The Missing Planet, intervista a Marco Scotini

A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla successiva dissoluzione dell’URSS, non si può evitare la domanda su come sia cambiato il mondo in questi decenni, privato della radicale alternativa che rappresentò per Settant’anni il Paese dei Soviet. Quello che allora doveva apparire come un nuovo inizio, di fatto, di nuovo aveva ben poco. Si trattò della negazione del cosiddetto Est in favore di un’affermazione egemonica dell’Ovest che, da quel momento, si sarebbe rivelato esclusivo e onnipotente. Che senso ha oggi ritornare al Pianeta Rosso in un momento in cui le “stelle” del capitalismo sono libere di muoversi lungo le proprie orbite, senza più pressioni o attriti con corpi “alieni”?

Alimjan Jorobaev, Mirages of the communism# 2,​ 1995. Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano.

L’esposizione The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, presso il Centro Pecci di Prato e in corso fino al 3 maggio 2020, si propone come attuale e ultimo capitolo di un’ideale trilogia post-sovietica. Nata dalla volontà della direttrice Cristiana Perrella di indagare e valorizzare il passato del museo, con Marco Scotini come curatore, affiancato dal conservatore delle collezioni Stefano Pezzato, The Missing Planet ha ricomposto una “galassia” di ricerche artistiche sviluppate intorno ai “tempi sovietici”, dagli anni Settanta ad oggi. L’organizzazione spaziale della mostra, con il display di Can Altay, si ispira alle strategie narrative del capolavoro di Tarkovsky “Solaris” in cui, nel suo viaggio interstellare, il protagonista Kelvin non fa altro che ritrovare il proprio passato.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet si trasforma in una strana macchina del tempo con la creazione di un percorso circolare (come un’orbita planetaria) per cui l’itinerario espositivo comincia a ritroso partendo dall’ultima generazione di artisti russi attraversando poi la fase della disillusione postsovietica, fino agli anni Ottanta quando, mentre il sistema dell’arte di Mosca era ancora dominato dall’arte “ufficiale”, alcuni artisti si ritenevano esplicitamente dissidenti o anti-sovietici e molti altri si ritrovavano in posizioni più sfumate o apolitiche.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Quando l’arte contemporanea era minoritaria e si definiva arte non ufficiale e anticonformista, il gruppo APTART, tra anti-show, azioni e performance, sceglieva lo spazio dell’appartamento come luogo di produzione ed esposizione del proprio lavoro. Le loro azioni venivano raccontate come “working expositions”, “anti-show”, “exhibition-nonexhibitions” o “apartment art”, e molte avvenivano all’aperto. A questa fase, prima che Gorbačëv salisse al potere con la perestrojka, seguirà il collasso dell’Unione Sovietica e dei regimi comunisti nell’Europa Orientale, la nostalgia e il fallimento: una “rivoluzione in rewind” come l’ha chiamata Habermas, metafora che chiaramente evoca una macchina del tempo e suggerisce che le rivoluzioni democratiche del 1989-90 abbiano riportato indietro (e riavvolto) la storia recente a quel momento che ha preceduto l’arrivo del comunismo. Come diceva Benjamin, il pericolo minaccia sia il deposito della tradizione e della memoria, sia chi la riceve. Per entrambi è uno solo e lo stesso: diventare lo strumento delle classi dominanti.

Abbiamo intervistato il curatore Marco Scotini.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet è una mostra sul tempo che attraversa differenti regimi di temporalità (dal tempo storico documentale, alle proiezioni retro-prospettive di un futuro al di là del presente, o di un passato che ritorna), sia concettualmente che nella struttura espositiva, per interrogare e scomporre le tre unità costitutive del teatro classico (e della Modernità): unità di tempo – appunto – di spazio e di narrazione…Se il tempo dello spettro è molteplice, come hai sviluppato (o governato) questo discorso sulla temporalità (e l’agire sul tempo), che da sempre costituisce un’angolatura teorica con cui guardare alle fenomenologie estetico-politiche nel tuo lavoro curatoriale?

