Comunque nude. La rappresentazione femminile nei monumenti pubblici italiani

Conversazione a cura di Chiara Mastelli e Francesca Tripoli.

Se è vero che i monumenti rappresentano il dominio simbolico che una cultura intende lasciare alla posteriorità, quali valori incarna il nostro spazio pubblico? E soprattutto, qual è l’immagine della donna che emerge dalla sua raffigurazione nell’immaginario, nel collettivo e nell’urbano? Attraverso una conversazione con Maria Baruffetti, Rosanna Carrieri, Alexandra Forcella, Ester Lunardon e Ludovica Piazzi, tra le autrici di Comunque nude. La rappresentazione femminile nei monumenti pubblici italiani, edito da Mimesis e curato da Ester Lunardon e Ludovica Piazzi, abbiamo cercato una risposta a queste domande. Il libro nasce da un’indagine, svolta dall’associazione Mi Riconosci? e dal censimento delle statue pubbliche italiane dedicate a figure femminili. Ciò che è emerso, senza troppe sorprese, è che le donne sono scarsamente presenti nei monumenti delle nostre città e, spesso e volentieri, sono rappresentate svestite, attraverso un’iconografia estremamente sessista, in posizioni (nella storia e nella cultura) ancillari e subalterne, oggettificate ai piedi di eroi di guerra o comunque sempre un passo indietro a figure maschili valorose e leggendarie. Dalla Spigolatrice di Sapri, alla Violata ad Ancona, dalla Lavandaia di Bologna a, perfino, le statue dedicate alle giornaliste Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, assassinate in zona di guerra, hanno tutte un elemento in comune: sono completamente nude o seminude, in atteggiamenti spesso sensuali e lascivi, o sottomessi. Il problema non è soltanto la nudità, di cui la storia dell’arte è piena. Tuttavia, non tutti i nudi sono uguali. C’è una distanza tra i nudi classici e la riproposizione reificata di oggi. Ad esempio, la Venere di Milo è svestita per ragioni discutibili e legate al suo mito; tra le statue censite che adornano le nostre città il nudo non è necessario ai fini della narrazione, lo è solo per compiacere uno sguardo maschile voyeristico ed eterosessuale. L’espressione Male Gaze, che dobbiamo a Laura Mulvey, non è solo lo sguardo maschile, è lo sguardo sociale. È il modo in cui la società guarda se stessa.

Se la donna è assente nella celebrazione monumentale e commemorativa (e nella memoria) pubblica, le sole raffigurazioni femminili concesse nel passato sono state madonne e sante, trasfigurazioni allegoriche della Patria e della Vittoria, madri e donne piangenti. Lo spazio pubblico, con le sue narrative e configurazioni sociali, non è mai stato neutro e ancora oggi ci racconta una storia che è fatta solo di conquistatori, guerrieri, letterati e qualche volta donne, rigorosamente svestite.

Qual è secondo voi il caso più eclatante, tra gli esempi citati, di rappresentazione del femminile nelle statue italiane che avete censito, che mortifica l’immagine della donna attraverso narrazioni egemoniche e sessualizzate, esprimendosi attraverso un linguaggio, visivo e culturale, fallocentrico?

Alexandra Forcella: La maggior parte delle statue che abbiamo censito propongono immaginari mortificanti, in quanto sono quasi tutte opere di uomini poco, se non per nulla, decostruiti a livello politico ed è inevitabile che risentano dello stesso tipo di sguardo che il sesso privilegiato volge al corpo femminile da millenni: l’opera dell’artista, e quindi di fatto la sua idea, è tanto criticizzabile quanto qualsiasi altra presa di posizione sociale e per questo necessita di una lettura femminista che tolga un po’ di polvere alla pretesa dell’artista di rappresentare tutto quello che vuole, come vuole. Queste statue non sono portatrici di nulla, se non del loro corpo. Semanticamente, che siano nude, vestite, sessualmente appetibili per gli standard occidentalizzati o amorfe sono comunque ridotte al solo corpo di genere femminile. Per linguaggio visivo, il caso più raccapricciante che subito mi si para in mente è quello della Maestà Sofferente, opera di Gaetano Pesce e installata a Ferrara l’8 marzo 2021, dedicata alla violenza di genere: l’autore rappresenta un enorme corpo rosa, gonfio e trafitto come un puntaspilli da 400 frecce, circondato da sei fiere e incatenato al suolo con una palla di ferro. La donna viene riproposta come un oggetto inanimato e privo di contorni di rilevanza simbolica se non quelli che rimandano all’immobilità (e se vogliamo all’ambiente domestico), mentre l’uomo può immedesimarsi in una delle sei fiere pronte a divorarla (o tutte!). Questa, come altre opere, è stata oggetto di dissensi pubblici importanti, sia per il suo linguaggio visivo, sia per quello che comporta l’uso di questo linguaggio nello spazio pubblico, ma la moneta della visione dell’artista ha avuto un peso maggiore del dibattito pubblico, per cui l’elaborazione femminista viene fatta spesso passare per ignoranza verso il valore artistico dell’opera.

