Marisa Merz, l’Anti-Penelope

di Tommaso Trini.

Arte e storia del lavoro.

L’ultima mostra di Marisa Merz all’Attico di Roma, lo scorso marzo, ha presentato un insieme di lavori straordinariamente sereni ed è stata accolta con il consenso più unanime e caldo. Serenità e umanità da tempo assenti sulla scena dell’arte, specie per questa artista donna che in dieci anni (cioè dacché la conosco e la frequento) è stata emarginata in rarissime mostre pubbliche. Si può dire che Marisa Merz non ha particolari ragioni di essere serena e che l’accoglienza testé ricevuta, al limite della «consacrazione», più che comprendere l’identità della sua arte e la sua importanza abbia voluto emozionalmente fugare il fantasma della lunga emarginazione dell’artista.

Cercherò in queste poche note di testimoniare come Marisa Merz lavora in relazione alle condizioni con cui il sistema dell’arte (capitalistico e maschiocentrico) le ha concesso di lavorare e sopravvivere intellettualmente. L’arte di Marisa Merz e in genere delle sue compagne non riconosce una storia dell’arte che l’ha repressa. Non credo che Marisa Merz possa convenire con Henri Lefebvre che «la storia come processo e la storia come scienza non coincidono, sebbene convergano». Per lei e le sue compagne divergono.

Claudio Abate, Marisa Merz, 1975.

Bisognerà difatti dire perché Marisa Merz sia stata estromessa dalla storia di quest’ultima decade (anni ’60, sebbene lei lavorasse dagli anni ’50, decade dell’arte povera, processuale, concettuale) sebbene vi abbia contribuito in modo fondamentale, anche attraverso gli scambi con l’arte di Mario M. – dirlo come? Limitiamoci a dire che è stata una decade in cui la storia come processo ha preso il sopravvento per riorientare globalmente (non dico rivoluzionare, aveva ancora il mito dell’avanguardia) la storia come scienza. Per l’ottica avanguardistica, la storia (dell’arte) come processo costituiva l’eccezione in mano degli artisti uomini. Per le artiste donne questa è la norma. Naturalmente il mercato aveva bisogno dell’eccezione…

Comunque, Marisa Merz ha lavorato, esposto, generato arte ovunque si trovasse, a casa propria o in albergo, durante le mostre di Mario M. o nei lassi di parecchi anni che hanno separato le sue mostre nelle gallerie (da Sperone a Torino nel ’66, da Sargentini nel ’70 e ’75 a Roma, fra le più rimarchevoli). È venuta affinando la sua arte intra-oggettuale (se così può dirsi, difatti non ci sono né oggetti né environments ma costellazioni o insiemi di segni dipanati lungo il filo della maglia) con procedimenti femminili. Tuttavia, il suo lavorare a maglia (o tagliare lamine di metallo, o cucire, o ricamare) ha la sola immagine di un’economia di sopravvivenza, almeno agli inizi. La sua manualità operativa è a misura dei mezzi sociali di produzione di cui la donna ha storicamente il possesso e non la proprietà.

Come artista, cioè produttrice di segni, Marisa Merz è stata a lungo espropriata dei suoi segni e lo è ancora fintanto che se ne demolisca il valore d’uso: non perché siano prodotti non consumati dal mercato, ma perché se ne disconosce la capacità di essere mezzi di produzione di altri segni di altri artisti. È anche vero però che nella sua arte si può osservare il superamento della nozione capitalistica di valore in quella di processo.

Comunque, Marisa Merz ha seguito il suo filo nella disciplina esecutiva di un lavoro che ha il suo luogo di celebrazione, non in un museo o nella storia dell’arte, ma nella quotidiana tensione di ciò che definisce lei stessa «aderire alla mia intuizione verso l’intuizione», contro ogni forma di disponibilità meccanica e ripetitiva.

Marisa Merz, Scarpette, 1968, foto Claudio Abate.

Marisa Merz, Senza titolo, scarpette, 1968, foto Claudio Abate.