Marco Scotini: Definire “The Missing Planet” una “mostra sul tempo” mi sembra la migliore sintesi concettuale che se ne possa dare. Innanzitutto credo che quel confine che ha diviso Est e Ovest, per quanto geograficamente situato, vada pensato soprattutto come un bordo temporale: non soltanto in rapporto al prima e al dopo Guerra Fredda, con tutte le trasformazioni geopolitiche che tale passaggio ha comportato su scala mondiale. Ma anche in rapporto alla stessa istituzione del pianeta URSS – dalla Rivoluzione di Ottobre al suo collasso nel 1991 – che ha definito un tempo storico coerente, ha designato un mondo. Un mondo che, con la propria fine, ha segnato anche quella di un’intera epoca: ciò che Eric Hobsbaum ha chiamato il “Secolo breve”.

A questa dimensione temporale dobbiamo però aggiungerne un’altra: la storia del Museo Pecci con le precedenti mostre dedicate alla scena artistica sovietica e post-sovietica. La prima, del 1990, dal titolo “Artisti Russi contemporanei” (curata da Amnon Barzel e Claudia Jolles) e la seconda del 2008 con il titolo “Progressive Nostalgia” (curata da Viktor Misiano). Due tempi tanto vicini quanto opposti se è vero che nel 1990 si salutava con entusiasmo la fine della cosiddetta “anomalia europea” tra Est e Ovest, mentre nel 2008 (a transizione avvenuta) si verificava con rammarico che quella che avrebbe dovuto essere una “ristrutturazione” (Perestrojka) si era risolta in una liquidazione dell’Est a vantaggio dell’egemonia liberista dell’Ovest (con i suoi valori di mercato, la sua idea di democrazia e di modernità).

Avendo visitato entrambe le mostre, si è trattato anche di mettere in gioco una memoria personale; la memoria di chi era stato subito indotto ad attraversare tutte quelle province rosse che dall’Europa Centrale si estendevano al Centro Asia, dall’Istria a Vladivostok, ansioso di conoscere le rovine di quello che per molti era stato il “regno del male”, mentre per molti altri aveva rappresentato il vessillo del bene.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

E questo non è che un altro gap temporale. Come poter mettere in scena il divario tra ciò che realmente è stato e ciò che avrebbe potuto essere e non è avvenuto? Come poter mettere in scena qualcosa che abbiamo definitivamente perduto o che non abbiamo mai posseduto? Abbiamo a che fare con un condizionale passato o un passato remoto? Con qualcosa comunque “out of the present”, come recita il video di Ujica? Come raccontare ciò che non è accaduto ma che era atteso, promesso, immaginato? C’è in gioco un regime di possibilità, un regime di volontà oppure di necessita? È impossibile uscire da queste diacronie e sincronie, da queste relazioni di non-concordanza verbale, dai tempi molteplici e intrecciati, se non a costo di essere reazionari, riduzionisti, velleitari.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Per questo l’intera mostra “The Missing Planet” cerca di articolarsi in un percorso a ritroso – dall’attualità agli anni Ottanta; fa coesistere tempi diversi (e in attrito) al suo interno, lascia indefinito il confine tra presente e passato. Colloca il pubblico in una rete di relazioni, in una serie di rispecchiamenti reciproci (Vidokle che cita Tarkovskij, Tarkovskij che ritorna in Narkevcicius, Andrei Ujica che documenta il viaggio dell’ultimo astronauta sovietico e così via all’infinito). Si apre con una sezione sull’immortalità (uno spazio di redenzione) e si chiude con l’opera “L’ultima cena” di Andrey Filippov dell’89, quale espressione della fine del comunismo o della sua idea.

Andrey Filipov, L’ultima cena, 1989⁠. Collezione Gori, Pistoia.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Se il potere sovietico aveva abolito la proprietà privata e l’Unione sovietica era una sorta di Gesamtkunstwerk (Groys) di una società creativa, oggi la Russia post-sovietica e post-comunista è un paese capitalista dominato da interessi privati e segnato da una politica dello stato repressiva e autoritaria. Non è tanto il revenant del marxismo quanto il problema della sua eredità che si condensano subito in un’apparizione fenomenica, quella della rivoluzione come possibilità ideale, sospesa per un tempo a venire. Ritornano gli spettri del comunismo: è il passato in cui non è più possibile vivere, ma anche il passato da cui è impossibile sfuggire… Dunque a cosa allude “Missing” del titolo?