Gaetano Pesce, Maestà Sofferente, Ferrara

Per lo stesso motivo mi sembra interessante citare anche la Lavandaia di Via della Grada a Bologna e la Violata di Ancona, anche loro oggetto di azioni di denuncia. La prima, opera di Saura Sermenghi ha per soggetto una donna nuda inginocchiata dentro una bacinella e nasce con l’intento di celebrare la figura della lavandaia, di “trasformare l’atto del lavare i panni in un tema simbolico di purificazione” e di svelare lo sguardo morboso che gli uomini storicamente riservavano alle donne intente nella mansione. A livello visivo si ha un corpo di donna nudo, in ginocchio e chino dentro una vaschetta. In questo caso tra “smascherare” e “acquisire” lo sguardo violento il confine non è così labile e il risultato si conferma come simbolicamente mortificante.

La lavandaia di Bologna

Stesso vale per Violata, opera di Floriano Ippoliti, inaugurata in dedica a tutte le donne vittime di violenza; purtroppo, ritraendo una donna dal corpo conforme ipersessualizzato e coperto solo da brandelli di veste che lasciano scoperti seno e sedere, risulta un simbolo disturbante e un’immagine violenta per le stesse persone a cui doveva essere dedicata, ma non solo. A chi possono far bene delle statue così? A livello pubblico siamo inevitabilmente spinte all’immedesimazione in uno schema fisso in cui la donna, astratta a puro genere, viene disumanizzata fino a scomparire, mentre l’uomo può rispecchiarsi nei mille volti della violenza. Le “nostre” statue confermano lo stereotipo per cui la donna è debole e inerme, predestinata a essere una vittima; fomentando nelle persone socializzate come donne la paura, rafforzano l’idea della natura dell’uomo aggressivo e i pregiudizi di genere.

Non Una Di Meno Transterritoriale Marche, azione sulla scultura della Violata, Ancona, 6 maggio 2023

Statue abbattute, musei occupati e proteste nelle piazze di tutto il mondo: tra i casi di riappropriazione dello spazio pubblico e di autorappresentazione che avete indagato, quale o quali sono i più significativi?

Rosanna Carrieri: C’è una premessa fondamentale da fare: la riappropriazione dello spazio pubblico passa innanzitutto da pratiche di protesta, da rivendicazioni, da corpi che compiono azioni e che, in qualsiasi forma, occupano le piazze. Noi abbiamo optato per soffermarci soprattutto sulle pratiche artistiche e performative, che abbiamo ritenuto sconfinassero in pratiche politiche. Del resto, il femminismo ci ha insegnato che il personale è politico, e – aggiungerei – anche l’artistico è politico.
 Un’opera d’arte, un monumento, un’architettura, un’opera letteraria, ha un suo tempo e un suo spazio e un forte valore simbolico. È quel simbolo che viene attaccato, non solo in anni più recenti, quando ad esempio si colpiscono le statue, ce lo ha dimostrato quanto accaduto a Bristol con l’effige in bronzo dello schiavista Edward Colston, abbattuta durante le proteste nel 2020; questione che poi è stata portata in processo e si è risolta con l’assoluzione dei quattro manifestanti accusati; un processo che, come si è scritto, si è delineato come un processo alla storia della città, con attenzione alle istanze di cittadini e cittadine che attraversano quelle strade.

I manifestanti fanno rotolare la statua di Edward Colston verso il fiume Avon a Bristol, Regno Unito, 7 giugno 2020
L’abbattimento del monumento a Edward Colston: il momento in cui la statua di bronzo viene gettata nelle acque del porto di Bristol, 2020
L’abbattimento del monumento a Edward Colston: il momento in cui la statua di bronzo viene gettata nelle acque del porto di Bristol, 2020