A Roma, da Sargentini, la sua arte ha avuto il beneficio di una mostra esemplarmente riuscita. «Non ho allestito la mostra secondo le stanze, l’ho fatta senza riferimenti fissi, senza preoccuparmi di fare la mostra». E ancora «Oggi ho ripreso la lavorazione di tutti i giorni per un anno, per la prossima mostra che terrò qui fra un anno». Molti appunti scritti di Marisa Merz riportano elenchi di opere con l’ora e le condizioni in cui le ha fatte, altri appuntano brevi illuminazioni del suo pensiero. «Non dovrei permettermi di controllare la destinazione dei singoli lavori». Alcuni di questi citano la presenza della figlia Bea o del suo compagno Mario M., e di quest’ultimo utilizzano una struttura concettuale, la serie di Fibonacci. Comunque, Marisa Merz vive direttamente e colloca in spazi rampicanti quella crescita organica, quel processo, su cui Mario M. ha avuto il merito capitale di disporre l’ordine conoscitivo della serie di Fibonacci.

Marisa Merz, Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti, particolare. Copertina di Data, numero 16-17, giugno agosto, Milano 1975.

Marisa Merz, Senza titolo, particolare dell’installazione. Ne L’Inarchiviabile/The Unarchivable. Italia anni 70, a cura di Marco Scotini presso FM Centro per l’Arte nel 2016 è stata ricostruita parte dell’esposizione personale “L’Età del Rame” tenuta nel 1977 da Salvatore Ala.

Marisa Merz, L’Età del Rame, 1977. Ne L’Inarchiviabile/The Unarchivable. Italia anni 70, a cura di Marco Scotini presso FM Centro per l’Arte nel 2016 è stata ricostruita parte dell’esposizione personale “L’Età del Rame” tenuta nel 1977 da Salvatore Ala. Collezione Emilio e Luisa Marinoni.

Anti-Penelope

Non ho scuse se discuto l’arte di Marisa Merz senza fare mio il punto di vista femminista. Me ne manca la vista. Temo di fare peggio. Sebbene tratti esclusivamente l’opera di Marisa M. non so evitare che Mario M. sia immischiato. Ma i loro vicendevoli scambi esistono e li valuto una realtà rivoluzionaria centrale.

Immaginate un critico-maschio-femminista? Sarebbe una rarità sessuale. Conosciamo un critico di valore (donna) che ha sputato su Hegel ed eliminato il suo ruolo entrando nella comunità femminista. Carla L. ha già condannato il lenone-critico-maschio-femminista che volesse allungare i capelli della sua egemonia mettendosi dalla parte loro.

Nel contesto dell’arte, l’antagonismo principale della pratica e della teoria femminista passa anche attraverso la lotta contro la critica/storia dell’arte. Con Marisa M. sono impegnato da tempo in un instabile contrasto che altro non è se non lo scontro imposto dall’artista al critico/storico. Ciò accade beninteso anche con Mario M. e un numero crescente di artiste/artisti. Lottano contro la critica e la storia dell’arte in quanto sistema di controllo e monopolio dell’informazione, a cui oppongono l’auto-gestione comunitaria.

Lasciate un istante che mi autoflagelli. Non crediate che basti fare mutare il pelo alla critica d’interpretazione e di giudizio: de-istituzionalizzare l’ermeneutica è cosa ormai impronunciabile. Esiste una critica mercatale che è tutta la critica (non solo quella che si vende sporadicamente al mercante di fronte, il mercato dell’arte si fa tutti i giorni), perché fa parte del sistema di produzione dei segni. Nell’economia del segno (economia politica), si pone molta attenzione alla circolazione del segno come prodotto (al suo valore di scambio), e troppo poca attenzione alla capacità del segno di essere mezzo di produzione di altri segni (al suo valore d’uso). La critica/storia controlla più il valore d’uso di un quadro che il suo valore di scambio, questo è ciò che la condanna agli occhi della comunità degli artisti.

Marisa e Mario Merz, Pio Monti, 1970.

