Marcia funebre o della geometria. Paolo Scheggi e la città come tempo di spettacolo totale

di Giordano Cruciani.

 

«Il problema nel rapporto città-arte è non già riempire “uno spazio”, ma riempire “un tempo”, un tempo come tempo di spettacolo».[i]

Il rapporto dell’artista Paolo Scheggi (Settignano, 1940 – Roma, 1971) con l’urbano si articola lungo un percorso che lo porterà da una prima matrice pittorica e oggettuale, a sperimentazioni architettoniche e teatrali, che culmineranno negli ultimi anni della sua carriera nella progettazione di performance messe in scena negli spazi della città.

Paolo Scheggi, Intercamera plastica, modalità interspaziali per integrazioni plastiche all’architettura, esposta per la prima volta alla Galleria del Naviglio di Milano nel gennaio del 1967, poi, sempre nello stesso anno, a Foligno alla manifestazione “Lo spazio dell’immagine” e in seguito nel 1976 alla Biennale di Venezia nella sezione “Ambiente arte”.

Già agli albori della sua pratica Scheggi mostrava un profondo interesse verso un approccio interdisciplinare all’arte, che gli permise di entrare sempre più in relazione con lo spazio entro quale la sua opera si iscriveva e con un pubblico sempre meno distante da essa. Tra il ’64 e il ’65 collabora a Milano con la Nizzoli Associati, storico studio d’architettura milanese che si approcciava alla progettazione in senso “neo-umanista” (come Scheggi stesso definiva), la cui volontà era quella di creare un rapporto tra uomo e architettura per un “rinnovamento della società”. Grazie a questa esperienza Scheggi acquisisce conoscenze specifiche nel campo della tecnica urbanistica, tanto da influenzarne le successive produzioni.

Paolo Scheggi, La tomba della geometria, 1970, ambiente con scritte metalliche, esposto in “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970”, a cura di Achille Bonito Oliva, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1970; immagine tratta dal catalogo di Ugo Mulas, Vitalità del negativo, foto di Ugo Mulas.

Paolo Scheggi, La tomba della geometria, 1970, ambiente con scritte metalliche. Esposto nel 1971 a Montepulciano ala manifestazione “Amore mio”, poi a Roma in “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970”, sempre a cura di Achille Bonito Oliva, al Palazzo delle Esposizioni, infine nel 1972 alla Biennale di Venezia. Una delle ultime opere dell’artista, immagine tratta dal catalogo di Ugo Mulas, Vitalità del negativo, foto di Ugo Mulas.

Dalla ricerca in campo architettonico nascono il primo ambiente Intercamera plastica (1967) e il primo intervento architettonico (mai realizzato) Cannocchiale ottico percorribile (1968). In entrambi i casi, l’artista ricerca un rapporto altro con il pubblico, vuole che questo penetri la sua opera, che la esplori e che ne faccia esperienza diretta. Il fermento del biennio ’68-’69, tanto per la società italiana, quanto per quella internazionale, portò con sé nuove attitudini che aprivano a contaminazioni tra varie discipline, e quindi nuove proposte nel campo dell’arte, dell’architettura, del cinema, delle attività teatrali e della danza.

Oplà-stick – Passione secondo Paolo Scheggi, performance scritta e diretta da Paolo Scheggi messa in scena durante l’apertura dell’esposizione “Typoezija-Typoetry” presso lo Student Centre Gallery di Zagabria come parte della rassegna internazionale Tendencies 4, nel 1969.

Oplà-stick – Passione secondo Paolo Scheggi, performance scritta e diretta da Paolo Scheggi messa in scena durante l’apertura dell’esposizione “Typoezija-Typoetry” presso lo Student Centre Gallery di Zagabria come parte della rassegna internazionale Tendencies 4 nel 1969.

Oplà-stick – Passione secondo Paolo Scheggi, performance scritta e diretta da Paolo Scheggi messa in scena durante l’apertura dell’esposizione “Typoezija-Typoetry” presso lo Student Centre Gallery di Zagabria come parte della rassegna internazionale Tendencies 4 nel 1969.