Guardando all’Italia si può fare riferimento ai diversi attacchi alla statua di Indro Montanelli nei giardini pubblici di Porta Venezia di Milano: dal 2012 ci sono state contestazioni fino al più recente blitz fatto da Extinction Rebellion; la più nota nel 2020, quando il gruppo milanese di Non una di meno ha lanciato della vernice rosa sul bronzo, aggiungendo poi in strada la frase “Colonialismo è stupro”. Fatto noto anche perché proprio a gennaio le due attiviste accusate sono state assolte. Una statua così contestata, che è simbolo di sfruttamento di territori, persone, risorse (lo hanno detto bene gli attivisti e le attiviste di Extinction Rebellion), dovrebbe essere apripista per un dibattito che ancora stenta ad affermarsi. Perché non sono state lasciate le verniciature a rappresentare nuove stratificazioni di un sentire evidentemente comune? O ancora, perché un dibattito partecipato sull’eventuale rimozione della statua non è stato davvero mai aperto?
Aggiungo ancora che la statua di Indro Montanelli non è neppure soggetta a vincolo, è un bronzo del 2006, quindi anche recente. Nel volume abbiamo scelto di indagare alcuni episodi di sconfinamento tra politica e arte, da Rivolta femminile a Mirella Bentivoglio a CHEAP, senza tralasciare la fondamentale e internazionale esperienza delle Guerrilla Girls, a voler sottolineare che si tratta sì di fenomeni contemporanei ma ormai anche storicizzati. Le piazze e le strade, insieme alle statue, ma anche ai luoghi pubblici quali musei, biblioteche, scuole, università, sono oggi emblemi di tensione tra la sacrosanta necessità pubblica e la spinta privata e privatizzante. Le istanze di riappropriazione collettiva (e inclusiva) sono tante, spesso sedate. È nostro compito continuare a parlarne e a parteciparle.

Non Una Di Meno, azione con vernice rosa lavabile sulla statua di Indro Montanelli, Milano, 8 marzo 2019
«Oggi noi rinominiamo i giardini pubblici Indro Montanelli, GIARDINI TRANSFEMMINISTI DESTÁ di Saganèiti, spodestando Indro Montanelli dal suo tronfio trono e ricordandolo come quello che è: uno stupratore pedofilo del periodo coloniale», Non Una Di Meno, 8 marzo 2020.


Un bellissimo esempio, in questo senso, è il caso dell’Anti-monumento che si trova a Città del Messico (che anche citiamo nel libro), la Glorieta de las Mujeres que Luchan realizzato nel 2021: la statua di Cristoforo Colombo è stata rimossa dal suo alto piedistallo, su cui, in sostituzione, le attiviste e artiste femministe hanno posto la sagoma di una bambina col pugno alzato che rivendica “justicia”. La sua rimozione è stata da subito minacciata, ma l’anti-monumento è ormai diventato un simbolo, ha unito battaglie e per ora (dopo l’annuncio di fine giugno sul suo mantenimento) rimarrà a rappresentare le donne che lottano.

Glorieta de las Mujeres que Luchan (La rotonda delle donne che lottano) e installando sullo stesso piedistallo che fino a un anno prima ospitava la statua di Cristoforo Colombo una statua stilizzata di una giovane ragazza con i capelli corti e il pugno alzato verso il cielo, Città del Messico, 2021.
Glorieta de las Mujeres que Luchan (La rotonda delle donne che lottano), Città del Messico, 25 settembre 2021.

I miti antichi oggi: Come può essere declinato l’episodio biblico di Susanna e i Vecchioni nella nostra società in relazione alla statuaria pubblica?

Ludovica Piazzi: Susanna e i Vecchioni è un soggetto molto diffuso nell’arte dal Rinascimento in poi e pensiamo sia particolarmente emblematico di un certo sguardo sul corpo femminile. Stando al racconto biblico Susanna si sta lavando nel giardino di casa, quando due vecchi giudici colleghi del marito la spiano e poi la minacciano affinché si sottometta alle loro voglie. La minaccia è quella di accusarla di adulterio condannandola così alla prevista pena di morte per lapidazione. Susanna non cede e deve effettivamente difendersi in tribunale dove ha salva la vita grazie all’intervento del giovane Daniele. Nei dipinti Susanna è quasi sempre rappresentata nuda mentre viene spiata, minacciata o molestata dai vecchi. Si tratta inoltre di un soggetto diffuso in maniera sproporzionata rispetto all’importanza dell’episodio biblico, di cui raramente sono rappresentati altri momenti. Quale sia la ragione principale di questo successo si comprende dalla committenza: Susanna nuda non si trovava mai in chiesa, ma era appesa nelle case di uomini abbienti. Era sì un pretesto per avere un corpo femminile giovane e nudo in casa, ma non solo: Susanna è una preda.