MS: “The Missing Planet” doveva essere una mostra pensata per il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino mentre, per una strana ironia della sorte, l’opening è venuta a coincidere con il 7 novembre, commemorazione della Rivoluzione russa, purtroppo cancellata dall’agenda post-sovietica. Proprio questo è lo spettro che aleggia per tutta l’esposizione.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Tanto più si è cercato di sbarazzarsi frettolosamente di quella storia, tanto più si è cercato di cancellarne le tracce (alla leninoclastia abbiamo dedicato un’intera sala), quanto più i suoi fantasmi tornano ad aggirarsi sopra questa catastrofe del capitalismo e sopra questa violenta liquidazione della democrazia attraverso l’ultimo step del neoliberismo.

Se le rovine superstiti di quella storia sono sempre meno, gli spettri sono sempre di più. Chi oggi potrebbe mai considerare la rivoluzione come un cumulo di macerie? La parola stessa è stata fatta sparire dai programmi politici, dalle riflessioni teoriche, dalla memoria collettiva. Per questo l’aggettivo “missing” sta tanto per “perduto” quanto per “mancante”.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Solaris (1971) di Andrej Tarkovskij a cui ti sei ispirato, apre e chiude l’intera esposizione come una sorta di framework narrativo: molteplici registri di lettura e di visione a partire dalla riflessione sul potere e i limiti impenetrabili della coscienza: nel silenzio dell’universo infinito il protagonista non riesce a liberarsi di una proiezione che non smette di riapparire seppur nello stadio invisibile del paradigma del fantasma. Ci racconti di Solaris?

MS: Sono sempre attento al contesto in cui una mostra viene prodotta. Anzi credo che una mostra debba essere necessariamente “situata”, innestata all’interno di un corpo connotato da una certa estensione territoriale, da una certa memoria locale, da modi di produzione specifici. Nel caso di “The Missing Planet” anche l’architettura del Museo Pecci è diventata, come tale, parte di questo corpo. Il recente ampliamento di Maurice Nio ha trasformato il Centro in una sorta di futuristica navicella spaziale di color bronzo, in grado di creare un corto circuito con tematiche come quelle del cosmismo russo, da qualche anno al centro del dibattito artistico internazionale. A questo dato si è associata immediatamente l’immagine di “Solaris” del grande Tarkovskij. Quello che l’astronauta Chris Kelvin trova nella stazione spaziale non è nulla di nuovo o fantascientifico ma è il proprio passato, sotto forma di fantasma. Allo stesso modo il Centro Pecci avrebbe dovuto ospitare al suo interno la storia delle sue mostre, la riemersione delle opere sepolte nella propria collezione, un archivio di documenti. Dunque nulla meglio di questo film per creare una cornice spaziale, temporale e narrativa alla mostra. Poi, il grande regista russo aveva scelto Firenze quale ultima dimora dove aveva montato “Sacrificio”, mentre alla Toscana aveva dedicato “Nostalghia” nel 1983. Suo figlio, con cui siamo stati in rapporto, aveva potuto raggiungere Andrej in Italia nel 1986 grazie a Gorbaciov e dopo una serie infinita di veti. Non si finirebbe mai di aggiungere tempo al tempo e la rete degli incroci e delle sovrapposizioni diventa sempre più intricata, irrisolvibile.

Non è un caso, dunque, che l’idea del tempo in Tarkovskij sia diventata un modello da seguire per articolare l’esposizione. Tematiche cosmiste si ritrovano nella sua stessa concezione di cinema quando sostiene che l’uomo, grazie a esso, abbia finalmente ricevuto nelle sue mani la matrice del tempo reale: qualcosa da registrare e riprodurre all’infinito, in modo tale da poterlo conservare.

