Surjoué le théâtral* Sull’opera di Peter Friedl

«Se dovessimo invitare l’autore senza mezzi termini ad affrontare i suoi personaggi per una dichiarazione sulla natura del suo impegno, lo sentiremmo dire: “Mi rifiuto di sfruttare liberamente il mio talento”; Lo uso come educatore, politico e organizzatore. Non c’è nessuna critica alla mia attività letteraria – “imitatore”, ” troublemaker” o “sabotatore” – che non adotterei per i miei anti-letterari, anonimi e sistematici sforzi, considerandola come una medaglia al valore».

Walter Benjamin, Bertold Brecht, 1927-34.

 

«L‘arte diventa commerciale proprio nel momento in cui il suo tempo è passato. È la tensione tra il successo e l’impatto, di cui Brecht ha parlato per un pò di tempo, che si è sempre sorpassati dal successo prima che possa verificarsi un impatto reale. Finché una cosa funziona, non ha successo, e quando il successo è lì, l’impatto è terminato».

Heiner Müller, “Intelligence without experience/interview with Harun Farocki”, in Germania (New York: Semiotext(e), 1990), p.166.

Peter Friedl, veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale, Foto: Daniele Marzorati.

«La produzione ben fatta è quella da cui sono state rimosse le tracce delle sue prove (proprio come nella merce reificata con successo le tracce della produzione stessa sono state fatte sparire)»: questa osservazione di Fredric Jameson (Brecht and Method, London, New York: Verso, 1998, p.11) potrebbe essere estesa all’analisi funzionale del sistema dell’arte contemporanea ma al tempo stesso – e come spesso accade nell’opera di Peter Friedl – è vero anche il contrario, ossia esibire ciò che avviene dietro al palco, insieme a una ‘politica della figura’, destabilizza la funzione teatrale dentro le strutture di produzione dell’arte, mentre si mostra che si sta mostrando qualcosa: il meccanismo di apparizione e di mise en abîme della storia, istituisce e presiede i regimi di visibilità nel suo lavoro, anche attraverso il teatro.

Friedl sembra guardare a differenti modelli di teatricalità, dall’esecuzione mimetica del teatro naturalista o il tableaux vivant, le marionette, fino all’ultimo lavoro presentato a documenta 14 (Report, girato in un auditorium teatrale ad Atene) o la recente esperienza di Teatro Popular, che deriva da un formato di “animazione” di strada portoghese (Teatro Dom Roberto), il cui palcoscenico (barraca) è una struttura di stoffa che nasconde i burattinai dallo sguardo del pubblico mentre manovrano i burattini. Il teatro nasce con un valore politico e si pone al di fuori della sfera dell’influenza estetica per ricollocarsi all’interno dei fenomeni sociali (Schechner) ma è anche al centro di questioni legate al retaggio dell’opposizione modernista tra estetico e politico, nell’affrontare il problema della rappresentazione, dei suoi enunciati e delle sue formazioni discorsive in relazione al potere.

Peter Friedl, The Dramatist (Anne, Blind Boy, Koba), 2013.

“Chi può dire quali saranno i fili che guideranno la Über-Marionette?- si chiedeva E.G. Craig, in Gentlemen, the Marionette (1912). Non credo nel meccanico, né nel materiale… I fili che si dipanano tra la divinità e l’anima del Poeta sono quelli che potrebbero governarla. Non sono rimaste a Dio altre corde del genere, per un’altra figura? Non ne dubito”.

The Dramatist è costituita, nella versione presentata alla prima Biennale di Anren, da tre marionette artigianali i cui ritratti ispirano riflessioni sulla storiografia (che non è mai un’attività neutrale) e sulla narrazione politica e impersonano Anne Bonny, una pirata irlandese vissuta nel Settecento, Blind Boy (un carattere tratto da The Drama for Fools, un corpus di drammi per marionette di Edward Gordon Craig e che rappresenta l’artista da bambino) e un giovane Stalin (Koba è il suo nome di battaglia). Il pubblico, che non è mai di fronte all’opera in The Dramatist, quale potere esercita su ruoli e funzioni dell’atto espositivo, e su come condiziona il significato e la ricezione dell’opera stessa?

Bilbao Song (2010), esposto ad Anren proprio di fronte alle tre marionette, è stato girato nel palcoscenico vuoto del Teatro Serantes a Santurtzi, vicino Bilbao, come una successione di statici tableaux vivants time-based, occupato da un’unica azione scenica, una performance senza testo: l’esecuzione dal vivo con pianoforte e fisarmonica di “Bilbao Song”, tratta da Happy End una commedia musicale di Bertolt Brecht e Kurt Weill. L’artista ha convocato attori professionisti, dilettanti e personaggi politici come Julen Madar (storico co-fondatore dell’ETA e successivamente membro del movimento sociale Elkarri) con un riferimento alla storia basca. Ma cosa nasconde la scena che richiama la rivisitazione iconografica del dipinto di Ingres del 1817, Enrico IV che riceve l’Ambasciatore di Spagna?

Peter Friedl, Bilbao Song, video, color, sound, 2010

“Qualsiasi cosa si possa pensare dell’evoluzione del teatro postdrammatico [il teatro che privilegia l’attività rispetto all’azione], Friedl, come dimostra The Dramatist, si è sempre interessato all’altra scena, la scena storica, quella in cui i soggetti biografici dipendono dalle relazioni di potere e dai meccanismi di subordinazione sociale. La storia e la geografia sono il contesto dell’arte «audiovisuale». Nonostante prendano il sopravvento sulla sceneggiatura e sovvertano l’autorità convenzionale dell’autore, la de-drammatizzazione (la rottura delle sequenze causali), agisce ancora nel tempo e nella storia. Come ha osservato Eva Schmidt, Friedl ha spesso «enfatizzato il teatrale», provocando degli «effetti di corto-circuito». Questa attitudine corrisponde ad una posizione ambigua sul «senso della storia». Se in un caso, Friedl, come emerge dal suo saggio su Theodor Lessing (1984), aderisce all’antistoricismo nietzschano, nell’altro, quando ha integrato alcuni dei suoi disegni d’infanzia nella sua retrospettiva del 2006, cercando così di produrre una continuità, riconosce che non può essere soddisfatto dalle «discontinuità teatrali».
La quattro marionette di The Dramatist si riferiscono all’infanzia per la semplice parentela che le marionette intrattengono con i giocattoli infantili. Ma queste derivano da un’attitudine da collezionista, che comporta un’immagine frammentaria e discontinua della storia, che si tratta proprio di superare. I quattro personaggi non formano alcuna serie oggettiva coerente. Sono quattro profili biografici senza altro legame apparente che la costellazione creata dal quinto personaggio, invisibile, che li manovra. Potremmo evocare il filo di Arianna. Ma non c’è alcun filo. Quello che c’è sono «quattro personaggi in cerca di autore», secondo il modello pirandelliano.

La costellazione di Friedl è aperta. La drammaturgia deve ancora inventare le trame che costituiranno la sceneggiatura. La possibilità della sceneggiatura è data come un soggetto di scrittura, uno sforzo poetico. Friedl parla spesso di un lettore “attivo” nato dalla “morte dell’autore”. Una questione è posta, insistentemente: quale storia dell’era moderna può legare, intrecciare e animare queste quattro figure; quale schema drammatico potrà organizzare la storia delineata dai quattro profili biografici?”

 

Il testo è di Jean-François Chevrier, Le théâtre biografique selon Peter Friedl, estratto dal catalogo The Szechwan Tale. Theatre and History della Biennale di Anren, 2017.

Peter Friedl, veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale, Foto: Daniele Marzorati

 

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