Guerrilla Girls, Guerrilla and the Elders, 1998

Il suo corpo è infatti esplicitamente spiato, come lo è quello di Diana che fa il bagno con le sue ninfe quando viene sorpresa da Atteone, o come lo è quello di Betsabea che si lava, spiata da Re David. Abbiamo in tutti i casi uomini, vestiti, che sono soggetti attivi che infrangono la tranquilla intimità di donne, spogliate, che subiscono quell’azione. Dai vecchi giudici ai Pierino della commedia sexy che spiano dalla serratura il passo è piuttosto breve: ritroviamo lo stesso schema, la stessa disparità, lo stesso punto di vista, male gaze, lo stesso oggetto di attenzione.

Questo rapporto di potere è frutto della stessa relazione tra committente/autore dell’opera, che è vestito e agente, e modella, che è spogliata e passiva. E quando questo corpo spogliato arriva in una piazza pubblica la violenza di questa disparità risalta con ancora più evidenza. Benché tradotto in pietra o metallo quel corpo infatti ora se ne sta fermo e inerme, in uno spazio quotidianamente attraversato da persone vestite. In alcuni casi, come quello della Violata di Ancona, il risultato è particolarmente straniante.

C’è un monumento che è perfettamente in linea con la storia di Susanna, e ancora di più con Pierino, dedicato al tortellino. Si trova a Castelfranco Emilia, in provincia di Modena e rappresenta la presunta leggenda della creazione del piatto: un oste osserva l’ombelico di Venere e ne trae ispirazione per la forma del tortellino. Ne racconta però una versione pasticciata in cui Venere viene spiata nuda attraverso una serratura. La serratura è qui un elemento necessario allo scultore: oggi siamo talmente abituati a vedere corpi femminili nudi accanto a corpi maschili vestiti che senza non avremmo capito che l’oste stava osservando Venere.

Monumento al Tortellino, Castelfranco Emilia.

A chi fanno male questi monumenti femminili? (Si interroga Ester nel suo saggio): nelle statue, così come nel sistema mediatico, nella pubblicità e in qualsiasi altro registro visuale della nostra società, domina un immaginario sessista ed eteronormato. Quali sono gli effetti che questo atteggiamento, frutto di una cultura patriarcale, ha prodotto nelle nuove generazioni?   

Ester Lunardon: È difficile rispondere a questa domanda, perchè la nostra ricerca non si è sviluppata in questo senso. Quello che abbiamo evidenziato è più semplicemente che, negli ultimi decenni, i modelli offerti dalla nostra statuaria pubblica si sono sempre più uniformati a canoni massmediatici, anche per effetto del fatto che a commissionare le opere più recenti sono, in grande maggioranza, privati. In altre parole, abbiamo rilevato che un immaginario di stampo massmediatico, calandosi nelle forme tradizionali del bronzo e del marmo, abbia invaso il campo della statuaria pubblica, già patriarcale, ma tradizionalmente improntato a uno stile diverso, più magniloquente che ammiccante, più pomposo che instagrammabile. Detto questo, non penso che le giovani generazioni di oggi subiscano gli effetti di immaginari sessisti più di quanto ne abbia risentito la generazione di cui faccio parte, cresciuta con la tv degli anni ’90. Forse il cambiamento principale, rispetto ad allora, è l’ampiamento della tendenza a oggettificare i corpi al mondo maschile: da quanto appare dai modelli massmediatici più recenti, è anche il corpo maschile a essere sempre più sessualizzato secondo norme standard che lo sottopongono a pressioni che in passato venivano rivolte quasi solo alle donne. Ma questa è una considerazione a parte, che non emerge dal nostro lavoro sulla statuaria pubblica. Quello che invece abbiamo rilevato, in termini di evoluzione nel tempo, è un passaggio da collocare negli anni ’90: la statuaria degli ultimi trent’anni ha infatti dei caratteri di diversità rispetto al passato, e cioè vede un aumento esponenziale delle nuove opere, un aumento esponenziale delle committenze private e, come già detto, una diffusione di linguaggi massmediatici nelle vecchie forme della monumentalità pubblica. Sono fenomeni che coincidono nel tempo con l’affermazione in Italia di politiche neoliberiste, che sicuramente fanno da cornice generale alle trasformazioni della statuaria pubblica, e anche con l’introduzione delle rotatorie nel nostro sistema viario (la prima è del 1989), da allora diventate “luogo di nessuno” da riempire fondamentalmente con opere qualsiasi. Negli ultimi trent’anni, tramite la statuaria pubblica, che comunque è un canale di comunicazione debolissimo rispetto ai massmedia, le istituzioni hanno avuto la tendenza a confermare passivamente, nella cittadinanza tutta e specialmente nelle nuove generazioni, modelli già pervasivi.

