Non potevamo restarcene neutrali, dovevamo compiere un’azione per uscire da quella prigionia. Conversazione con Graciela Carnevale, di Elvira Vannini

Alla fine degli anni ’70, la nostra pratica artistica si trasformò in un’esperienza estetico-politica e permeò tutti gli aspetti delle nostre vite. Quest’esperienza si è creata in un processo di soggettivazione che ha cambiato i nostri punti di vista e il nostro senso dell’arte e della vita. Questo non ha nulla a che vedere con i meccanismi di prestigio del sistema e la maggior parte delle volte accade fuori dal circuito istituzionale dell’arte.

 

Elvira Vannini: Tucumán Arde è stato un movimento rivoluzionario di azione culturale e un progetto espositivo radicale di contro-propaganda, concepito alla fine degli anni Sessanta, che ha sperimentato l’arte come pratica essenzialmente politica, in difesa dei lavoratori sfruttati e licenziati dopo che la chiusura della maggior parte delle fabbriche di zucchero nella provincia settentrionale di Tucumàn, aveva provocato miseria, disoccupazione e gravi conseguenze sociali. L’“Operazione Tucumán”, era stata lanciata dalla dittatura argentina nel 1966 e annunciata come una serie di misure per promuovere l’industria e diversificare l’agricoltura, cercava in realtà di mascherare un violento attacco alla classe operaia con un falso sviluppo economico basato sulla creazione di nuove industrie finanziate con capitale americano.
Tucumán Arde, che personalmente ho conosciuto insieme al Grupo de artistas de vanguardia a documenta 12 (2007), proponeva così tre diversi livelli di strategia operativa: uno sociologico, per documentare la crisi economica; un secondo, di contro-informazione, sui modi di comunicare questa crisi; e l’ultimo connesso con lo con lo spazio dell’arte, e quindi direttamente espositivo. Vorrei brevemente raccontarlo, così come descritto nel manifesto stampato e distribuito durante la mostra.

Grupo de Artistas de Vanguardia (Avant-Garde Artists Group), Tucumán Arde (Tucumán Is Burning), campagna pubblicitaria, Rosario, Argentina, 1968, Courtesy Graciela Carnevale.

All’ingresso era appeso un grande banner con scritto: “Visita Tucumán, giardino della povertà” (allusivo dello slogan pubblicitario “Visita Tucumán, giardino della Repubblica”). Il pavimento era ricoperto da striscioni con i nomi dei proprietari dei mulini e delle piantagioni di zucchero per denunciare i loro rapporti con il potere politico e la classe dirigente locale. Le pareti erano rivestite da collage di articoli di giornale e reportage che dimostravano la relazione tra gli interessi politici e la crisi. Film, audiovisivi, e fotografie erano esposte nella stanza centrale e raffiguravano gli abitanti della regione, le loro condizioni di vita e l’intensificarsi delle lotte. Interviste registrate a Tucumàn erano diffuse da altoparlanti, mentre nel pavimento si trovavavo mucchi di cibo donati e destinati alla comunità. Ogni due minuti un blackout improvviso oscurava completamente lo spazio, per ricordare che a Tucumàn moriva un bambino durante quello stesso intervallo di tempo. Il giorno dell’opening fu servito caffè amaro come allusione alla mancanza di zucchero causata dalla chiusura delle raffinerie. Il pubblico poteva portare a casa i rapporti e i documenti esibiti. In poche ore la mostra è stata chiusa.
Lo scopo era esporre l’osservatore alla realtà dell’ingiustizia sociale e generare una risonanza mediatica che svelasse la verità della situazione. Che cosa ti ha portato all’attivismo? Come si sono evolute le tue idee politiche?

Grupo de Artistas de Vanguardia, Tucumán Arde (Tucumán Is Burning), esposizione, Rosario, Argentina, 1968, Courtesy Graciela Carnevale.