È proprio durante questi anni che Scheggi si avvicina all’esperienza teatrale e alla progettazione di spettacoli e performance che si distaccavano dalla “dimensione separata” del museo (senza tuttavia mai abbandonarla), che nella lettura di Agamben «nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza»[ii], guardando al teatro e agli spazi dell’esperienza diretta, quelli della strada e dell’urbano.

Paolo Scheggi, Interfiore, veduta dell’esposizione “Teatro delle mostre”, Galleria La Tartaruga, Roma, ambiente con cerchi di colore arancione sospesi nella stanza buia illuminati dalla luce di wood, miaggio 1968.

Tra i primi passi verso la dimensione teatrale intrapresi dall’artista ricordiamo l’installazione immersiva Interfiore, realizzata per la rassegna Teatro delle Mostre, nel 1968 a Roma[iii]. Tuttavia, il vero punto d’incontro tra Scheggi e il mondo del teatro fu l’incontro con il drammaturgo Giuliano Scabia con il quale realizzò una serie di interventi plastico-visuali per lo spettacolo Visita alla Prova dell’isola Purpurea di Bulgakov e Scabia presso il Piccolo Teatro di Milano.

Giuliano Scabia, Visita alle prove dell’Isola purpurea, Piccolo Teatro di Milano, 1968, foto di Luigi Ciminaghi.

Questi interventi indagavano la possibilità di riscrittura del set scenografico, andando contro «la voluta staticità macchinistica e tradizionale dello spazio del palcoscenico» [Paolo Scheggi] e trovavano nella composizione scenica una nuova possibilità di indagine sullo spazio. In particolare nel 1969 ricordiamo tre performance fondamentali nella produzione di Scheggi: OPLÀ. Azione-lettura-teatro, realizzata a Firenze, Dies Irae, messa in scena a Varese, Milano e Firenze e Marcia funebre o della geometria, progettata per la manifestazione CAMPO URBANO. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana a Como. Quest’ultima, progettata insieme a Franca Sacchi – che ne curò l’aspetto musicale -, si componeva di sei protagonisti, quattro momenti, sei movimenti e due voci narranti.

Paolo Scheggi e Franca Sacchi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969.

Quella che Scheggi e Sacchi mettono in scena è una cerimonia che nella coesistenza di una parte testuale (testi selezionati letti dalle voci narranti) associata ad una rituale (gesti, azioni e movimenti dei performer), rispecchia ciò che il linguista Emile Benveniste definisce come “potenza dell’atto sacro”, che «risiede nella congiunzione del mito che racconta la storia e del rito che la riproduce e la mette in scena»[iv]. Tuttavia Scheggi non si limita ad una semplice trasposizione delle fonti testuali – Ulrico Molitoris, Christopher Marlowe e la Bibbia (Numeri)- in azione teatrale, ma stratifica l’azione attraverso forme geometriche già care alla sua poetica e vesti colorate, conferendole un fare quasi “giocoso”. Inserire elementi geometrici all’interno della marcia funebre non voleva risultare nella morte della geometria stessa, ma nella celebrazione dell’asimmetria rispetto alla simmetria [F. Sacchi].

Paolo Scheggi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969.

L’aspetto della morte e della “tanatologia” caratterizzano molte delle ultime produzioni di Scheggi, e come scrive Bruno Corà, curatore della sua mostra personale postuma presso la Galleria Il Ponte di Firenze nel 2007, «[…] recano il velato o esplicito sentimento premonitore della morte, quasi come appuntamento accelerato all’incontro ineluttabile con il suo avvento. Ma non per questo Scheggi vive queste esperienze con minore intensità»[v]. L’urgenza da parte dell’artista di progettare un rituale potrebbe essere facilmente letta in base alla definizione che Ernesto De Martino ne dava all’interno del suo volume Sud e Magia del 1959. L’antropologo italiano riteneva che le forme rituali aiutassero l’uomo a superare una “crisi della presenza” che esso avverte di fronte alla natura, e che i comportamenti stereotipati del rito rendessero possibile un assorbimento del negativo in favore di un modello a-storico del divenire. Scheggi non vuole però congelare il corso degli eventi, ma guardare all'”incontro ineluttabile” con la morte dal punto di vista della vita, della felicità nell’esserci e nell’esistere, ricercando un rapporto con il pubblico che non si limiti alla semplice “osservazione-morte”, ma che indaghi forme di “partecipazione-vita” e aggregazione dinamiche attraverso la propria pratica interdisciplinare.

