The Szechwan Tale: Theatre and History. Il racconto di Marco Scotini

“La provincia del Sezuan, che nella presente parabola simboleggia tutti i luoghi dove gli uomini sono sfruttati dagli uomini, oggi non fa più parte di questi luoghi”.

Bertolt Brecht, L’anima buona del Sezuan, 1940.

Ulla von Brandenburg, veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale, Foto: Daniele Marzorati.

La prima edizione della Biennale di Anren, intitolata Today’s Yesterday/今日之往昔, diretta dallo storico dell’arte Lu Peng, di cui hai curato una delle quattro sezioni, The Szechwan Tale. Teatro e Storia, come si inserisce nel contesto delle Biennali in Cina, rispetto all’apparato economico, politico, istituzionale e di governance locale? Se oggi nessun paese può dichiararsi al fuori del circuito artistico internazionale e le biennali, o le large-scale exhibitions, sono diventate un genere dominante dentro questo network, si può ancora sviluppare un punto di vista critico all’interno di questo format espositivo? Quali contraddizioni sono emerse, considerando come dalla nostra prospettiva: “negli ultimi tempi, l’Occidente ha assistito con stupore ai mutamenti impressionanti della Cina, la cui storia recente è davvero molto simile al rapido cambio delle maschere dell’opera del Sichuan, perché nel giro di trent’anni, è passata dal primato della politica al primato del denaro”….

 

Marco Scotini: All’interno del reticolo di relazioni che definiscono ogni collocazione, quello che mi ha subito attratto di Anren è il fatto che fosse una time-capsule piccola e decentrata. E, dunque, non una caotica metropoli cinese come Shenzhen, Guangzhou, Shanghai o Chengdu. Queste sedi storiche di Biennali d’arte sono centri che superano i dieci milioni di abitanti. L’idea di Lu Peng era invece quella di una Biennale a carattere locale, che non dovesse rincorrere il paradigma dell’internazionalismo dominante a tutti i costi. E che non ripetesse il carattere ormai standardizzato delle precedenti e ormai collaudate istituzioni. A questo aspetto si accompagnava l’idea – altrettanto interessante – del titolo generale Today’s Yesterday e l’invito a fare i conti con il passato: cosa piuttosto rara nella Cina contemporanea. Senza sottrarsi all’insieme di relazioni e contraddizioni che accompagnano l’attuale folle sviluppo della Cina (così come il format biennale su scala mondiale), Anren sembrava permettere una maggiore concentrazione (magari metodologica o critica) e la possibilità di colmare quel deficit di relazione con il pubblico locale che accompagna ogni biennale. Per quanto piccola e dispersa nella campagna del Sichuan, Anren è uno spazio carico di qualità e abitato da più fantasmi: al tempo della Rivoluzione culturale è stato meta di pellegrinaggio da tutta la Cina perché al suo interno custodisce quell’opera straordinaria che è The Rent Collection Courtyard: un teatro di terracotta di oltre cento attori in scala reale che mette in scena una storia di oppressione e insorgenza contadina nella prima metà del secolo scorso. Un capolavoro e un manifesto dell’età rossa. Perché allora non assumere il teatro come tema? Brecht mi avrebbe aiutato in questo.

Céline Condorelli, veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale, Foto: Daniele Marzorati.

 

Alcune mostre recenti hanno assunto come oggetto di indagine le funzioni teatrali e drammaturgiche che presiedono alle forme dell’exhibition-making, senza riferirsi al teatro nell’accezione più classica del termine, ma affrontando (o smontando) il ‘teatrale’ come possibile campo di formazioni discorsive: performatività, luoghi di dibattito, strutture spaziali o processi time-based, reading performance o istanze narrative e attoriali.