L’inaugurazione del monumento alla Spigolatrice di Sapri

Il sessismo istituzionalizzato: La statua nello spazio pubblico ha una caratteristica peculiare, e cioè la forza istituzionale. Anche se spesso commissionata e finanziata da privati, essa sarà percepita come modello con una forza e un’autorevolezza proporzionale a quella delle istituzioni pubbliche. Quello della statuaria pubblica è quindi un caso paradigmatico in cui si può parlare in senso pieno, letterale, di sessismo istituzionalizzato. Ci raccontate la vostra posizione? 

Ester Lunardon: Secondo la teoria femminista il sessismo è sistemico e istituzionalizzato, nel senso che il modo in cui è organizzata la nostra società si fonda su rapporti di potere patriarcali e li riproduce. Il sessismo non è contingente ma strutturale, permea le nostre istituzioni sociali, compresa quella statale. Il sessismo della nostra statuaria pubblica è quindi istituzionale non solo in quanto tale, ma anche in senso letterale, in quanto espressione diretta delle istituzioni pubbliche. Se, da un lato, esso è più grave, dall’altro non stupisce affatto, anzi dimostra ancora una volta il proprio carattere sistemico e fondante, che è proprio quello che di solito risulta difficile da cogliere. La statuaria pubblica ci offre, in questo senso, un’occasione particolarmente favorevole per sviluppare una coscienza critica femminista, mostrando con una chiarezza preziosa la sistematicità del sessismo.

Il mare, la sirenetta di Monopoli

Maria Baruffetti: Il sessismo istituzionalizzato è di fatto un tarlo, una “deriva di costume” spesso inavvertibile, ma ad un esame più attento il sessismo dilaga anche grazie all’ingenuità di lettura delle tematiche proposte per molte opere a soggetto femminile. Queste ultime sono spesso studiate da industrie artistiche che non avvertono alcuna responsabilità, né una particolare possibilità di espressione nella commissione che viene affidata loro.

Nel nostro censimento sui monumenti inaugurati tra maggio 2022 e aprile 2023 in Italia emerge che solo 35 opere su 156 (quelle di cui è chiara la committenza) sono sicuramente riferibil alle amministrazioni comunali o a un altro ente pubblico. La maggior parte delle statue installate sullo spazio della collettività sarebbe dunque frutto di donazioni di privati, naturalmente approvate da amministrazioni distratte. I concorsi pubblici si contano sulle dita d’una mano e quando viene scelto cosa rappresentare si scade in figurazioni retoriche, dimenticando troppo spesso di focalizzarsi adeguatamente sul progetto e sul linguaggio dell’opera. Spesso è buono l’artista locale, l’artigiano più facilmente reperibile e il suo linguaggio è banalmente ridotto, perché non si creano gruppi di discussione attorno alla genesi dell’opera. 

Di fatto la scultura deve avere come fine principale quello di far scrivere alle principali testate giornalistiche locali parole di elogio o di scandalo verso l’iniziativa di sistemazione di una piazza. Purché se ne parli, purché qualcuno voglia andare a fare una bella foto da postare sui social, magari toccando le forme del soggetto come in un rito scaramantico che alimenti l’industria del turismo. La volgarità (che non è necessariamente associata al nudo!) è del resto considerata innocua a fronte della bontà di un’iniziativa di ripristino del “decoro”. Ma chi finanzia o chi autorizza si è poi chiesto come mantenere queste opere affinché il materiale non si degradi e lo spazio pubblico di una periferia possa vivere e godere di un “buono stato di salute”?

“Guardate quella statua proprio accanto a noi. Guardate quella donna, costretta nella pietra scolpita a mostrare devozione eterna all’uomo che ha scritto la sua storia”, azione di NonUnadiMeno, 8 marzo 2019, Milano. #lamoredelleinsorte #nonunadimeno #8M19

La statuaria, ad oggi, è una forma d’arte che ritenete ancora adatta ed efficace a veicolare messaggi, nello specifico, in senso femminista? Introdurre le cosiddette “quote rosa” anche nell’ambito della rappresentazione pubblica femminile ritenete possa essere utile? Viceversa, come può essere utilizzato lo spazio pubblico per sensibilizzare i cittadini sulla discriminazione di genere?