Paolo Scheggi, Marcia funebre o della geometria, passione secondo Paolo Scheggi, musiche di Franca Sacchi, Campo Urbano, Como, 1969, foto Ugo Mulas, archivio Lia Rumma.

Scrive infatti: «L’arte del falso oggettivo, l’arte della falsa verità rivelata, l’arte dove opera e fruitore giocano ruoli indipendenti è la istanza più appariscente della condizione che l’ha creata: l’assenza di catarsi. E inevitabilmente si identifica con un’arte del non vissuto, dell’anemia e della morte»[vi].

Così le forme archetipiche del cubo, del cono, del cilindro, della piramide, della sfera e del parallelepipedo si muovono in Marcia funebre secondo una coreografia che non rimane chiusa in un perimetro di azione ristretto, ma che invade la Piazza del Duomo di Como e si rivolge direttamente al pubblico, includendolo nella propria processione catartica.

Il punto di vista di Scheggi riguardo il rapporto tra arte e città è temporale anziché spaziale. Ritiene infatti che le maggiori problematiche nella costruzione del binomio arte-città risiedano nella volontà dell’arte di riempire uno spazio e non un tempo, un tempo che sia per il cittadino visibile e vivibile, e propone di guardare la città come «tempo di spettacolo totale» e lo spazio come «sosta del tempo vissuto». Non a caso in Marcia funebre l’elemento temporale scandisce concettualmente le azioni. I tre momenti finali della performance riguardano il tempo come condizione, senza condizione e come catarsi e si conclude con la marcia dei protagonisti verso il “punto del tempo”.

«Privato quindi della coscienza di reciprocità nella funzione spettatore-spettacolo, della possibilità di intervenire direttamente in questo falso rito, chiuso nell’asfissia di un “tempo senza realtà”, all'”urbano” oggi è concesso un solo atto: scegliersi totalmente al di qua del rito e viversi come spettacolo».[vii]

Paolo Scheggi, La piramide della metafisica, esposta in “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970”, a cura di Achille Bonito Oliva, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1970; immagine tratta dal catalogo di Ugo Mulas, Vitalità del negativo, foto di Ugo Mulas.

Scheggi vuole proporre un immersione totale del pubblico all’interno dell’azione che non riguardi semplicemente l’aggregazione in uno stesso luogo prestabilito, ma che consideri l’esperienza dell’evento da parte della comunità come un momento di vitalità che rifiuta la mera contemplazione. Molti sono i casi studio contemporanei che si avvicinano all’opera di Scheggi e che vogliono abbandonare gli spazi da sempre deputati all’arte per esplorare nuovi territori. Basti pensare all’esperienza del movimento di Architettura Radicale e in particolare a quella del gruppo fiorentino UFO, esemplificativa di un approccio diametralmente opposto a quello di Scheggi. Il gruppo fa delle tesi semiotiche di Umberto Eco – apprese durante le sue lezioni di Decorazione presso la Facoltà di Architettura a Firenze – la base per strutturare le proprie azioni sul suolo pubblico. Tra le prime azioni UFO si ricordano in particolare gli Urboeffimeri, realizzati in occasione dell’occupazione di San Clemente nel gennaio del 1968. Queste grandi strutture tubolari gonfiabili andavano ad unirsi alla parata studentesca denunciando la guerra americana al Vietnam e diventando un’icona della rivolta. I grandi oggetti effimeri navigavano attraverso la folla, mescolandosi ai movimenti dei partecipanti e diventando parte integrante dello spazio. Nonostante la contemporaneità delle azioni UFO e delle performance di Scheggi, questo si rapporta all’urbano e all’azione performativa in modo nettamente diverso, forse isolato, dalle varie esperienze che lo circondavano.