Graciela Carnevale: Tucumán Arde è stato il culmine di un processo di politicizzazione e di radicalizzazione di un gruppo di artisti che prese coscienza delle condizioni del contesto in cui viveva e dei conflitti con le proprie pratiche e che avanzò una rottura con lo status quo dell’arte, proponendo una nuova estetica e un nuovo ruolo per l’arte.
In un processo durato poco più di due anni abbiamo esplorato forme e materiali nuovi e sperimentato linguaggi inediti, ponendoci di fronte a diverse situazioni che determinarono la rottura con le gallerie, i musei e con i meccanismi di prestigio associabili alla cultura borghese, alla ricerca di altri significati per le nostre pratiche, di altri pubblici e spazi per le nostre produzioni. In un contesto di forte repressione e asportazione delle libertà democratiche, causato dalla presenza di un governo militare. In un clima di mobilitazioni permanenti da parte di ampi settori della società, siamo stati interpellati da questa realtà che aveva messo in crisi i vecchi modelli instituiti dell’arte e dell’artista e siamo stati chiamati ad accompagnare il processo di cambiamento verso una società più giusta che pensavamo fosse vicina (“la rivoluzione era dietro l’angolo”). Come appoggiare dalla nostra posizione questo processo di cambiamento? Come rendere utile, conferire un valore d’uso agli strumenti e alle capacità in nostro possesso?
Come risposta a queste inquietudini, nell’agosto del 1968, abbiamo organizzato a Rosario, il “Primer Encuentro de Arte de Vanguardia”. In questo incontro sono stati discussi i principi di una nuova estetica che voleva agire tra l’opera, il compromesso dell’artista e la realtà. Insieme a degli artisti di Buenos Aires abbiamo deciso di lavorare con la centrale sindacale non governativa, la CGT degli argentini, per inserirci nel processo di lotta della classe lavoratrice e affrontare il problema sociale che Tucumán stava vivendo a causa delle politiche economiche del governo di fatto che, con la chiusura degli zuccherifici, uniche fonti di lavoro della zona, aveva causato una forte disoccupazione sfociata in un conflitto sociale con conseguenze profonde.
Tucumán Arde si considerava come un’azione di contro-informazione sui mezzi di comunicazione, un’opera denuncia di quello che stava accadendo a Tucumán, per renderlo pubblico nei nostri territori dove i mezzi d’informazione avevano reso invisibili le conseguenze sociali derivate dalle politiche economiche centrali responsabili della disoccupazione, della fame, delle malattie, dell’abbandono scolastico, della malnutrizione dei cittadini di Tucumán.
A tal fine abbiamo ideato un progetto che includeva diverse tappe e momenti. Una prima approssimazione al tema con una ricerca bibliografica e i contatti con le persone e le istituzioni coinvolte che avrebbero potuto fornire dati e appoggio alla problematica e ai suoi attori; una campagna pubblicitaria che contemplava tre fasi sullo sviluppo dell’opera; un viaggio degli artisti a Tucumán per raccogliere informazioni e realizzare la documentazione fotografica, le interviste, i filmati che avrebbero costituito il materiale della mostra; un’esposizione alla CGT pensata come una mostra denuncia dove questi dati si attivavano e interagivano con interviste in situ, proiezioni dei filmati realizzati, manifesti con slogan, statistiche e denunce sulla collusione tra il potere politico e quello economico, ingrandimenti di fotografie, audio delle interviste registrate, materiale stampato destinato al pubblico, la collaborazione di sociologi, critici letterari e studenti e la partecipazione dei leader sindacali, così come delle organizzazioni sociali relazionate con la centrale sindacale. Si distribuiva caffè amaro e di tanto in tanto si spegnevano le luci per segnalare la morte per malnutrizione di un bambino. Avevamo previsto un’ultima fase di raccolta di tutto il lavoro in una pubblicazione che non è stata mai realizzata.

Grupo de Artistas de Vanguardia, Tucumán Arde (Tucumán Is Burning), ingresso della mostra, Rosario, Argentina, 1968, Courtesy Graciela Carnevale.

Pensavamo che la mostra dovesse funzionare come una denuncia con le caratteristiche di un’azione politica, che il formato, il montaggio, lo spazio dov’era realizzata, le dinamiche attuate, i materiali visivi e sonori, le interviste in situ e la partecipazione massiccia del pubblico avessero reso questa mostra un evento, un atto politico in un momento in cui vigeva uno stato di emergenza e non era possibile realizzare incontri nello spazio pubblico. Una mostra denuncia che coinvolgesse il pubblico sotto diversi aspetti, attraversati da una carica d’informazione che era interpretata e mutevole e che faceva appello non solo all’intelletto, ma anche alla sensibilità coinvolgendoci come soggetti, producendo conoscimento, generando interrogativi e processi di soggettivazione.