Maria Baruffetti: Per rispondere alla prima domanda ci sarebbe innanzitutto da ridefinire cosa possa a ragione essere denominato ‘scultura’ o ‘statua’ e cosa non lo sia più. Come abbiamo cercato di far emergere – e per fortuna non lo abbiamo fatto solo noi! -, le opere prodotte negli ultimi anni come arredi di molti spazi pubblici o di semplici rotatorie si allontanano davvero molto da un’idea di ‘monumento’. Resta tuttavia innegabile una loro occasionale o comunque debole intenzione di apportare contenuti negli spazi “riqualificati”. Qualora questi contenuti diventino pensieri più solidi, elaborati ed elaborabili da una collettività sensibile e attenta, ma soprattutto qualora siano essi stessi il primo motore dell’iniziativa di progettazione di un’opera destinata allo spazio pubblico, forse le statue-portatrici potrebbero ancora veicolare messaggi. Oggigiorno facciamo davvero fatica a poter affermare con certezza che la statuaria contemporanea esista e che trasmetta qualcosa di significativo. Di fatto registriamo prevalentemente “aggiustatine” finali, ritocchi populisti alle commissioni o ai progetti di nuove sculture: le tematiche di genere sono spesso inserite per raccogliere consensi facili, ma ciò è fatto senza il necessario ricorso a esperti in materia di argomenti complessi, senza alcun coinvolgimento di gruppi sensibili, o senza avvertire la necessità di sottoporsi a revisioni in corso d’opera. L’evento che più interessa sembra davvero essere l’inaugurazione, non la genesi o l’interazione dell’opera con la collettività nel tempo. Questo carattere di iniziativa meramente privata, praticamente quasi mai “dal basso”, ridicolizza la scelta di un soggetto femminile e la rende molto spesso riduttiva se non offensiva (anche in termini di qualità artistica).

Effettivamente a nostro avviso l’obbligo di quote che impongano una donna ogni tot uomini rischierebbe dunque di alimentare esclusivamente una ricerca di soggetti femminili su cui fare luce a prescindere dal materiale usato, dal linguaggio plastico scelto e dallo spazio cui saranno destinate, e questo dando al genere un’assurda priorità nella selezione, senza grandi approfondimenti. Insomma che si tratti di scienziate o di letterate, delle protagoniste di gesta eroiche o di vicende drammatiche, poco importerebbe a quel punto. Del resto si è arrivati a spogliare perfino Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli elaborando una rappresentazione che non ha nulla a che vedere con il loro mestiere di giornaliste!

La fontana dedicata a Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli nella Tuscia

Dal momento che come associazione crediamo fortemente nel riconoscimento delle professionalità, riteniamo che un’azione politica di ripensamento dello spazio pubblico possa essere possibile solo ascoltando le voci competenti e magari quelle emotivamente più coinvolte. Un’opera “femminista” nello spazio pubblico dovrebbe rispondere alla necessità di ricordare qualcuna o qualcosa, prestando attenzione alla voce delle vittime di discriminazioni di genere come a quella della cittadinanza che dovrebbe fare vivere abitualmente lo spazio individuato come teatro di iniziative volte alla sensibilizzazione stessa. Siano queste voci la principale giuria di qualità e i destinatari primi della committenza, che oltretutto non dovrebbe pensare al risparmio per la manovalanza artistica o per il reperimento di materiali: il costo di certe iniziative in termini di sfruttamento delle risorse e dei lavoratori è innegabile e il rischio di contraddizioni o miopie “antisolidali” che si nasconde dietro l’opportunità di certe sponsorizzazioni sarebbe da tenere sempre a mente.

La lavandaia di Bologna

Nel capitolo intitolato “A chi fanno male questi monumenti femminili” vengono riportati stralci di conversazioni tra la co-curatrice Ester Lunardon e la sua coinquilina dai quali emerge una differente percezione rispetto alla rappresentazione femminile oggetto della vostra indagine. Sofia trova “belle” le statue, rispondenti a canoni estetici rispetto ai quali si identifica, non trova che i corpi siano iper sessualizzati e, sostanzialmente, non si percepisce discriminata rispetto a quel tipo di rappresentazione. C’è chi ritiene l’esibizione del corpo nudo e ammiccante un modo per manifestare ed esercitare appieno la propria libertà e la propria autodeterminazione. Qual è la vostra opinione a riguardo? Quali i cortocircuiti che inducono a normalizzare l’esibizione del corpo nudo? Quali le possibili pratiche per invertire la rotta?

