La critica femminista come modello di critica culturale, di Nelly Richard

La naturalizzazione delle asimmetrie di genere ha permesso di operare attraverso i meccanismi semi-invisibili di quella che Pierre Bourdieu chiama la “violenza simbolica” del maschio-dominante. Il mondo politico e culturale organizza i suoi poteri a partire dalla gerarchia – sempre implicita, mai esplicitata – di una scala maschile di valutazione, da cui deriva un posto secondario, minoritario e subordinato, per il femminile. Tuttavia, deve essere chiaro che, nell’arte, non basta semplicemente essere una “donna artista” per sfidare i poteri dominanti ma essere portatrice di una visione contro-egemonica a livello di linguaggio, immagini e immaginari.

La teoria femminista è essenziale per rimuovere le gerarchie simboliche del potere di rappresentazione che, tra le altre cose, permettono di naturalizzare il maschile-dominante con il pretesto di universale, come di solito accade nelle scienze, nella storia dell’arte o nella filosofia. La critica femminista serve, ad esempio, per dimostrare che il canone della storia dell’arte universale nasconde gli interessi del maschio-occidentale che cerca di farci credere – con l’inganno – che il giudizio sulle “qualità” artistiche sia neutrale e disinteressato.

La critica femminista come modello di critica culturale

Ana Mendieta, Body Tracks (There is a Devil Inside Me), 1974.

Il campo della riflessione contemporanea è stato influenzato dallo spostamento dell’attenzione, precedentemente collocata nella razionalità oggettiva dei processi socio-economici e politico-sociali, verso la nuova dimensione “culturale” (immaginaria e simbolica: figurata) dei regimi di significazione che comunicano e interpretano la realtà per via indiretta.

Secondo Michelle Barrett, negli ultimi anni abbiamo assistito a una importante “svolta della cultura” (anche) nel femminismo. Dal punto di vista accademico, le scienze sociali hanno perso la loro influenza sul femminismo e ora sono le arti, le discipline umanistiche e la filosofia l’astro emergente. In questo generale cambiamento osserviamo un forte interesse nei processi di analisi della simbolizzazione e della rappresentazione, cioè nel campo della “cultura”[i].

Mi interessa iniziare da questa citazione di Michelle Barrett (anche se, senza dubbio, la sua affermazione dovrebbe essere precisata secondo i contesti) per argomentare questa svolta “culturale” della nuova critica femminista[ii]. Non come qualcosa che allontana la battaglia delle donne dalle questioni (linguaggio e discorso) presumibilmente distanti dalle urgenze delle trasformazioni sociali e politiche in atto, ma, al contrario, come un orientamento essenzialmente necessario per incidere sulle lotte per la significazione che accompagnano i cambiamenti della società.

Solo così il potenziale emancipatorio del femminismo sarà in grado di abbracciare le figurazioni immaginarie e simboliche delle economie soggettive che, mescolando politica e poetica, oltrepassano le categorie di “identità” e “differenza” preordinate, della sociologia del genere.

 

Politica del significato ed emancipazione soggettiva

Una delle prime caratteristiche che trasformano la critica femminista in un modello di critica culturale si deve all’uso politico dell’analisi del discorso per smontare la “donna” come segno. Secondo alcuni autori legati alle correnti post-strutturaliste, “l’analisi del discorso pone l’accento sul ri-orientamento delle scienze sociali che, attualmente, si trovano a combattere per il riconoscimento dei limiti delle traiettorie sociali e intellettuali della modernità” (Torfing 1998: 31).

L’analisi del discorso sostiene, oggi, la formulazione di teorie anti-essenzialiste che esaminino le pratiche e le identità all’incrocio tra linguaggio, egemonia, rappresentazione, cultura, valore e potere. Intendiamo con “discorso” un insieme multiplo di pratiche significanti iscritte in diverse materie (non esclusivamente linguistiche) e anche il campo della realizzazione simbolica, materiale e comunicativa delle ideologie in cui emergono i conflitti di interpretazione che circondano l’uso sociale e politico dei segni.