La pratica artistica, la dinamica di gruppo, i dibattiti interni al gruppo e il contesto di questi anni nel paese e a livello internazionale sono stati il motore del mio attivismo. L’esperienza di questi anni ci ha profondamente influenzato, al punto che la pratica artistica così intesa ha modificato la nostra forma di pensare il mondo e di pensare la nostra responsabilità di fronte agli avvenimenti che stavamo vivendo. Vivere si è convertito in un’esperienza estetica. Il gruppo ci ha permesso di pensare l’estetica e la politica sviluppate nella prassi. L’esperienza ci ha trasformato provocando profondi cambiamenti nella nostra soggettività, partendo da una pratica artistica che considera la produzione come un laboratorio dal vivo dove sperimentare forme di vita emancipatrici, in cui l’arte possa confluire in un apprendimento e soggettivazione politica.

Da quel momento le mie idee politiche non si sono separate dalla mia pratica artistica e dalla mia attività di docente e dalla circostanza di vivere in una città non capitale, in Argentina, in America del Sud.
Dopo Tucumán Arde e la dissoluzione del gruppo ci fu un periodo di astensione, un esodo del campo dell’arte. La chiusura della mostra alla CGT, a Buenos Aires, l’assenza di riferimenti nel cammino intrapreso, le differenze ideologiche sorte nel gruppo ostacolarono la possibilità di incontrare nuovi cammini alternativi nella direzione che c’eravamo prefissati. Il processo militare (1976-1983), con la sua politica di sterminio dei settori più radicalizzati della popolazione, mise in crisi le aspettative degli anni precedenti. I colpi di stato verificatisi in gran parte dei paesi latinoamericani asportarono e seppellirono le utopie rivoluzionarie.
Per molti anni rimasi legata ai principi che avevamo appoggiato negli anni ’60. Abbandonai la pratica artistica per molto tempo e vissi la docenza come uno spazio possibile di creatività e militanza nei valori che avevamo sposato. È da poco che, con l’arrivo della democrazia e in contatto con gli alunni dell’Università, capisco la relazione dialettica tra le pratiche e i momenti storici e come in situazioni diverse è necessario ripensare le strategie e i modi di fare, dal momento che questi ultimi vengono continuamente assimilati e neutralizzati dal sistema, perdono l’efficacia e diventano inoperanti quando sorgono nuove circostanze.
Il nostro presente è molto diverso dagli anni ’60 e ci sfida a esplorare nuovi concetti e strumenti, nuove risposte che devono considerare nuovi territori in disputa e in lotta in questa fase del capitalismo globale che investe e disegna le nostre forme di vita.

Grupo de Artistas de Vanguardia, Tucumán Arde (Tucumán Is Burning), particolare dell’esposizione, Rosario, Argentina, 1968, Courtesy Graciela Carnevale.

EV: La procedura di archiviazione è diventata uno strumento paradigmatico, oltre che una configurazione culturale alternativa all’approccio convenzionale del format espositivo classico e del suo pubblico, così la figura dell’archivio consente la decostruzione dei regimi discorsivi e visivi della rappresentazione – estetica e politica – e del grande racconto della Modernità attraverso molteplici concatenamenti semiotici e una narrazione documentale. L’archivio come display politico (o contro-display). Qual è la funzione dell’archivio Tucuman oggi?

GC: La funzione dell’archivio di Tucumán Arde ha diverse possibilità di significazione. È in sostanza l’unico patrimonio documentale di questo itinerario di radicalizzazione come conseguenza della repressione e della censura durante il processo militare del ’76. La sua esistenza rappresenta uno spazio di affermazione, uno spazio di resistenza.
È un archivio vivo che si modifica continuamente con l’incorporamento di nuovi materiali, inclusi quelli della sua circolazione. I documenti rivelano una trama di racconti e fatti storici che permettono un avvicinamento alle problematiche di quel momento e che in base a come e da dove si interrogano possono assumere interpretazioni diverse. Questa coscienza critica e vitale dell’archivio impedisce di considerarlo come qualcosa di chiuso e univoco.
Si tratta di uno dei primi archivi che si configura in relazione alle pratiche verificatesi durante i governi militari in America Latina, che negli ultimi anni e grazie al lavoro dei ricercatori sono stati recuperati e resi visibili.
Potremmo considerarlo come un contenitore di strumenti con valore d’uso nel presente. Recuperando memorie ed esperienze di oltre quarant’anni, l’archivio rende visibile i conflitti di senso nelle pratiche artistiche e politiche contemporanee e ci invita a riattivare le memorie di quelle azioni che sono state dirompenti e che fino a poco tempo fa non avevano un’entità. Sfida nuovi usi e interpretazioni dei suoi materiali e a esplorare forme di riattivazione di pratiche poetico-politiche sorte in governi repressivi per pensare quali sarebbero i debordamenti radicali nel presente.