Paolo Scheggi, Della metafisica, lapide di ottone collocata sulla soglia della piramide, esposta in “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970”, a cura di Achille Bonito Oliva, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1970; immagine tratta dal catalogo di Ugo Mulas, Vitalità del negativo, foto di Ugo Mulas.

Se nella forma della parata e della marcia possono ritrovarsi simili condizioni di esperienza comunitaria, l’aspetto spiccatamente politico degli Urboeffimeri si discosta dalle azioni di Scheggi, che se anche fa del “politico” lo interiorizza e rilegge, concentrando la propria opera sull’aspetto del mistico, del religioso e del sacro, anch’essi sintomi della ricerca di nuovi ordini e di realtà migliori. «E se consacrare (sacrare) era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significava per converso restituire al libero uso degli uomini»[viii].

Ciò che le pratiche rituali in ambito performativo possono attuare oggi nel contesto urbano è proprio l’atto di profanazione come definito da Agamben, un atto politico che disattivi i dispositivi di potere e restituisca all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato, un atto che fornisca un nuovo punto di vista sulla città e sulla comunità che la vive, un rituale dagli uomini per gli uomini.

 

Il testo è stato realizzato per il corso di Museologia tenuto da Luca Cerizza al Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e come approfondimento in occasione del convegno e della mostra documentaria Campo Umano – Arte pubblica 50 anni dopo, a cura di Luca Cerizza e Zasha Colah, organizzati dalla Fondazione Antonio Ratti, che celebra e rievoca il cinquantesimo anniversario di Campo Urbano, la manifestazione artistica, a cura di Luciano Caramel con Ugo Mulas e Bruno Munari, che radunò molti giovani artisti delle più diverse tendenze per occupare gli spazi pubblici del centro storico di Como il 21 settembre 1969 per l’intera giornata.

Giordano Cruciani (Popoli, 1995) è laureato in Progettazione grafica e Comunicazione visiva all’ISIA di Urbino, frequenta attualmente il Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA Milano. La sua ricerca si concentra in ambito antropologico su pratiche rituali e comunitarie con uno sguardo al contemporaneo. La pratica artistico-curatoriale indaga le connessioni fra la tradizione e i suoi effetti sulla comunità per un nuovo approccio all’urbano. Fa parte attualmente del collettivo PRIMAFASE.

Paolo Scheggi e Franca Scheggi, in Itercamera plastica, all’esposizione “Paolo Scheggi. Intercamera plastica”, Galleria del Naviglio, Milano, 9-22 gennaio 1967, foto di Ugo Mulas tratta dal catalogo Paolo Scheggi. The humanistic measurement of space-La misura umanistica dello spazio, a cura di Francesca Pola (Skira, 2014).

note

[i] Paolo Scheggi, La città come tempo di spettacolo, in «Casabella», 339/340 (1969), p.94.

[ii] Giorgio Agamben, Profanazioni, Roma, nottetempo, 2015, p.96.

[iii] Teatro delle Mostre fu il titolo di una rassegna tenutasi nella Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis a Roma nel maggio 1968. Esponenti dell’avanguardia artistica italiana realizzarono una sequenza di opere ed eventi della durata di un solo giorno che volevano sovvertire la comune concezione di opera come oggetto mercificabile in sé, per mettere in discussione e ridefinire il ruolo della galleria d’arte, del gallerista, del critico, dell’autore e dello spettatore.

[iv] Giorgio Agamben, Profanazioni, ibidem, p.86.

[v] Bruno Corà, Paolo Scheggi: lo spazio avanti al buio, in Scheggi. Ferri-Tele-Carte 1957-1971, catalogo della mostra (Firenze, Galleria Il Ponte/Galleria Tornabuoni, 6 ottobre 2007-19 gennaio 2008), a cura di Bruno Corà, Firenze, Edizioni Il Ponte Firenze, 2007, p.16.

[vi] Paolo Scheggi, La città come tempo di spettacolo, ibidem, p.95.

[vii] Paolo Scheggi, ibidem, p.95.

[viii] Giorgio Agamben, ibidem, p.83.

 

 

 

 

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