Cecilia Vicuña, Angel de la Menstruación (Angel of menstruation), 1973.

La critica femminista ha beneficiato, più che altro, dall’analisi del discorso perché ha consentito di divulgare le manovre occulte dei segni che, presumibilmente neutri, fingono che la ragione astratta del pensiero universale sia una ragione superiore, in quanto imparziale e disinteressata.

Ecco perché Giulia Colaizzi afferma che

il femminismo è teoria del discorso, e fare femminismo è fare teoria del discorso, perché è una presa di coscienza del carattere discorsivo, cioè storico-politico, di quella che chiamiamo “realtà”, del suo carattere di costruzione e prodotto e, al tempo stesso, un tentativo cosciente di partecipare al gioco politico e al dibattito epistemologico per determinare una trasformazione nelle strutture sociali e culturali della società (Colaizzi 1992: 105).

I contributi all’analisi del discorso nel femminismo rispondono alla sua necessità teorica di denaturalizzare il “corpo” – luogo privilegiato dell’”esperienza” delle donne per un femminismo essenzialista che lo considera un territorio primigenio, una superficie vergine ancora libera dalle demarcazioni del potere – sulla cui nudità si iscrivono a posteriori le categorie formulate dalla cultura.

Il femminismo teorico ha saputo confutare questa naturalizzazione del corpo mostrando che ogni corpo originale è un corpo già significato dalla differenza sessuale per l’atto stesso di dover corrispondere, realmente, alle definizioni e alle classificazioni ordinate e imposte dal dualismo di genere.

Il modo in cui ogni soggetto concepisce e pratica le relazioni di genere è mediato da un sistema di rappresentazioni che articola la soggettività attraverso pratiche sociali e forme culturali. I segni “uomo” e “donna” sono costruzioni discorsive (e sociali) che il linguaggio della cultura progetta e iscrive direttamente sullo scenario dei corpi, mascherando il loro assemblaggio di segni sotto la falsa apparenza che il maschile e il femminile siano verità naturali, a-storiche[iii].

Niente è quindi più prioritario per la coscienza femminista che ribattere (e confutare) la metafisica di un’identità originaria che lega il segno “donna” alla trappola naturale (cioè biologica) delle essenze e delle sostanze. E per compiere questo lavoro, la critica femminista deve imparare a smontare gli stratagemmi del discorso, supponendo che quello discorsivo-rappresentativo sia il mezzo attraverso il quale viene formulata l’ideologia sessuale che cerca di confondere natura e significazione nella categoria apparentemente invariabile del femminile.

Paz Errázuriz, La Palmera (The palm tree), 1987, from the series La manzana de Adán (Adam’s Apple), 1982-90.

Un secondo tratto che associa la critica femminista alla critica culturale è la sua enfasi transdisciplinare. Poiché la logica della differenziazione di genere-sessuale è una logica universale che porta l’opposizione maschile-femminile a funzionare come una invariante che attraversa contemporaneamente il pensiero filosofico e l’organizzazione sociale, la teoria femminista ha dovuto creare strumenti di riflessione sufficientemente trasversali per analizzare i distinti sistemi di gerarchia, opposizione e negazione che governano la generalità del mondo della conoscenza.

Partecipando a ciò che Michel Foucault ha definito “l’insurrezione dei saperi assoggettati”[iv], la critica femminista non può che rompere lo schema (e la struttura) della sorveglianza epistemologica e disobbedire ai protocolli della disciplina accademica che controlla le frontiere dell’inclusione-esclusione e che separa i saperi pertinenti e qualificati dai saperi non-pertinenti o non-qualificati.