Ma l’aspetto del film che ci ha maggiormente riguardato è quello relativo alla coincidenza tra viaggio nel cosmo e divenire umano, che poi è la stessa missione di Kelvin. L’ossessiva serie di apparizioni fantasmatiche (gli ospiti) è un segno di come lo spazio anti-gravitazionale risulti impossibile, come tale. “In un certo senso, a differenza di Lem – afferma Tarkovskij – non volevamo guardare lo spazio, ma la Terra dallo spazio”.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Seguendo un’ellissi discorsiva e temporale con punti di rottura e discontinuità, le tre sezioni con cui si articola il percorso espositivo – Viaggi spaziali in un altro mondo (il museo, il cinema, il cosmo); Lo spazio post-sovietico e la transizione impossibile e infine Lo spazio della prestrojka e la fine di un mondo – ci consentono una riflessione sull’exhibition display che hai sviluppato con Can Altay: fessure e punti di osservazione, successioni di sequenze e rispecchiamenti nello spazio, strutture espositive che fungono da marcatori spaziali e supporti di prossimità per diverse tipologie di opere e documenti: che scenario avete voluto ricostruire (o decostruire) attraverso la macchina espositiva che ci proietta indietro nel tempo ma anche in avanti in uno spazio intergalattico che diventa eterno? Quale ruolo assume il display in The Missing Planet?

MS: L’exhibition display di Can Altay risulta fondamentale all’interno dell’esposizione: una sorta di opera d’arte che catalizza tutte le altre, non sovrapponendosi ad esse ma definendo ciascuna nella propria autonomia e in una combinabilità che, ogni volta, agisce su differenti variabili. Strumenti spaziali e dispositivi narrativi, allo stesso tempo, questi elementi che mettono in scena l’intero racconto, lasciano aperti molteplici riferimenti, citazioni, assemblaggi possibili. Attraversare questo spazio significa trovarsi in un set cinematografico, in un museo sovietico modernista, in un appartamento moscovita, ecc. Se le strutture a griglia rimangono le stesse per tutta l’estensione della mostra, articolano però tre macro aree relative alle sezioni espositive con tre differenti colori e supporti appena diversificati. Si passa dall’idea della navicella spaziale iniziale a quella del laboratorio (politico, sociale, interventista) della fine anni ’90 e del decennio successivo, fino ad una idea più domestica relativa all’Apartment Art non ufficiale degli anni ’80. Queste strutture spaziali non solo esibiscono sé stesse ma rendono visibili anche le tecniche espositive e mostrano recto e verso di ogni opera. Dovendo pensare ad una mostra di mostre, risulta chiaro come questo allestimento contribuisca a definire un teatro di forze temporanee in grado di attivare un diverso rapporto tra soggetti e oggetti in esposizione.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019; teca documentaria con materiali di Valentina Tereshkova la “donna delle stelle” che il 14 giugno del 1963 divenne la prima cosmonauta a viaggiare nello spazio.

Uscendo dalla mostra, attraverso le incomplete narrative che la transizione post-socialista ci ha consegnato alla storia, iniziamo a prendere seriamente in considerazione la possibilità della sua ri-apparizione dopo essere stati attraversati da una moltitudine di enunciati visuali-semiotici, rappresentazioni museologiche, oggetti e installazioni che percorrono il desiderio di immortalità, nella riemersione delle teorie sul Cosmismo russo e non solo. «In un’intervista realizzata tra Zhilyaev e Vidokle, il primo chiede al secondo ‘Per me una delle domande più intriganti per l’artista contemporaneo che lavora con il cosmismo russo, o uno che è interessato a raggiungere una condizione non umana nell’arte è: Vuoi veramente essere immortale? Perché per me, come evento conscio, la morte è uno dei punti più cruciali dell’umanità. Puoi immaginarti la tua vita artistica senza morte o invecchiamento?’». Tu cosa risponderesti?

MS: Non credo che il problema riguardi solo la vita artistica ma la vita in quanto tale. E il pensiero della fine anche per me è stato ed è tutt’ora centrale. Mi torna sempre in mente un passaggio che ho letto tanti anni fa ne “Le Lettere dal carcere” di Gramsci. Siamo nel 1933 e Gramsci è già in preda alla malattia quando in una lettera alla cognata Tanja Schuscht (tanto per rimanere in Russia) racconta un suo delirio notturno che aveva avuto come unico testimone un operaio di Grosseto.