Da Theatrical Fields (Bildmuseet di Umeå nel 2014 curata da Ute Meta Bauer) attraverso l’uso linguistico di specifici elementi teatrali quali “character,” “voice,” “script,” “choreography” ma, prima ancora, hanno aperto il campo A Theater without Theatrer (MACBA nel 2007 curata da Bernard Blistène and Yann Chateigné, in collaborazione con Pedro G. Romero) e The World as a Stage (Tate Modern nel 2007/09 curata da Jessica Morgan e Catherine Wood) fino a The Death of the Audience (Seccession, Vienna nel 2009 curata da Pierre Bal-Blanc). Il titolo What Keeps Mankind Alive? (Biennale di Istanbul curata nel 2009 dal collettivo croato WHW) è ripreso invece dalla canzone di protesta ne L’opera da tre soldi scritta da Brecht in collaborazione con Elisabeth Hauptmann e Kurt Weill. Il testo è del 1928 e tematizzava il processo di ridistribuzione della proprietà nella società borghese (“un criminale è un borghese, un borghese è un criminale”) e ancora oggi costituisce una valida rappresentazione del sistema capitalistico stesso e le curatrici rintracciavano il potenziale dell’assunto brechtiano nell’arte come impegno, per sollevare domande sulle attuali questioni economiche e politiche. Ma arriviamo alla tua The Szechwan Tale. Teatro e Storia: il punto di partenza è ancora un testo di Brecht scritto in esilio nel 1938 e l’eco della sua opera in Cina, insieme a una sorta di decostruzione dell’idea di teatro come rappresentazione: l’esposizione è concepita come un meta-teatro in cui gli spettatori si trasformano in attori sulla scena della storia. Come si inserisce la tua esposizione in questo discorso sulla teatricalità?

Marko Tadic, veduta dell’installazione, The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale, foto: Daniele Marzorati, courtesy Laura Bulian Gallery.

MS: Tra tutte le mostre che hai citato Theatrical Fields e What Keeps Mankind Alive? sono sostanzialmente brechtiane ma soprattutto (e nonostante le differenze che le animano) a livello delle singole opere o del messaggio politico. Per entrambe difficilmente si può parlare di un’identificazione tra spazio scenico e spazio espositivo. Dall’altro lato, la mostra al MACBA ha un carattere storicista e mette a fuoco quei momenti del XX secolo in cui il linguaggio dell’arte e quello del teatro si sono influenzati reciprocamente. Mentre la mostra alla Secessione lavora sulla fine dei ruoli. A me, ad Anren, è interessato l’atto di mostrare come tale. C’è una politicità intrinseca nell’atto di mostrare. Ma che cos’è l’atto di mostrare? Mostrare significa: far vedere, rendere visibile ma anche offrirsi alla vista, apparire. Mi è sembrato un buon elemento da trattare in un paese dove ancora ha uno specifico peso la censura e dove la verità è sempre il frutto di una manipolazione ideologica. Ma questo è vero ovunque e ha a che fare con i regimi di visibilità che, in quanto tali, non sono mai neutrali. Non è un caso che sono partito da Brecht di L’anima buona del Sezuan, tanto più che proprio il Sichuan era lo sfondo su cui intervenire. Ecco che – nonostante la passione di sempre per la Cina – Brecht in esilio (e nel momento più tragico del nazionalsocialismo) faccia ricorso ad ambientazione e luoghi cinesi per mostrare il dramma europeo in atto.

Sono di questo periodo anche la poesia sull’esilio di Lao Tse, il Tui Roman e La Turandot (entrambi rimasti inediti). Inoltre L’anima buona del Sezuan è un gioco di maschere identitarie, ruoli e classi sociali tra la figura femminile Shen Te e quella maschile Shui Ta. Non so neppure fino a che punto Brecht fosse informato sull’Opera del Sichuan e sulla tecnica del Bian Lian, il cambio veloce di maschera. Di fatto, mentre nell’Opera di Pechino ci sono solo trucco e facce dipinte, l’Opera del Sichuan fa ricorso alla maschera. Credo che dietro questo mio lavoro sul teatro non ci sia tanto I Vespri. Civic Forum in 5 steps del 2012 ma la mostra precedente a questa, Il Cacciatore Bianco, sulle rappresentazioni africane. Diciamo che mi sono riappassionato al Fanon di Pelle nera e maschere bianche e alle risposte che gli artisti africani hanno dato agli stereotipi occidentali con una grande implicazione dello straniamento e della performatività. “Il teatro deve straniare ciò che mostra” diceva Brecht e rifiutava tanto l’immedesimazione tra attore e personaggio che quella tra rappresentazione e avvenimento. Ecco che nel caso di The Szechwan Tale la mostra non scompare dietro ciò che è mostrato ma dichiara continuamente il proprio artificio. Brecht è chiaro: lo straniamento è quell’effetto che lascia bensì riconoscere l’oggetto ma, al tempo stesso lo fa apparire estraneo. Per Anren ho avuto in mente un’esposizione praticabile, trasformabile. In cui, cioè, lo spettatore fosse libero di avere una propria idea sulla realtà a partire da qualsiasi livello d’età o di status sociale.