La critica femminista inizia a scuotere i limiti delle discipline universitarie che tutelano l’integrità del corpus accademico, per individuare i vizi delle sistematizzazioni funzionali incaricate di riprodurre l’autorità del canone e incorporare i rifiutati (esclusi o sottomessi) in zone intermedie[v]. Cioè, la critica femminista oltrepassa, all’interno dell’accademia, i margini dei campi di studio con cui le discipline cercano di circoscrivere i propri oggetti di indagine nell’organizzazione specializzata di una conoscenza sotto la copertura istituzionale.

Inoltre, la critica femminista si impegna a lavorare, al di fuori dell’accademia, sulle relazioni tra l’università e altre zone della cultura e del potere (movimenti sociali, rivendicazioni dei cittadini, lotte democratiche, gruppi subalterni ecc.), stimolando pratiche critiche che combinano la costruzione degli oggetti con la formazione dei soggetti. Queste pratiche critiche del femminismo sono fuoriuscite e hanno oltrepassato gli archivi e le biblioteche della conoscenza, rompendo così il principio della “non interferenza” che, secondo Edward Said, isola il sapere universitario da ciò che definisce “la resistenza ed eterogeneità della società civile “(Said 1987: 24).

Forse non possiamo trovare miglior esempio che la rivista messicana DEBATE FEMINISTA – diretta da Marta Lamas – per illustrare questa forza di dis-organizzazione della separazione convenzionale tra azione e pensiero attraverso una capacità di intervento-invenzione disseminata in territori multipli.

Gli indici stessi della rivista DEBATE FEMINISTA (“dalla letteratura”, “dalla filosofia”, “dal linguaggio”, “dallo sguardo”, “dalla critica”, ma anche “dalla strada” “dalla politica”, “dall’attivismo”, “dal quotidiano”, “dall’altro luogo”, ecc.) testimoniano questo desiderio di attraversare l’ambito critico-intellettuale e quello socio-politico, in modo che la teoria crei connessioni plurali con le macchine dell’agitazione e della sollevazione che dinamizzano i suoi usi pubblici al di fuori della pagina stampata[vi].

Le nuove produzioni critiche del femminismo teorico sono anche un modello di critica culturale per il modo in cui prediligono le svolte e le rivolte di una testualità ibrida[vii] all’esposizione scientifico-sociale della conoscenza modellata dall’industria editoriale che di solito applica il sociologismo di genere alle agende tematiche delle politiche pubbliche.

Come suggerisce Ana Amado a proposito di Donna Haraway, ci sono sempre più femministe che dispiegano le proprie teorie “come una fiction appassionata, senza riconoscere i confini tra la riflessione speculativa, l’estetica e la politica” (Amado 2000: 235) ricorrendo per questo, a figurazioni di pensiero, a “concetti-metafora” che si muovono in una sottile ribellione contro le guide investigative della dimostrazione-del-sapere che controllano il registro scientifico-sociale dei dati quantificabili e verificabili.

La critica femminista cerca, con le parole di Rosi Braidotti, “di gestire correttamente una varietà di stili e punti di vista disciplinari, insieme a molti dialetti, espressioni e linguaggi diversi” (Braidotti 2000: 78) affinché la sua “politica di resistenza periferica alle formazioni egemoniche” (ibid: 48) della conoscenza sia accompagnata da nuovi modi di dire – inventivi, rischiosi perché seguono le torsioni linguistiche, degli stili e delle voci – che non corrispondono ai parametri della comunicazione dominante del sapere garantito.

Teresa Burga,“Sin Título / Untitled”, 1978.

La critica femminista è critica culturale in un doppio senso: 1) è una critica della cultura, in quanto esamina i regimi di produzione e rappresentazione dei segni che mettono in scena le complicità del potere tra discorso, ideologia, rappresentazione e interpretazione in tutto quello che circola e viene scambiato come parola, gesto e immagine 2) è una critica della società prodotta dalla cultura, che riflette sul sociale incorporando la simbolizzazione del lavoro espressivo, delle retoriche e delle narrative, alla sua analisi delle lotte identitarie e delle forze di cambiamento.