Mi pare che a Marisa M. sia stato negato più il valore di scambio della sua opera, e meno il suo valore d’uso grazie al sodalizio creativo con Mario M. (e anche ai critici rimasti alla finestra).

L’emarginazione socio-culturale le ha impedito di fare circolare e riconoscere il suo lavoro nei musei e sul mercato. Ma i suoi segni hanno prodotto altri segni di un altro artista, e viceversa. Ho visto Marisa M. sovente partecipare alle mostre di Mario M., e assai meno sovente Mario, senza colpa, partecipare alle poche occasioni pubbliche di Marisa M.

E ogni volta ho visto questo. Marisa si divideva in Marisa e Mario. Mario si divideva in Mario e Marisa. Straordinaria comunità, dove l’individuazione ha resistito all’individualismo che fa separare i nomi oppure cambiarli (qui, una sola sillaba li distingue). Ciascuno di loro divide in due la sua propria opera d’arte, e tanto valga per cominciare.

Marisa e Mario Merz, di Paolo Pellion di Persano.

Marisa e Mario Merz presso la Galleria L’Attico Roma 1969, foto Claudio Abate.

Marisa e Mario Merz presso la Galleria L’Attico Roma 1969, foto Claudio Abate.

La diversità della creatività femminile non equivarrà alla differenza tra l’opera di Marisa M. e quella di Mario M., entrambi autonome e divise nei loro segni, ossia tra l’arte della donna e l’arte dell’uomo; si resterebbe nei valori capitalistici della singolarità, ora biologica. Quale che sia, la diversità creativa della donna artista interessa la sfera pubblica dell’economia politica più che quella privata del linguaggio personale femminile.

La maglia-scultura di Marisa M. ha gene femminile, non necessariamente segno femminile. La riprova è nella dialettica dei segni della solitudine, ovvero sessuali. L’ermafrodita, ad esempio, non è utile al femminismo.

Lynda Benglis ha pubblicato su Artforum il suo nudo (bello) polemicamente ermafrodita, cioè dotato di un rosaceo plastico cazzo enorme. Messaggio rude ma chiaro, tipo «sono io che chiavo Richard», come disse Joan Jonas a chi le rimproverava il suo amore per Serra.

Sembrerebbe il rovescio di Penelope, figurina muliebre conculcata dal fallocratico Omero. Ma come? Che Penelope, per una bizzarria della nostra lingua, sia provvista di pene anche nel nome, è solo la punta di questo mito fallocratico. Se lasci scorrere la tela della fedele regina vien fuori la coda e con la coda il penis. È ben armata contro i principi pretendenti che intanto, in anticamera, premono in assenza di Ulisse. Così ben difesa, che Penelope deve fare, disfare, rifare la sua tela: meglio l’onanismo che cedere a quelli là il rovescio della propria mascolinità surrogata.

L’introiezione simbolica del sesso opposto deve essere sconfitta dall’Anti-Penelope rigettando sia tutti i simboli della sua servitù sia la servitù dei simboli.

Marisa Merz, Arpa, 1967-68, e Senza titolo, 1970 (Collezione Emilio e Luisa Marinoni); Gina Pane, Pierres deplacées, 1968 (Courtesy Osart Gallery, Milano) e Libera Mazzoleni, Linee complessi essere, Editrice d’Arte Gorlini, Milano 1974 (Courtesy l’artista e Frittelli arte contemporanea, Firenze); veduta dell’esposizione Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, a cura di Marco Scotini e Raffaella Perna, FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano.

La foto di copertina è di Paolo Pellion di Persano, Marisa Merz, Arpa, 1973.

Uno speciale ringraziamento a Tommaso Trini per la pubblicazione del testo dedicato a Marisa Merz e apparso su Data, n.16/17, Milano, 1975, luglio/agosto, p. 49-53. Marisa Merz

Marisa Merz, Sculture viventi, cartolina di invito della Galleria Sperone, 1967 ©Paolo Bressano, Torino

Marisa Merz con le sue Sculture viventi, Torino, 1966. Courtesy Fondazione Merz.

 

 

 

 

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