Céline Condorelli, Ulla von Brandenburg, veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale, Foto: Daniele Marzorati.

“La scena incominciò a raccontare. Non era più assente, oltre alla quarta parete, anche il narratore. Non era solo lo sfondo scenico a prendere posizione di fronte agli avvenimenti che si svolgevano sulla ribalta col rievocare su grandi cartelli altri avvenimenti che nello stesso momento si svolgevano in altri luoghi, col presentare o col contrapporre, mediante la proiezione di documenti, parole dette da determinate persone […] gli attori mantenevano un distacco rispetto al personaggio da loro interpretato e giungevano fino a sollecitarne palesemente una critica”. Secondo il paradigma brechtiano, la mediazione teatrale (come assemblea), o il dramma didattico, rende lo spettatore consapevole della situazione sociale facendolo crescere e rendendolo desideroso di agire per trasformarla, così, nel tentativo di trasferirne il metodo nel “regno” dell’arte contemporanea la tua proposta per The Szechwan Tale, è stata quella di mettere in discussione, implicitamente ed esplicitamente, il limite del concetto e della forma della mostra (nella sua unità di tempo, spazio e narrazione), confrontandoti con il suo ruolo performativo di spettacolo sociale e spazio delle rappresentazioni culturali. Quale è l’urgenza e l’attualità di Brecht oggi?

 

MS: Quando si supera la soglia di The Szechwan Tale si entra sì in una mostra ma, allo stesso tempo, in un backstage, in un camerino o guardaroba (l’opera di Pistoletto) per poi incontrare pezzi di stage vuoti e da assemblare tra loro (l’opera di Condorelli) su cui lo spettatore può salire e recitare, raccontare, contare oppure su cui può sedersi nelle gradonate incorporate per assistere all’azione di qualcun altro. Diciamo che tanto l’opera di Pistoletto che quella di Condorelli sono frammenti di teatro allo stato potenziale, sempre sul punto di passare all’atto, di mettere in scena. Poi s’incontra il grande tendaggio di Ulla von Brandenburg che è una mise en abyme del sipario come tale: dopo un sipario c’è n’è un altro poi ancora un altro, ecc. Anche qui si cambia maschera: dalla tenda bianca (come una tela) si passa ad una gialla ad una viola e, infine, il bianco si trasforma in nero. Superato anche questo diaframma ci si trova di fronte ad un ritratto del pubblico in scala reale che assiste dalla platea a qualcosa che avviene nella scena. Il lavoro fa parte dell’opera La Trampa di Santiago Sierra e il pubblico è quello dei lavoratori occasionali e malpagati in Cile. Non c’è bisogno che spieghi ulteriormente il percorso dello spettatore che ricalca quello dell’attore. Nel viaggio ci sono moltissime altre opere, documenti, tracce di realtà, puppet’s theatres, cabaret, ecc. Come vedi, lo spazio espositivo diventa teatrale o viceversa. Lo spazio della maschera non cessa di intrecciarsi a quello della storia e la fiction alla realtà. La rappresentazione non dice altro che di essere una rappresentazione e, dunque, alla fine non è più tale. Per questo Brecht è così importante oggi. Purtroppo Brecht ritorna sotto ogni dittatura. Ma, per fortuna possiamo dire, ogni dittatura ha i propri Brecht. E ormai il fascismo è ovunque imperante: dobbiamo divenire soggettività incatturabili.

bambini di fronte alla sezione dedicata a Mei Lanfang e il teatro proletario russo, veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale.