Niente di questo si intende senza condividere l’ipotesi che “la cultura” sia il teatro obliquo delle figurazioni indirette che danno una voce discontinua e frammentata al sociale, insinuandosi nelle pieghe più diffuse, nelle rotture semi-occultate, nei vuoti dove rintracciare i segni delle connessioni, la divisione, il residuo, la dispersione, ecc. che sfuggono agli schemi controllati e imposti dalla ragione pratica che descrive solo ciò che è direttamente oggettivabile.

La dimensione critico-estetica della cultura che assume il femminismo sfida il riduzionismo socio-politico delle categorie funzionali dell’analisi di genere, combinando una eccedenza di senso che suscita sconcerto, crea paradossi e ambivalenze nel sistema univoco, monodimensionale, della razionalità comunicativa.

L’intenso lavoro della critica femminista sui rapporti tra critica, politica ed estetica è destinato a esprimere mondi di esperienza che non vogliono sacrificare il vago o l’indistinto (in between) in favore dell’esclusivamente riconosciuto e definito, né rinunciare alle fratture dell’indeterminazione che permettono di far vacillare i repertori di enunciazioni e di corpi già classificati e normati rispetto alle soggettività ancora-senza formulazione, o in corso di formulazione. Come Julia Kristeva ha già sostenuto:

Perché la letteratura? È perché di fronte alle norme sociali, la letteratura dispiega un sapere e talvolta una verità su un universo represso, segreto e inconscio. Perché duplica il contratto sociale, rivelando così il suo non detto, la sua inquietante stranezza. Perché dall’ordine astratto e frustrante dei segni sociali, dalle parole della comunicazione corrente, crea un gioco, produce uno spazio di fantasia e di piacere […]. Il ruolo dell’esperienza estetica dovrebbe essere accresciuto non solo per contrastare l’archiviazione e l’uniformità delle informazioni, ma anche per demistificare la comunità linguistica come strumento universale, totalizzante e allineatore (Kristeva 1995).

La libertà creativa che gioca con la metaforicità di parole e immagini rende l’arte e la letteratura capaci di intravedere ciò che non è ancora stato integrato nella circolazione comunitaria dalle lingue normalizzanti dell’ordinamento sociale.

Sorprendentemente, il “più di quello” e il “mai del tutto” dell’arte e della letteratura, di una soggettività femminista in permanente disinteresse per ruoli e sceneggiature, entra nella molteplicità di molti altri nomi e corpi “fuori posto”. Questi altri nomi e corpi – sottratti o eccedenti – sono coloro che non si sentono parte della democrazia, essendo stati respinti dall’ordine del consenso, come ha osservato brillantemente Jacques Rancière:

Se la letteratura testimonia qualcosa di importante per la comunità, è il dispositivo che introduce l’eteronomia nel sé (una eteronomia che separa tutto da sé stesso). Ed è proprio qui che la questione della letteratura è legata a quella della democrazia: sia l’una che l’altra istituiscono, attraverso la sovraimpressione nel racconto delle parti della comunità e la completezza dei corpi, consensienti e adeguati, l’esistenza di esseri senza corpi, che non sono proprietà di cose intercambiabili, né convenzioni di una relazione di scambio.

Il “più di quello” dell’arte, il “mai del tutto” della democrazia e il sempre incompleto della domanda femminista, includono la controversia di nomi e corpi “senza posto”. Questi nomi e corpi “fuori posto” (J. Ranciere), come fa sapere il femminismo, occupano ogni margine di decentramento per reclamare contro le gerarchie ufficiali di assegnazione/distribuzione del valore e della rappresentazione culturale.