EV: Vorrei parlare di Acción del Encierro (Confinement Action), parte del Ciclo de Arte Experimental, organizzata dal Grupo de Arte de Vanguardia di Rosario nel 1968. “Attraverso un atto di aggressione il lavoro intende provocare lo spettatore dentro la consapevolezza del potere con cui la violenza è ‘messa in scena’ nella vita di tutti i giorni”- come hai indicato nella brochure distribuita alla fine dell’azione. Hai rinchiuso il pubblico dentro la galleria. Il disagio, l’ansia e la paura creati dal confinamento fisico ha prodotto una maggiore consapevolezza della repressione, molto più pericolosa, imposta dal regime. Grant Kester ha scritto che “hai offerto un modello coercitivo di arte partecipativa, in cui come tu stessa affermi «Non c’è possibilità di fuga, di fatto gli spettatori non hanno scelta: sono obbligati, con violenza, a partecipare», o ancora Kester: «Carnevale stessa diventa una foquista militant, dichiarando guerra alla coscienza dello spettatore incarcerato». Credi che la performance come “mezzo socialmente responsabile” possa essere assorbita in altre attività politiche come il lavoro, la comunità e il teatro di strada o un nuovo tipo di protesta o contestazione?
Quando dici che: «un elemento importante nella concezione del lavoro era la considerazione degli impulsi naturali che repressi da un sistema sociale per essere passivi, generano resistenza, azione, rifiuto, infine, la possibilità di cambiamento», quale la funzione di rappresentazione di una generica coscienza politica, che simboleggia il popolo argentino nel suo complesso e nella sua opposizione, o complicità, con la dittatura di Onganía, che cosa è accaduto? Sappiamo (dal dettagliato racconto di Claire Bishop) che dopo un’ora i visitatori intrappolati tolsero i poster che erano stati attaccati per evitare la comunicazione con l’esterno ma nessuno prese l’iniziativa. Alla fine fu una persona per strada a rompere il vetro e a creare un passaggio per scappare. Pensando avesse rovinato la performance, alcuni degli astanti iniziarono a picchiarlo in testa con un ombrello. Arrivò persino la polizia credendo ci fosse un collegamento con il primo anniversario dell’arresto di Che Guevara…..

Graciela Carnevale, Acción del Encierro, (Confinement Action), 1968, Ciclo de Arte Experimental, Rosario, Argentina, courtesy Graciela Carnevale.

GC: Il Ciclo de Arte Experimental è stato un progetto di gruppo che si è sviluppato da maggio a ottobre 1968 partendo da produzioni individuali. Il Ciclo ha assunto un compromesso e al tempo stesso una necessità: cercare nuovi linguaggi e materiali che avrebbero aiutato ad agire sulla realtà. Il ciclo segna un momento di crescita nel processo di radicalizzazione del gruppo nel considerare gli artisti come l’organizzazione dello stesso, cercare altri pubblici, altri spazi, riflettere e teorizzare sulle sue produzioni, occuparsi della pubblicità, della distribuzione e della ricezione delle opere, conferendo enfasi alla ricerca di nuovi formati e materiali. La sperimentazione era intesa come il punto di partenza delle nostre produzioni, considerando che le circostanze storiche spostano le forme accettate dell’arte per renderle inefficaci e obsolete in questi nuovi contesti.
Nel Encierro la violenza si trasforma in materiale estetico. Può anche essere visto come una metafora di quello che si stava verificando, che cercava di rendere visibile e cosciente la repressione e la censura quotidiana di cui eravamo vittima sotto un governo dittatoriale e la necessità di assumere un ruolo attivo nella trasformazione delle proprie condizioni di esistenza.
Prendeva come base la nostra idea dell’arte come un intervento sulla realtà, che metteva da parte l’idea dell’opera per essere contemplata, piuttosto quest’ultima coincideva con un’azione provocatrice di processi di soggettivazione nel situare il pubblico non come ricettore passivo, ma come protagonista dell’opera attraverso il quale si realizza.
Considero l’azione del Encierro un’opera dirompente che supera i limiti e le convenzioni nell’arte e sovverte i ruoli, sfidando i partecipanti a considerarsi come gli attori e i protagonisti delle proprie circostanze, vedendosi obbligati a prendere decisioni e a confrontare valori e interrogativi. Al tempo stesso, ha anche significato farmi coinvolgere in questa stessa violenza.
Per me quest’azione continua oggi ad essere vigente nel suo intento di provocare processi di soggettivazione come risposta a un vissuto che opera con potenza critica attraverso metodi artistici che fanno appello a processi di trasformazione sociale.
È in questo sottile margine tra l’artistico e il politico che incontro una risposta alle inquietudini e gli interrogativi che il contesto fa nascere in me.