Oltre al grande drammaturgo tedesco un’altra premessa, che hai incluso dentro l’esposizione, è lo straordinario complesso scultoreo di The Rent Collection Courtyard, considerato quasi un “diorama della società”, non per il naturalismo icastico e mimetico ma come simbolo della lotta di classe nella campagna cinese prima del 1949 – o anche l’archivio di Wei Minglun che aveva tradotto in “The good woman, the bad woman” il testo brechtiano nel 1998. Come dobbiamo “guardare” in modo critico le tracce visuali e documentali di questo oggetto culturale? O meglio come può il processo dell’exhibiting diventare un framework per quegli aspetti delle vicende storiche che sono sfuggiti a un ordine dominante di rappresentazione della storia…Ci sono stati dei modelli espositivi con cui ti sei confrontato?

MS: Visto che Harald Szeemann lo voleva trasportare a Kassel nella mitica documenta 5 del ’72. Visto che poi lo ha fatto riprodurre, con Cai Guo Qiang, alla Biennale di Venezia del ’99, mentre io mi trovavo di fronte la versione originale di The Rent Collection Courtyard, perché non incorporarlo nella mostra? Tutto ciò rientra nel tema della mia mostra dove il rapporto interculturale tra Oriente e Occidente gioca un grande ruolo. The Rent Collection è una scultura cinese degli anni ’60 che guarda il realismo figurativo occidentale ma in Occidente non è possibile trovare qualcosa di simile: la composizione è ancora quella antichissima dei guerrieri di terracotta di Xian. Mentre, allo stesso tempo, l’Occidente guardava la stilizzazione cinese come possibile modello. Tra tutti basta pensare all’attribuzione al grande attore Mei Lanfang che Brecht fa del suo “effetto di straniamento”. Dopo essere partito da Brecht (essendo io un occidentale) per guardare la Cina, ad Anren ho fatto i conti con quello che è stato un vero e proprio processo di indigenizzazione de L’anima buona del Sezuan, riscritta da Wei MingLun o messa in scena da quello straordinario personaggio che è Ding YangZhong. La cosa curiosa è che questa parabola di Brecht viene ormai considerata parte della tradizione dell’Opera del Sichuan. Come vedi ogni opera in mostra ha una natura estetica e una documentale che sono inscindibili. Questo vale anche per il guardaroba di Pistoletto, per i puppets di Friedl, per la Cina filmata da Clemens von Wedemeyer & Maya Schweizer, per quella fotografata da Yang Yuanyuan, per i costumi da teatro di strada di Gilardi, per la decostruzione dell’Opera di Pechino di Kentridge o il video di Sun Xun. Ma anche questo non chiama ancora in causa il rapporto tra finzione e realtà?

Piero Gilardi, particolare; veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale, Foto: Elvira Vannini

“Il lettore si potrebbe chiedere come definisco la femminilità, o come traggo un parallelo tra la femminilità e la mascherata. Nella mia opinione, non esiste differenza; radicalmente o superficialmente, sono esattamente la stessa cosa”, così racconta Joan Riviere nel suo testo Womanliness as a Masquerade (La femminilità come mascherata) del 1929 il primo passo verso l’emancipazione femminile. La protagonista del testo di Brecht è la giovane prostituta Shen Te che per affrontare la meschinità e l’arroganza che la circonda è costretta ad assumere, attraverso l’artificio teatrale l’identità maschile del cugino Shui Ta. Il teatro avrebbe la capacità di smascherare il reale proprio in quanto arte della finzione e della maschera. “Ho visto l’attore cinese Mei Lanfang e la sua troupe esibirsi. Ha recitato la parte di una giovane donna ed è stato incredibile” scriveva Brecht nel 1935, dopo aver assistito a uno spettacolo di Mei Lanfang a Mosca, dove simultaneamente la sua figura, che non è rappresentativa o mimetica ma performativa e sdoppiata: uno si esibisce, l’altra è esibito (il Verfremdungseffekt). Come sono ricostruiti questi passaggi storici in mostra?