La critica della cultura nasce dal conflitto tra il giudizio della trasparenza (il realismo pratico dell’ordine sociale – funzionalizzato e plausibile – che richiede linguaggi operativi) e le ombre di opacità che circondano i fallimenti e i contraccolpi di quello che resiste all’economia del calcolo. Ed è per questo che la critica femminista non può limitarsi a denunciare gli stereotipi maschili dominanti o a stimolare rappresentazioni alternative delle donne come unico compito necessario del femminismo, anche se allo stesso tempo – in un gesto duplice e sdoppiato – deve continuare a seguire l’imperativo delle lotte antidiscriminatorie e promuovere l’uguaglianza di genere.

La critica femminista come critica culturale deve allontanarsi dallo slogan delle identità e delle differenze concepite come categorie già fissate da un ordine binario di affermazione e negazione – “sì” o “no” – che non ammette le interrogazioni e le esitazioni del “forse”, e così via.

Ewa Partum, Cwiczenia (Exercises), 1972.

La critica femminista come critica culturale deve utilizzare le asimmetrie e le disallineazioni della prospettiva di genere per smontare i codici di costruzione del senso e dell’identità, sottolineando le fessure e gli intervalli che contraddicono la nozione – egemonica – di una rappresentazione completa e chiusa dei nomi e dei corpi chiamati a coincidere semplicemente con sé stessi.

La creazione di soggettività ribelli alle definizioni univoche di “identità” e “differenza” richiede l’attivazione di un pluralismo eterogeneo del significato che si trova nelle pieghe del simbolico-culturale, mobilizzando la dinamica interna ed esterna del confronto dei segni attraverso disgiunzioni di enunciati che la critica femminista porta fuori dalle totalizzazioni identitarie in omaggio al sospensivo e all’intermittente.

 

Identità, differenza: l’alterità come linea di fuga

La critica femminista degli anni ’70 che si è dedicata all’arte e alla letteratura si preoccupava soprattutto di compensare la posizione svantaggiata che la tradizione aveva assegnato al femminile nella scala di rappresentazione culturale dettata dal canone maschile-dominante, con un gesto di simmetria invertita (ancora prigioniera del dualismo dell’opposizione sessuale) che, finalmente, cercava di dare priorità assoluta al secondo termine – la donna – subordinata per secoli dal discorso patriarcale.

La critica femminista decostruttivista che è emersa negli anni ’80 è stata in grado di mettere in discussione la difesa del femminile in sé che, essenzializzando il binarismo di genere, sosteneva che il corpo e l’esperienza delle donne fossero il supporto naturale di una femminilità autentica che si mostrava nelle parole e nelle immagini.

Il femminismo post-strutturalista, in dialogo con la psicoanalisi e le filosofie della decostruzione, inquadra l’io-donna come una totalità unificata da una serie presumibilmente stabile di attributi di genere-sessuale contenuti nell’essere identico-a-se-stesso del femminile. Il femminismo post-strutturalista postula, piuttosto, che il sé venga annullato e ricreato cambiando le posizioni-del-soggetto che costruisce i propri segni relazionali, contingenti e transitivi, nell’intersezione di contesti tra forze eterogenee e significati dissimili.

Come l’arena dei segni teorizzati da Bachtin, tutte le identità sono multi-accentuate, in quanto sono attraversate da una varietà di interessi e conflitti che eccedono la linea principale dell’opposizione sessuale maschile-femminile. Distanziandosi dalla contesa di identità e/o differenza basata su un nucleo preesistente di proprietà sostanziali della “donna” o delle “donne”, il femminismo post-metafisico smette di concentrarsi sulla particolarità di ogni assegnazione di genere (maschile-feminile) per andare verso la generalità dei segni di identificazione-differenziazione del valore sessuale distribuiti socialmente nelle catene multiple di costruzione del significato.