Graciela Carnevale, Acción del Encierro, (Confinement Action), 1968, Ciclo de Arte Experimental, Rosario, Argentina, courtesy Graciela Carnevale.

EV: Secondo le parole di uno dei membri del gruppo, León Ferrari, “Tucumán Arde ha usato l’arte per fare politica. Molti artisti concettuali e certi esempi di arte politica contemporanea utilizzano la politica come tema per fare arte “. La vostra intenzione era quella di utilizzare l’arte come strumento rivoluzionario, partecipando così al processo di liberazione del paese. Guardando agli effetti della situazione politica repressiva in Argentina, le esposizioni stesse venivano usate inequivocabilmente come strumenti politici e gli happening erano costruiti strategicamente come “detonatori” o come forum per ripensare e ridiscutere le potenzialità politiche all’interno del contesto culturale.
Il rapporto tra pratiche artistiche, movimenti di resistenza e attivismo comporta, a livello radicale, la produzione del dissenso come una nuova forma di rappresentazione politica. Pensi che la definizione di un possibile spazio per la contestazione e l’iniziativa di quei movimenti di critica al capitalismo possa essere realizzabile? Cosa accade, in base alla tua esperienza diretta, quando un artista assume un ruolo attivo come protagonista della lotta sociale? Quando sei stata più efficace? Ci sono dei modelli di arte politica a cui ti sei richiamata?

GC: Penso che la produzione del dissenso può essere trattata in certi casi come una nuova forma di rappresentazione politica (esempio Spagna, Grecia, Argentina nel 2001). Attualmente sempre più, certe pratiche artistiche tendono alla trasversalità cancellando le frontiere tra le diverse discipline. Credo che sia necessario pensare l’arte inscritta in altri territori, deterritorializzandola dai suoi luoghi abituali, andando al di là dei suoi limiti e interpellando e lavorando insieme ad altri movimenti e gruppi.
Alla fine degli anni ’70, la nostra pratica artistica si trasformò in un’esperienza estetico-politica e permeò tutti gli aspetti delle nostre vite. Quest’esperienza si è creata in un processo di soggettivazione che ha cambiato i nostri punti di vista e il nostro senso dell’arte e della vita.

I ruoli esemplari cambiano secondo i contesti politico-economici di ciascun tempo e luogo. È difficile valutare quando un’azione sia stata efficace, perché ci sono variabili che non si palesano necessariamente nel momento in cui si realizzano, anzi questo succede dopo, in pratiche e produzioni diverse, lontane dalle coordinate che le hanno originate. Penso che siamo stati efficaci, che abbiamo svolto un ruolo attivo nella lotta per un cambiamento sociale quando le opere sono state complesse, si sono verificate rotture con le forme del fare e del pensare, generando un pensiero critico e autonomo in relazione con il “dover essere” di ciascun momento storico.

Preferirei parlare di riferimenti nella pratica artistica e non di modelli in arte politica. Penso che ogni produzione ha implicito un posizionamento ideologico. Parlare di arte politica significa stabilire una categoria esemplare che schematizza e silenzia la relazione diretta che queste produzioni hanno con i contesti che le originano, molte volte tematizzano il politico però non fanno riferimento ai mezzi e ai modi di fare, ai cambiamenti nel linguaggio, né all’importanza di un pensiero decolonizzato e critico.
Direi che ho incontrato i miei riferimenti nella pratica artistica, lontano dall’ambito dell’arte egemonica. Sono stati particolarmente stimolanti per pensare il senso di queste pratiche, tra gli altri, gli scritti, le conversazioni e i percorsi con Brian Holmes, il movimento zapatista, l’esperienza di Sergio Raimondi come direttore del Museo del Puerto de Ingeniero White, il concetto di valore d’uso che Stephen Wright sviluppa in alcuni dei suoi testi, gli scritti, le produzioni e la pratica attivista di Marcelo Exposito, il progetto Ex Argentina che mi ha aperto nuovi orizzonti, l’esperienza del collettivo WHW a Zagabria, la crisi del 2001 in Argentina, i movimenti attivisti che hanno creato nuovi processi istituenti in diversi luoghi del pianeta, l’esperienza di El Levante e più recentemente i movimenti contro l’espropriazione e lo sfruttamento estrattivista della natura insieme alle pratiche compromesse con la cura del pianeta attraverso multipli vettori, dalla filosofia del buon vivere e della reciproca riproduzione, il sapere ancestrale di alcune comunità, la nostra relazione con il territorio e i gruppi attivisti relazionati con la agroecologia e lo sviluppo di un’agricoltura urbana che plasmerebbero nuovi spazi dissidenti però anche pratiche istituenti critiche di un’economia politica della conoscenza.