“Pare che per un’intera notte – scrive – ho parlato dell’immortalità dell’anima in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie e come un incorporarsi di esse, all’infuori della nostra volontà, al processo storico universale”.

Inutile dire quanto questa frase per me sia stata importante per pensare il “comune”: non solo in senso spaziale ma anche temporale. Questo comune che continuiamo a condividere con tutti coloro che ci hanno preceduto e con quelli che ci succederanno. Questo comune che, soprattutto, continua ad essere potenza, allo stato virtuale rispetto al nostro attuale che, come tale, viene rimesso sempre rimesso in discussione da questa latenza. Non è un caso che Silvia Federici in un testo recente scriva: “la storia stessa è un common, anche quando ci parla del modo in cui siamo stati divisi”. O ancora: la storia non è altro che “il nostro corpo esteso”.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Il processo politico di transizione iniziato dopo il 1989 nei paesi dell’Europa post-socialista, interpretato come la conservativa resistenza all’Ovest liberal-democratico contro un inequivocabile modello di modernità, è stato, da una sola parte (la nostra), osservato come l’allineamento dall’alto verso il basso della governamentalità dell’Est. Cioè dentro l’ordine politico e culturale dell’Ovest. In quella che è stata indicata come la fine, o la cessazione, della condizione post-comunista, The Missing Planet segna un nuovo capitolo espositivo che travalica sia le retoriche neocoloniali ed egemoniche della guerra fredda che le trappole della nostalgia: come si colloca la mostra al Pecci rispetto alla tua decennale ricerca sull’Est?

MS: Credo che tutte le mostre che ho curato abbiano avuto a che fare (direttamente o indirettamente) con il collasso del comunismo. Anche quelle attuali a carattere geopolitico (su Africa, Cina, Medio Oriente e Sud Est Asiatico) non sarebbero pensabili senza relazione con il crollo dell’assetto bipolare del mondo precedente. D’accordo con Mezzadra, se questo assetto è entrato in crisi non si deve tanto al tentativo della cancellazione dei confini nazionali da parte del capitale, ma al fatto che il capitale ha prodotto la loro proliferazione. Non faccio altro che ritornare, ogni volta, a quel punto.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, 2019, veduta dell’esposizione, Centro Pecci, fotografia: Ela Bialkowska, OKNOstudio.

Nonostante tutto, non saprei dire, al momento, quello che unisce-divide la mostra “Der Prozess” o “Il Piedistallo Vuoto” o le altre sull’Est Europa a “The Missing Planet”. Quello che sicuramente so è che con “The Missing Planet” volevo registrare un’assenza incolmabile. La totale cancellazione, da parte del capitale attuale, di ogni idea di alternativa, non dico percorribile ma almeno immaginabile.

La nostra idea di emancipazione, per quanto radicale ma fuori dal modello rivoluzionario, è diventata totalmente funzionale all’espropriazione capitalista che integra e confonde femminismo e fashion, ecologismo e tecnologia, autonomia e subordinazione servile, libertà con regime securitario.

Le disuguaglianze di ridistribuzione economica stanno ritornando a livelli premoderni. Il problema in tutto questo non sono le destre populiste e neonazionaliste, emergenti ovunque: conosciamo il loro ruolo e lo sanno fare particolarmente bene. La vera preoccupazione attuale è quella di una sinistra che si ostina a pensare la possibilità di un connubio tra neoliberismo ed emancipazione. Senza rottura, senza rivoluzione.

 

L’immagine di copertina è di Vyacheslav Akhunov, Red Mantra CCCP We will reach the victory of the Communist labor, 1979. Courtesy Laura Bulian Gallery.

Marco Scotini, Vladislav Shapovalov e Can Altay.

Marco Scotini e Anton Vidokle.

Marco Scotini, Erik Bulatov e Stefano Pezzato.

Andrej Tarkovsky Jr, Andris Brinkmanis, Erik Bulatov e Marco Scotini.

 

 

 

 

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