Questo è il momento teorico in cui, all’interno del femminismo, “la differenza viene ridefinita, non più come maschile contro femminile, non più come biologicamente costituita, ma come molteplicità, ambiguità ed eterogeneità” che, “anziché mostrare semplicemente, come negli approcci più tradizionali, i temi e le rappresentazioni dell’oppressione delle donne”, trasforma il soggetto “nella sede della sfida e dell’alterità” (Jacobus 1999) di ciò che lo deconfigura sia internamente che esternamente.

La pratica femminista di organizzazione delle donne ha risentito di questo svuotamento critico delle categorie di identità che diventando discontinue e instabili, piuttosto che coerenti e sicure, indeboliscono il contesto collettivo delle linee d’azione mentre necessitano dell’operatività strategica di un “noi” per riunire il disperso intorno a obiettivi comuni.

Proprio quella lotta femminista orientata a dare potere alle donne – per rafforzarle socialmente come soggetti che possiedono il proprio “io”, con tutto ciò che implica l’autodeterminazione – è stata colpita dall’indebolimento postmoderno delle narrative sull’identità che, dal frammentario e decentrato, sono ora intese come identificazioni sempre parziali e occasionali.

Senza la piena categorizzazione di un “noi” integrato, il femminismo teorico deve presagire la “rappresentazione”, nel duplice senso – estetico e politico – di somiglianza e delega.

Il femminismo si è prima spostato dall’identità delle donne (un insieme chiuso di proprietà sul nucleo omogeneo di una femminilità essenziale) alla differenza (il femminile come un inverso asimmetrico del maschile-patriarcale che cerca una rivendicazione, separatista, basata su un sistema di riferimento separato).

Il femminismo è passato più tardi dalla differenza assolutizzata come femminile, alle differenze che si moltiplicano in ogni donna e tra le donne.

Oggi la teoria femminista comprende il plurale multidifferenziato dell’insieme di identità e differenze che trascendono la semplice opposizione sessuale collegando diverse coordinate di potere, egemonia, cultura e resistenza.

Questa enfasi sulla multidifferenziazione del soggetto e le pratiche dell’identità consente alla teoria femminista di usare il genere non per riaffermare una “proprietà” della differenza sessuale in quanto tale, ma come forza che spinge ogni territorio soggettivo a muoversi creativamente tra centralità e margini, tra unità e frammentazione, tra autonomia e eteronomia, ecc.

Questa nuova prospettiva di genere – fluttuante e intersecata – serve alla critica femminista intesa come critica culturale per testare la tensione del limite, il confine tra il dentro e il fuori di strutture prestabilite come dominazione o subalternità.

Questa tensione del limite fa sì che il genere oscilli tra appartenenza e disseminazione, tra comunità e dis-identità, tra il raggruppamento di “essere parte di” un “noi” e l’eccentricità del margine rivendicato da “altri inadeguati” (Trinh T. Min-ha) in un esercizio deliberato di de-localizzazione di se stessi.

Nell’assunzione delle molteplici divisioni che hanno disgiunto i significati di “donna”, “identità”, “differenza” e “rappresentazione”, la teoria femminista sa che deve mettere in discussione la linearità – ingannevolmente trasparente – del vincolo tra “essere” e  “come” parlare e “in nome di chi”.

Senza il referente completo di identità e differenze, il femminismo deve sottolineare i tagli, le fessure, le divisioni e le dislocazioni che, in ogni processo configurativo di soggettività, resistono alle identità piene e suturate.

De-naturalizzando la relazione tra corpo, esperienza, soggetto, rappresentazione, verità e significato, la critica culturale femminista lotta contro la programmaticità delle designazioni e assegnazioni fisse con cui la sociologia di genere ha cercato di dominare la riflessione sull’oppressione sessuale, sulla donna e i cambiamenti sociali.

Le linee di fuga e di alterità pluralizzano ciascun “io” impedendo la chiusura rappresentativa di una identità “completa”, per lasciare spazio alla “soggettività aperta degli emarginati” (o incontados, come li chiama Ranciére 2006: 35), che prolifera ai bordi più disgregati che la società esige come numerabili, governabili e sistematizzabili.