Graciela Carnevale, Acción del Encierro, (Confinement Action), 1968, Ciclo de Arte Experimental, Rosario, Argentina, courtesy Graciela Carnevale.

EV: Decostruire le storie, le politiche, le narrazioni storiografiche, artistiche e istituzionali: quale è il regime di visibilità per una mostra cosiddetta “politica”: Tucuman Arde è ancora oggi uno dei progetti più importanti delle pratiche politiche e investigative in America Latina, che hanno usato l’arte per esplorare la distanza tra realtà e politica. O cercare un modo per trasformare il fare-arte e l’esibire-arte in azione politica e culturale. In questo tipo di esposizione il display non può essere neutrale, quale formato dovrebbe assumere? Potresti descrivere il contesto della mostra? Quali modelli espositivi vi hanno influenzato? Dopo questa forte esperienza è cambiato il tuo atteggiamento il sistema artistico?

 

GC: La mostra Tucumán Arde a Rosario consistette nell’intervento e nell’appropriazione dello spazio della centrale operaia, un’antica casa con molte abitazioni che furono occupate dai materiali esposti al loro interno e dal pubblico che partecipò. L’eccesso d’informazione che aveva agito su diversi livelli, dall’uso di una molteplicità di mezzi e di tecniche a un pubblico e materiali diversi, rafforzò le denunce, i racconti e le esperienze di lotta. Consideravamo la ricezione come un’istanza di partecipazione collettiva.
Tucumán Arde reitera il suo carattere di opera collettiva con attori coinvolti su livelli e modalità diverse, collaborazioni numerose di persone e l’appropriazione dei mezzi e dei meccanismi della pubblicità utilizzati dal mercato per raggiungere un pubblico di massa. L’uso di versioni distorte che tendevano a rendere invisibile i veri significati del progetto e di doppi discorsi per nascondere la vera intenzionalità dell’opera.
Il montaggio non era estetizzante, potremmo qualificarlo come precario, però potente e insolito per l’articolazione di mezzi diversi. Sono stati utilizzati dispositivi presi dalla lotta di strada come manifesti, le denunce delle relazioni e degli interessi tra imprenditori, compagnie multinazionali, la banca e la politica. È stato un progetto che, nella sua complessità, permette letture multiple che forse non si esauriscono, poiché nascono sempre nuove relazioni e interpretazioni che manifestano aspetti molte volte rimasti opachi per un altro tipo di valutazioni.
In Tucumán Arde c’è un gesto radicale dirompente che si manifesta nello spazio espositivo scelto al di fuori degli spazi istituzionali dell’arte, che semantizza l’opera e obbliga a una lettura contestualizzata e politicizzata. Questo spostamento è uno degli aspetti più radicali di Tucumán Arde, articolato con l’idea di costruire un nuovo pubblico e nuovi formati e linguaggi per l’opera.

Il maggio francese, la rivoluzione cubana, eventi che, tra gli altri, hanno influito molto nell’immaginario sociale dell’epoca, il viaggio a Tucumán, gli incontri in Cile e a Cuba nel ’72 e nel ’73, l’esperienza di essere in questo momenti di cambiamento in entrambi i paesi. La crisi in Argentina nel 2001, il movimento degli indignados in Spagna. Negli ultimi anni i progetti organizzati in El Levante e la partecipazione, insieme ad altre iniziative, nell’esplorazione di nuovi territori per la pratica artistica relazionati con la cura della natura come spazio di lotta.
La biblioteca di Martha Rosler è stata una delle proposte espositive che mi hanno influenzato profondamente negli ultimi anni. Moments a Karlsruhe, una mostra performativa che si trasformava durante la stessa mostra modificando le relazioni di potere tra il pubblico e le opere, alcune mostre di ricerca al Reina Sofía. Le istanze di presentazione dell’archivio sono state anche un’esperienza di apprendimento, di messa in discussione e di scambio.