MS: Quello che ci sta a cuore nell’operazione di smascheramento attraverso la maschera è lo scarto tra la recitazione e il reale. Su questo ha insistito molto Alain Badiou e questo è al cuore dell’ideologia come tale, del suo taciuto carattere teatrale. L’ideologia è un travestimento dissimulato, è la maschera che si afferma come reale mentre il nostro compito è vedere il reale come rappresentazione, come mascheramento. Questo vale per l’ideologia, il genere, l’identità, ecc. In mostra il lavoro di Lisl Ponger (attraverso una fotografia staged) dichiara le culture e le presunte appartenenze come costruzioni fittizie.

particolare di Greeting di Qiu Zhijie, 2013

Ma in The Szechwan Tale c’è una sequenza (un montaggio) che mi sembra eloquente al riguardo. Lo spettatore si trova due pareti (una dietro l’altra) che sono ortogonali al suo percorso. Nella prima ci sono oltre trenta maschere dalla testa grossa Da Tou Wa Wa, che si usano per il capodanno cinese e sono sempre sorridenti (come il Buddha). L’opera è Greetings di Qiu Zhijie. Nella seconda sono ottanta volti di foto segnaletiche bianco/nero degli anni Sessanta. Si tratta di uomini o ragazzi ritenuti colpevoli dal partito comunista perché di estrazione borghese. Nessuno mette in dubbio che il volto di questa seconda parete si contrapponga alla maschera della prima. Eppure quest’ultimo archivio raccolto da Mao Tongqiang è davvero rivelatore nella mostra. Qui l’ideologia interroga radicalmente lo spettatore su realtà e finzione. Chi è colpevole? Si chiede Mao Tongqian. Il partito Comunista governa ancora la Cina ma i colpevoli di allora sono i privilegiati di oggi. Dunque dove sta la verità? Tutti quei volti fanno la parte di attori temporanei dentro un teatro della crudeltà. Sono volti o maschere? Come rendere relativo ciò che è fatto passare come egemonico? La risposta viene lasciata all’interpellato.

Mao Tongqiang, Theatric Piece, 2017.

Il punto di partenza della Rivoluzione culturale era stata l’affermazione che dopo la presa del potere da parte del proletariato e l’instaurazione dei rapporti socialisti, era necessaria una rivoluzione a livello delle sovrastrutture per adeguarle alle nuove strutture…..come ti sei confrontato con questa ingombrante eredità che ha costituito un modello politico con una forte risonanza in Occidente e cosa è rimasto oggi? Nella tua intervista con il curatore Li Xianting della storica mostra China/Avant-Garde del 1989 discutete dei tre assi temporali (1919/1949/1989) in cui tre diverse tipologie della modernità occidentale sarebbero entrate nell’arte cinese, in un ambivalente rapporto con la politica: servire la politica o abbandonare la politica (per un’azione altrettanto politica). Cosa ci dice oggi quello che viene mostrato o non mostrato della Cina?

MS: Proprio la Rivoluzione Culturale è uno dei tabù contemporanei in Cina. Proprio per questo ho potuto alludere, suggerire…Un recensore di Global Times ha scritto sulla Biennale: “It’s not just Chinese artists that are exploring revolutionary history, foreign artists such as William Kentridge from South Africa and Pedro Reyes from Mexico are also dipping their toes in this area by sharing their video works Notes Towards a Model Opera and Baby Marx”. Dunque ho cercato di fare il possibile anche con il materiale documentario se penso ai pezzi musicali di Cornelius Cardew dedicati al maoismo. Ma quello che accade in Cina non è diverso da ciò che ne sta fuori. É solo più diretto. Ho inserito anche gli Antihappening di Julius Koller e gli Happsoc di Stano Filko. Volevo che fossero una memoria del clima culturale dopo la repressione di Praga e del fatto che chiunque si affollava per strada fosse sospetto. Ma la super-esposizione occidentale tradisce lo stesso forme d’interdizione governamentali o politiche. Il problema di ciò che è mostrabile e di ciò che non lo è non è esclusivamente un tema cinese. Per questo ho lavorato sull’atto di mostrare… naturalmente sulla sua interezza.