La critica culturale femminista non si limita al fatto che il soggetto marginalizzato dalla divisione sessuale egemonica (la donna) coincida realisticamente – o sociologicamente – con la categoria di marginalità assegnata dalla logica rappresentativa della subordinazione e della discriminazione di genere.

Piuttosto, vuole invitare i soggetti dissidenti e le identità non conformi, con i quali distribuisce il consenso delle identità classificate, a costituirsi a partire dalla separazione tra l’assegnato e il reinventabile, tra l’unanime e il divergente, tra il classificato e il non classificabile, ecc.

Per questo, la critica femminista deve accogliere la dimensione ideologico-culturale dei conflitti di valore, significazione, potere, rappresentazione e interpretazione che accompagnano le pratiche sociali e politiche dell’identità, della resistenza e dell’opposizione.

Inoltre, la critica femminista deve interessarsi alle figurazioni simboliche e dell’immaginario, ai modelli espressivi di quelle nuove configurazioni percettive e di coscienza che risvegliano l’immaginazione dei segni con gesti ed enunciazioni non corrispondenti a una matrice di significazione univoca.

Così la critica culturale femminista genera turbolenze e discrepanze in quello che è già ordinato e ripartito nelle classificazioni sociologiche che rendono l’appartenenza e la pertinenza la loro unica base di comprensione per riconoscere le identità e le differenze.

Cominciamo affermando che la critica femminista, assumendosi come critica culturale, espande la propria capacità di dis-assemblare le strutture discorsive che legano segni, rappresentazioni e interessi intorno alla differenza sessuale.

In maniera reciproca, la critica culturale trova nella critica femminista il modello di una “differenza situata”, cioè una differenza di posizione che attraversa i mondi incrociati dell’attivismo teorico-accademico, della militanza sociale e della creazione estetica, che la portano ad alternare registri della voce e posizioni soggettive sempre variate e variabili.

In entrambi i casi, sono le forze dell’alterità che conducono alla scoperta della non-corrispondenza e dello sfasamento in cui ogni soggetto può essere un altro per sè stesso.

Nelly Richard, La crítica feminista como modelo de crítica cultural, pubblicato in “Debate Feminista”, Vol. 40, ottobre 2009, pp. 75-85.

[traduzione Elvira Vannini]

 

Bibliografia

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Leonor Arfuch, Crítica cultural entre política y poética, fce, Buenos Aires, 2008.

Michelle Barrett, “Las palabras y las cosas”, in Michelle Barrett e Anne Phillips (a cura di), Desestabilizar la teoría. Debates feministas contemporáneos, pueg/Universidad Nacional Autónoma de México, México, 2002.

Rosi Braidotti, Sujetos nómades, Paidós, Buenos Aires, 2000.

Judith Butler, “Variaciones sobre sexo y género”, in Seyla Benhabib e Drucilla Cornell (a cura di), Teoría feminista y teoría crítica, Edicions Alfons el Magnánim, Valencia, 1990.

Giulia Colaizzi, “Feminismo y teoría del discurso: razones para un debate”, in debate feminista, n. 5, marzo, 1992.

Terry Eagleton, Después de la teoría, Random House, Barcelona, 2005.

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Jacques Ranciére, Política, policía, democracia, Ediciones lom, Santiago, 2006.

Edward Said, “Crítica secular”, in Punto de vista, n. 9, dicembre, Buenos Aires, 1987.

Jacob Torfing, “Un repaso al análisis del discurso”, in Rosa Nidia Buenfil (a cura di), Debates políticos contemporáneos. En los márgenes de la modernidad, Plaza y Valdés, México, 1998.

 

[i] M. Barrett continua: “Il tipo di sociologia femminista che ha più pubblico, ad esempio, si è allontanato da un modello deterministico di “struttura sociale” (chiamata capitalismo, patriarcato o mercato del lavoro diviso per sesso o altro) e si occupa di questioni di cultura, sessualità o attività politica, contrappesi evidenti per porre l’accento sulla struttura sociale “. Barrett 2002: 216.