Ester Lunardon: “Come chiunque sostenga la politica femminista sa, la maggior parte della gente non capisce il sessismo o, se lo capisce, pensa che non sia un problema”. Cito bell hooks per aiutarmi a rispondere. È evidente che ci sia un problema di percezione. Proseguendo il ragionamento di bell hooks, tutto starebbe nel convincere della gravosità del sessismo (e prima ancora, della sua esistenza) chi ancora non è arrivata a questa consapevolezza. Ma io personalmente, forse per limiti miei, non credo che il nostro obiettivo possa e debba essere quello di convincere qualcuno. Questa è l’impasse, per me tuttora tale, attorno a cui ruota il testo. Quanto alla questione specifica dell’uso del proprio corpo, il problema non sta nel mostrarlo o non mostrarlo; il problema sta nel farlo da soggetto o da oggetto. É vero che il corpo nudo ha un grandissimo potenziale autoaffermativo, o meglio di espressione autentica del sé, ma per realizzarlo deve esprimere un soggetto, non farsi materializzazione di un oggetto erotico. Più ancora di oggi, questo potenziale è stato evidente in passato, quando sull’identità femminile pesava con molta più forza il falso valore del pudore: molte delle prime donne che hanno mostrato pubblicamente il loro corpo l’hanno fatto con intenti eversivi. Faccio solo un esempio: l’artista messicana Carmen Mondragón, meglio nota come Nahui, che nella Città del Messico degli anni ‘20 faceva dell’esibizione del suo corpo uno strumento di rivendicazione della propria libertà, contro il perbenismo della società di allora. Fece scandalo la mostra fotografica che lei stessa organizzò, nel 1927, con il suo corpo nudo come unico soggetto.

Antonio Garduño, Nahui Olin, 1927

Guardare con attenzione quegli scatti e paragonarli a immagini di donne svestite di oggi è illuminante: fa capire che, appunto, il problema non è il nudo. Il problema è la sessualizzazione forzata che accompagna il corpo femminile, soprattutto se scoperto, e che appiattisce l’identità della donna a quella di oggetto erotico. Il nudo di per sé non comporta automaticamente la sessualizzazione, ma nella stragrande maggioranza dei casi, soprattutto oggi, esso non esprime altro che l’intenzione di compiacere lo sguardo altrui; la donna che si mostra è come se si stesse immaginando dal di fuori, si guarda essere guardata, non è soggetto di un’azione ma è intenta a farsi oggetto da guardare. Questo nudo non esprime alcuna libertà, ma solo una particolare forma di adattamento al sistema di valori patriarcale, tanto più quanto esso risponde ai canoni estetici dominanti. Per questo, chi oggi ritiene “perbenista” la critica alla sessualizzazione indiscriminata dei corpi sarebbe stato forse bene tra i sostenitori di Nahui negli anni ‘20, ma non si rende conto che da allora le cose sono cambiate molto: le spinte che allora erano di ribellione vera sono state riassorbite in un sistema di valori in cui sì, esistono ancora delle frange retrograde che protestano contro i corpi scoperti in quanto tali, ma in cui per lo più l’esibizione del corpo è stata largamente normalizzata, oltre che variamente messa a profitto. Una volta il nudo femminile era “normale” solo se spiato, guardato nell’inconsapevolezza della donna, che quindi manteneva il suo doveroso pudore di facciata (e infatti Nahui era “anormale”); oggi è accettato anche il mostrarsi intenzionalmente (d’altronde secondo canoni precisi e ipocriti che censurano, ad esempio, capezzoli e vulve), ma assumendo un’identità – quella di oggetto sessuale – che non è né nuova né femminista. É invece l’identità di soggetto sessuale che dovremmo trovare la capacità di affermare. E io penso che questo non solo possa, ma debba avvenire anche attraverso lo scoprimento del corpo, per quanto in una società sempre più narcisista ciò sia difficilissimo. La pratica da esercitare sarebbe proprio, mostrando il proprio corpo, coltivare questa precisa consapevolezza: è mio, non è tuo; è per me, non è per te; il corpo è per me strumento di vita, di azione, di piacere, non è per il tuo sguardo, per la tua azione, per il tuo piacere; se mi mostro non è per forza per attirare la tua attenzione; il mio corpo non è per forza un messaggio che sto lanciando a te. Senza questa consapevolezza, il nudo non afferma una vera libertà, ma una autosorveglianza; e anche così, con questa presa di posizione, le donne dovrebbero ancora liberarsi di quel fardello fondamentale che è l’essere costantemente presenti a sé stesse. É quello il passaggio successivo e il vero obiettivo: la liberazione anche dall’autoconsapevolezza, per esprimere il proprio sé con l’autenticità del non avere, anche da nude, altri pensieri che la propria vita, la propria azione, il proprio piacere.