Michelangelo Pistoletto, Guardaroba, 2017 (re-enactment della personale del 1968 all’Attico di Roma).

The Szechwan Tale si sviluppa temporalmente come un meta-apparato drammaturgico che segmenta e decostruisce la macchina teatrale e il suo sistema produttivo in una sequenza di impaginazioni spaziali, oltre che funzionali: backstage, stage/palco, sipario, attori e puppets, scenografia e attrezzi scenici, platea. Quindi nessuna teatralizzazione del medium espositivo o spettacolarità delle opere, nemmeno nel loro carattere preminente di esecuzioni/rapresentazioni ma l’idea di teatro che ci presenti presuppone la base strutturale della “successione scenica” rispetto al display complessivo dello spazio. Oppure pensando all’ingresso, al re-enactment della personale che Pistoletto tiene alla galleria L’Attico di Roma nel 1968: aveva accomodato la sala con i suoi specchi, props teatrali, scenografie di cartapesta, costumi cinematografici e cappelli spettacolari, accatastati nel mezzo, ogni visitatore, sotto la luce abbagliante di riflettori da 1000 watt, poteva sceglierne uno e travestirsi, o cambiare continuamente travestimento, facendo “teatro”, là come setting, qua come azione, ma quella che entra in scena è la Cina e le sue concatenazioni storiche e culturali con l’occidente. Da qui si entra nel cuore della mostra.

MS: In fondo al centro di The Szechwan Tale non c’è altro che il gioco di chi guarda ed è guardato. Il teatro è stato decostruito in tutte le sue componenti per mostrarne l’artificio.

Ogni componente era presente ma, all’opposto di un gesamtkustwerk, nessuna fusione. Il testo è quello di Wei Minglun, gli abiti di Pistoletto e Gilardi, lo stage di Condorelli, il sipario di Ulla von Brandenburg, la platea di Sierra, le scenografie dei Kabakov, von Wedemeyer e Yang Yuanyuan, la recitazione degli Straub e di Mei Lanfang, le musiche di scena di Cardew, i puppets di Friedl e di Reyes, i cabaret di Wael Shawky e Chto Delat?, i props dei Gianikian e di Tadic, le maschere di Qie Zhijie, Mao Tongqiang, Lisl Ponger, lo ShadowTheatre di Joan Jonas, le coreografie di Joris Ivens, ecc. Penso che sarebbe interessante farne dei titoli di coda. Il tutto impedisce naturalmente di calarsi nei personaggi e negli eventi ma permette di guardarsi recitare…Mei Lanfang, Bertolt Brecht, Heiner Muller…

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Carrousel de jeux, 1997-2006, Ulla von Brandenburg, veduta dell’esposizione The Szechwan Tale: Theatre and History, Anren Biennale.

 

MS: Riportare The Szechwan Tale in Italia non sarà facile. Ma penso completerebbe quel rapporto interculturale che è stato presente fin dalla prima idea della mostra. Naturalmente l’esposizione sarà diversa. Non riesco a pensare che qualcosa possa rimanere inalterato. Dopo dieci anni di Disobedience Archive credo sempre più in una mostra come in qualcosa di organico, che ha bisogno di adattarsi, di contestualizzarsi. Non solo che cosa ma anche: come mostrare? Non ultimo elemento: i pubblici non saranno gli stessi.. anche se una grande comunità cinese è ormai da più generazioni a Milano.

ragazza in posa con costume teatrale di fronte a La Trampa di Santiago Sierra, 2007, courtesy Prometeo Gallery by Ida Pisani.

PHOTO GALLERY, The Szechwan Tale: Theatre and History:

四川故事:戏剧与历史/The Szechwan Tale: Theatre and History

per info:

https://universes.art/anren-biennale/2017/szechwan-tale/

Marco Scotini con Li Xianting il curatore della storica mostra China/Avant-Garde del 1989.

 

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