[ii] T. Eagleton dice la stessa cosa in un altro modo: “Per le rivendicazioni politiche del femminismo [cultura] è fondamentale la grammatica in cui sono incorniciate. Valore, discorso, immagine, esperienza e identità sono il linguaggio della lotta politica”. Eagleton 2005: 59.

[iii] Monique Wittig afferma: “Siamo stati costretti, nel nostro corpo e nelle nostre menti, a corrispondere carattere per carattere all’idea di natura che ci è stata assegnata”. Monique Wittig citata da Butler 1990: 202.

[iv] Michel Foucault afferma: “Per il sapere che ci viene sottoposto, capisco due cose: da un lato desidero designare i contenuti storici che sono stati sepolti, mascherati all’interno di coerenze funzionali o in sistematizzazione formali. […] Il sapere assegnato è costituito da questi blocchi di conoscenza storica che erano presenti e latenti all’interno di complessi funzionali e sistematici. […] In secondo luogo, a causa della conoscenza subordinata, credo che, in un certo senso, una cosa diversa debba essere capita: una serie di conoscenze classificate come incompetenti o insufficientemente elaborate: sapere ingenuo, gerarchicamente inferiore a livello di conoscenza o di scientificità richiesto”. Foucault 1979: 129.

[v] La critica culturale femminista si riconosce nel gesto descritto da L. Arfuch: quello di “abilitare le transizioni, gli spostamenti, la valorizzazione dei margini, degli interstizi, di quello che resiste alla chiusura in una “zona limitata” del sapere e quindi, all’autorità di un dominio specifico”. Arfuch 2008: 208.

[vi] È solo un dispiacere che una rivista come DEBATE FEMINISTA non sia di solito inclusa come riferimento nei dibattiti accademici degli studi culturali latinoamericani, poiché avrebbe indubbiamente rimosso la monotonia dall’agenda tematica proponendo materiali che attraversano direzioni inesplorate rispetto alla separazione tracciata per il latinoamericanismo tra le scienze umanistiche e le scienze sociali.

[vii] Questa dimensione ibrida è dovuta al fatto che “la parola, al di là della sua (obbligata) pretesa di fedeltà, è contrassegnata dalla duplicità, dalla mancanza, dalla deviazione, dall’illusione….Questa preminenza della dimensione simbolica come distanza critica da qualsiasi affermazione […] è inerente a qualsiasi inchiesta sul campo culturale “. Arfuch 2008: 209.

Comment (1)

  1. Il primo passo di qualsiasi progetto critico consiste nel rendere strano cio che e familiare. Che cos’e questo amore romantico di cui si suppone che le donne facciano esperienza, si chiedeva Ti-Grace Atkinson con coltivata ingenuita: uno stato isterico? Una condizione di demenza? Un delirio? (1974, 45). Un minimo di distanza critica dal senso comune sull’amore e necessario per ottenere la padronanza analitica del fenomeno. La domanda sull’essenza dell’amore, in ogni caso, era meno pressante di quelle relative a come funziona e che cosa fa: come attiva soggetti sessuati e quali scopi, o interessi, serve? Precisamente «come», si chiede Firestone, «opera il fenomeno dell’amore?» (1970, 114). Sperare di innamorarsi e vivere per sempre felici e il precetto di un’ideologia; cio che si doveva determinare era come funzionasse e a quali scopi. Ci sono almeno quattro modi in cui le femministe hanno inteso l’amore romantico e la felicita in quanto fenomeno ideologico: come propaganda, come mistificazione, come spoliticizzazione e come soggettivazione. Come vedremo, ciascuno di questi approcci ha qualcosa da offrire all’analisi critica dei discorsi dell’amore e della felicita al lavoro.

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