Sanja Iveković, Lady Rosa of Luxembourg, Lussemburgo, 2001.
Sanja Iveković, Lady Rosa of Luxembourg, Lussemburgo, 2001.
“LA RÉSISTANCE, LA JUSTICE, LA LIBERTÉ, L’INDÉPENDENCE”
“KITSCH, KULTUR, KAPITAL, KUNST”
“WHORE, BITCH, MADONNA, VIRGIN.”

A riportare d’attualità i monumenti sono, tra gli altri, gli attivisti di Cancel culture, Extinction rebellion e Ultima generazione, movimenti che hanno preso di mira le opere d’arte per mettere all’ordine del giorno dell’agenda politica dei governi tematiche quali razzismo o cambiamento climatico. Azioni meno dirompenti riguardano il collettivo Kinfolk, emerso nel contesto di black lives matter, il quale ha creato un’app che consente di rileggere la statuaria classica dando voce ai testimoni occultati della Storia. Ad esempio, inquadrando la statua di Montanelli (accusato di razzismo e pedofilia durante la sua partecipazione nella guerra d’Eritrea, l’app mostra al suo posto immagini di bambine africane). Come giudicate queste esperienze? Credete che un’app sul modello Kinfolk possa essere uno strumento utile a sensibilizzare soprattutto le nuove generazioni su tematiche quali la discriminazione di genere e più in generale, su quanto è emerso dalla vostra ricerca?

Rosanna Carrieri: Come abbiamo già accennato, il forte valore simbolico del monumento lo rende di per sé elemento di tensioni; colpirlo è una delle opportunità per portare questa tensione in luce ed esigere attenzione su tematiche fondamentali. Dobbiamo però contestualizzare le esperienze nei singoli territori e nei diversi Paesi, che hanno proprie e specifiche caratteristiche culturali: il movimento black lives matter negli States lo ha dimostrato. In Italia il confronto e le tensioni riguardo a monumenti e spazio pubblico sono vissuti diversamente, in modo più blando e appiattito; credo anche perché non abbiamo del tutto fatto i conti con la nostra storia. Basti pensare, purtroppo, al modo in cui le azioni dei movimenti ambientalisti e non solo sono state e sono costantemente ridotte a “vandalismo”, sebbene si tratti di attivismo. O ancora, al fatto che l’urgenza di un dibattito sulle assenze, sulla sessualizzazione dei corpi e la loro oggettificazione, sulle violenze perpetrate, sia ridotta a qualche dichiarazione occasionale e sporadica di qualche amministratore che sostiene sia necessario realizzare altre statue femminili o porre qualche targa, qualche intervento spot, qualche fiocco rosa e panchina rossa. Mai che si parli di politiche e strategie lungimiranti per la risoluzione dei problemi che attraversano la nostra società, mai che si ascoltino le voci e le istanze dei movimenti e gruppi femministi. Le panchine rosse mi sembrano emblematiche in questo senso: per porre l’attenzione e sensibilizzare (e dunque combattere) la violenza contro le donne spopolano in ogni dove panchine rosse, nessun programma educativo alla sessualità e all’affettività, nessun finanziamento ai centri anti-violenza; nel mentre si rimuovono altre panchine e arredi urbani utili a stazionare (si lavora nella direzione della cosiddetta architettura ostile) per evitare il “bivacco” e il “degrado”. Sembrerebbe un paradosso, eppure il problema rimane lo stesso, un intervento apparente che non risolve il problema ma sposta l’attenzione colpevolizzando le vittime. Questa premessa, che unisce diversi aspetti ma che nei fatti guarda sempre allo spazio e alla storia pubblica, è importante per introdurre quello che per noi dovrebbe essere uno strumento: l’educazione. È da qui che dovremmo ripartire, ed è ciò su cui stiamo anche lavorando come appendice al nostro libro (presto pubblicheremo delle schede didattiche).

Tornando all’altra parte della domanda, l’app sul modello Kinfolk può essere uno strumento proprio in questa direzione, guardando alle nuove generazioni, ma non è certo l’unico. Personalmente ritengo che, per quanto si contaminino e attraversino l’ambiente fisico e quello digitale, per intervenire su un oggetto materiale serve un’azione materiale, che connoti il luogo e che lo modifichi. Un aspetto importante dovrebbe essere quello del confronto, delle discussioni riguardo ai monumenti e non solo: lavorare per coinvolgere la cittadinanza che abita e attraversa quei luoghi e renderla parte attiva nelle decisioni a riguardo. Ciò vale non solo per i monumenti ovviamente.

L’inaugurazione del monumento a Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Milano.
Monumento all’emigrante (Isola delle Femmine). Foto di Salvatore Ciambra



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