propri passi. Come questo tappeto trasformato in una sorta di “terreno minato”, Mona Hatoum in diversi lavori  si rivolge agli oggetti di uso comune e quotidiano trasformandoli in sculture inquiete e inconsuete.

In una delle installazioni più conosciute, Home (1999), si vede un tavolo rettangolare, dietro una rete metallica, ingombro di utensili da cucina di lucente acciaio inossidabile: colapasta, grattugie, frullini, mestoli, macinini. Stupendi oggetti da massaia illuminati da un filo elettrico che li tiene uniti, e la stessa elettricità che li illumina genera un ronzio continuo. Intorno all’istallazione, intorno a questi oggetti innocui che prendono una luce eccessiva e che non smettono mai di fare rumore, si genera una sorta di inquietudine, di paura, di pericolo.

Mona Hatoum, Homebound, 2000, presentata a Documenta 11, 2002.

In Homebound (2000) gli elementi di un interno domestico sono riproposti in una situazione in cui sono “un-homed” senza casa, in un modo che ricorda proprio la definizione freudiana del perturbante l’um-heimlich (ciò che non ha casa).

E sono ancora oggetti di casa quelli in cui l’artista si esercita a creare questo gioco di rovesciamenti, in Doormat la parola “Welcome” affonda in un letto di spilli aguzzi, quello che siamo abituati a pensare come uno zerbino, diventa soglia dolorosa di un passaggio verso casa difficilissimo. Sono famose le singolari sculture in cui Mona Hatoum cambia forma e senso agli oggetti, giocando sulle dimensioni sul passaggio repentino di contesto. É così che grattugie, scolapasta, taglia uova, tritaverdura, diventano giganteschi mostri, oggetti di tortura (Grater divide, 2002). Per una mostra in Italia presso la Galleria Continua l’artista ha presentato due di questi utensili-mostri: Paravent (2008) una grattugia ingrandita fino a dimensioni surreali e architettonici diventa un paravento e Dormiente (2008) in cui ancora una grattugia è portata alle dimensioni di un letto che protegge disagio e sofferenza in luogo del riposo che ci si aspetta dal sonno. “Vedo gli utensili da cucina come oggetti esotici e molto spesso non so a cosa servano realmente. Rispondo a loro come a degli oggetti belli. Sono stata educata in una cultura nella quale le donne devono imparare l’arte di cucinare come parte del processo che le prepara al matrimonio e io avevo un’attitudine contraria a tutto questo. Perdere tempo in cucina era qualcosa verso cui resistevo[iv]” dice Mona Hatoum cercando di spiegare durante un’intervista il continuo e particolare ricorso a questi oggetti. Ma se questa è la spiegazione diretta dell’artista, un rimando autobiografico al suo procedere, non sono mancati fra gli osservatori del suo lavoro quelli che hanno preferito vedere in questa scelta di oggetti un passaggio alla Duchamp, quel loro essere rappresentanti di un’esistenza liminare, in bilico fra il sistema di produzione domestico e quello industriale. Una volta svelato il loro lato meno familiare, questi oggetti riportano il loro provenire da uno scambio complesso, quello che tiene uniti il silenzioso e quotidiano fare femminile con il mondo dell’economia.[v] Quello che resta interessante ai fini del nostro discorso è il ricorso a una “semiotica della cucina” in una direzione che tiene insieme i caratteri oppressivi della tradizionale formazione femminile (in questo il tema è ricorrente, e va a specchio con quello di Rosler), il riferimento alla poetica del perturbante che trasforma in estraneo e straniante ciò che è familiare, la contestualizzazione del tema “casa” in un mondo e in un’epoca di dislocazioni, nomadismi, di impossibilità per molti di ritornare a casa. In questi lavori di Hatoum sono chiari i richiami ai temi dell’oppressione e della violenza domestica, ma la casa diventa anche luogo mitico su cui grava un sentimento di perdita e di nostalgia. La casa, i cui interni mostrano un lato inquietante, è attraversata dalla stessa violenza che domina il mondo, dalle stesse paure, dalle stesse minacce.

Mona Hatoum, Door Mat, chiodi in acciaio inossidabile, chiodi in acciaio placcato, 1996.

Vivendo e lavorando in contesti ed epoche differenti queste tre artiste seguono un filo comune, intrecciato (in maniera non evidente e per certi versi idiosincratica) con lo svilupparsi del femminismo come movimento sociale. I loro percorsi possono essere letti come un contributo prezioso alle teorie che utilizzano il genere come paradigma portante. Il domestico (tema centrale per le scienze sociali nello studio delle relazioni di genere e le definizioni di “maschilità”, “femminilità” e “potere”) può essere indagato, anche grazie alla rielaborazione realizzata in ambito artistico, come una replicazione – su piccola e perimetrata scala – delle tensioni sociali. Conflitto fra i sessi, fragilità (e violenza) all’interno della famiglia, disgregazione e riorganizzazione su scala globale della società, sono i temi che suggeriscono gli ambienti domestici che emergono dal percorso di queste artiste. Il loro lavoro sugli oggetti del domestico sviluppa in campo artistico una strategia discorsiva articolata che mira a smascherare il potere di quelle istituzioni che puntano al permanere di assetti tradizionali di genere. Nel caso di queste tre artiste è evidente il lavoro di osservazione, denuncia e decostruzione di forme di dominio e subordinazione sottili, che passano silenziosamente nei territori della quotidianità.

 

 note

[i] Jean Frémon, Louise Bourgeois. Femme Maison, L’échoppe, Paris 2013, p.16.

[ii] Louise Bourgeois, Distruzione del padre, ricostruzione del padre. Scritti e interviste, Quodlibet, Macerata 2009, p. 278.

[iii] Sull’uso dei materiali LB è molto franca, il passaggio dall’uso di materiali “poveri” a quelli più “preziosi” è giustificato dall’approdo al successo: “Per molti anni – dichiarerà – ho lavorato con i materiali più poveri perché non avevo soldi”.

[iv] Chiara Bertola, Interior Landscape, Charta, Milano, 2009, p.22.

[v] “La maggior parte dei critici vi hanno visto la crudeltà celata nella routine o l’imposizione di una vita domestica; preferisco, invece, allinearmi a coloro che hanno imboccato la via “surreale” che dal ready-made di Duchamp immette perturbazioni nel campo della fenomenalità”, in  Chiara Bertola, Interior Landscape, ibidem, p.21.

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