Queste esperienze hanno cambiato completamente la mia relazione con le istituzioni artistiche e con l’idea dell’artista legato al prestigio. Pretendo che l’opera si trasformi in un’esperienza modificatrice e che perduri nel tempo. L’opera come un’esperienza di vita che sia in grado di provocare un processo di soggettivazione e trasformazione su micro scala. Questo non ha nulla a che vedere con i meccanismi di prestigio del sistema e la maggior parte delle volte accade fuori dal circuito istituzionale dell’arte.

Penso che Tucumán Arde affermi che quelle energie perturbatrici che cercavano delle rotture e un ruolo principale nei processi di trasformazione della società negli anni ’60, oggi siano vive in altre forme di disputa con il potere che cerca di circoscrivere la pratica artistica al cubo bianco, cercando di addomesticare e neutralizzare forme di pratiche critiche che, uscendo dai limiti delle discipline, si inseriscono in un campo più vasto di forze antagoniste dell’economia politica della conoscenza.

EV: “Sono stata politicizzata da un viaggio in Argentina nell’autunno del 1968 – scrive Lucy Lippard in Six Years… -, quando ho parlato con artisti che ritenevano immorale fare arte nella società esistente. È chiaro che oggi tutto, anche l’arte, esiste in un situazione politica. Non voglio dire che l’arte stessa debba essere vista in termini politici o sembrare politica, ma il modo in cui gli artisti producono la loro arte, dove lo fanno, le probabilità che hanno di farla, come la faranno uscire e con chi – fa parte di uno stile di vita e di una situazione politica. È diventata una questione del potere degli artisti, o gli artisti che hanno raggiunto abbastanza solidarietà così non hanno che la pietà di una società che non comprende quello che stanno facendo …..” Cosa ti ricordi questo incontro?

GC: Per la poca disponibilità di tempo la riunione si svolse a San Nicolás, una città a metà strada tra Buenos Aires e Rosario. Glusberg organizzò l’incontro dove si trovavano diversi gruppi. Ci siamo incontrati con Lucy Lippard e Jean clay che erano venuti in Argentina per essere giudici di un salone. Abbiamo parlato diverse ore sulle nostre convinzioni, le nostre produzioni, le nostre ricerche. Abbiamo discusso sulla nostra idea della pratica artistica, della nostra convinzione sul ruolo trasformatore dell’arte, della necessità di cercare nuove materializzazioni per l’opera e la trasformazione del pubblico come protagonista. La relazione dialettica tra estetica ed etica, la forma e la coscienza dell’artista e del suo compromesso militante e rivoluzionario nei contesti in cui vivevamo. Abbiamo parlato della nostra idea della pratica artistica come militanza alla ricerca di un nuovo mondo possibile. È stato uno scambio e un dialogo arricchente e proficuo.

Successivamente, ho continuato a scrivermi con Lucy per vari anni. In questa corrispondenza le raccontavo quello che stavamo facendo, la situazione del paese, l’inasprimento della repressione, la censura e le nuove sfide dinanzi alla polarizzazione sempre maggiore della società. Lei, a sua volta, rispondeva facendo riferimento ai movimenti attivisti e al suo maggiore compromesso con i movimenti sociali, soprattutto con il femminismo. C’è stata una profonda comprensione su ciò che noi proponevamo, sulla nostra idea dell’arte, in qualche modo il suo testo dimostra il profondo impatto che ha causato in lei questo incontro con il gruppo e con il contesto dell’Argentina nel ’68.

In seguito, Jean Clay ha pubblicato un dossier su Tucumán Arde e sulle azioni del gruppo nella rivista Robho e Lucy Lippard cita le nostre azioni in “Six years: the dematerialization of the art object”.

Graciela Carnevale Rosario, Argentina, settembre 2016.

[traduzione Roberta Garieri]

Grupo de Artistas de Vanguardia, Tucumán Arde (Tucumán Is Burning), ingresso dell’esposizione, Rosario, Argentina, 1968, Courtesy Graciela Carnevale.

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