Manifesta e le altre. (Un)pinning the butterfly

CONCEILED VISIBILITY. Unstable institutions

Nel 2003, Carlos Basualdo definiva le Biennali come «istituzioni instabili» [i]. In quanto tali, scriveva, le biennali non codificano un canone se non quello di rispecchiare il fenomeno della globalizzazione e della tensione tra la centralizzazione e la diffusione dell’informazione nell’era delle nuove tecnologie. In quest’ottica fu facile immaginare come la funzione delle biennali potesse fare da continuazione a quella del museo. Tuttavia, in quanto instabili, frutto dei cambiamenti economici e sociali come il turismo globale, l’aumento del numero di musei nel mondo e dei suoi pubblici, le biennali si differenziano profondamente dai musei, in quanto, spiegava Basualdo, l’acquisizione dei lavori da parte delle biennali è indipendente dall’attività del collezionare (collecting). Per cui, proprio in virtù di questa loro (presunta) indipendenza dalle istituzioni, non era difficile immaginare le biennali come promotrici dell’autonomia dell’arte che, grazie alla figura del curatore freelance (indipendente da istituzioni e gusto), solo in queste realtà riusciva a svincolarsi dai canoni modernisti e a ridefinire le pratiche artistiche in relazione ad un determinato contesto.

Basualdo, dunque, riconosceva nelle biennali un laboratorio per sperimentare, proprio in virtù del fatto che il loro scopo era quello di legarsi al territorio, al contesto culturale locale nel quale avevano luogo: ciò avrebbe favorito una maggiore democraticità dell’arte e della cultura (la cui forma, nell’era della globalizzazione, sembrava comunque posizionarsi più tra educazione e intrattenimento) piuttosto che la creazione di un’ennesima istituzione elitaria. Tuttavia, c’è un altro concetto che Basualdo fa proprio mentre analizza criticamente lo status delle biennali nello scenario culturale di un non ben definito sistema dell’arte: il concetto di invisibilità.

Le esposizioni a larga scala [large-scale exhibitions, n.d.t.] non è che diventino letteralmente invisibili, dal momento che sono proprio una messa in scena di enormi meccanismi di visibilità, ma piuttosto la singolarità del loro significato sembra nascondersi dalla miriade di giornalisti, critici, storici e esperti che, come si potrebbe immagina, diventano i loro spettatori privilegiati[ii].

Carmine Agosto, H documenta 14 (Fuck Off!), Atene, 2017.

Occorre qui precisare a quali “significati” Basualdo si riferisce. Ciò che sostiene il curatore è che «l’invisibilità delle mega-esposizioni è direttamente proporzionale alla posizione che queste occupano rispetto al circuito tradizionale della critica, del museo e delle gallerie» [iii]. Questo circuito viene qui accusato di non vedere altro che una funzione spettacolarizzante delle stesse, avvalendosi di criteri legati ancora alla modernità. Non si studia abbastanza, scriveva Basualdo, il potenziale eversivo di queste esposizioni a larga-scala rispetto sia al «de-centramento del canone e della modernità artistica» [iv] sia alla messa in discussione del concetto di internazionalismo che, seppur messo in mostra, viene interpretato in modi sempre diversi proprio in relazione alle realtà specifiche nelle quali le biennali vengono organizzate [v].

Insomma, in quegli anni, Basualdo sosteneva che se il contributo culturale delle biennali fosse stato maggiormente considerato, sarebbe stato possibile «articolare un’efficace riforma delle istituzioni della modernità» [vi]. Tuttavia, con il passare degli anni, le condizioni di produzione della Biennale Manifesta – la biennale per eccellenza in termini di valorizzazione del contesto e sperimentazione transnazionale – e quindi il suo impianto politico e ideologico, cambiarono radicalmente. A che punto è quindi il dibattito culturale sulle biennali e che cosa c’è veramente di invisibile?

Cecilia Meroni, La strada per casa (26/02-12/03/1991), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.

In primo luogo, il concetto di invisibilità di Basualdo può essere completamente modificato se visto sotto la luce degli studi di Vesna Madžoski, che non a caso definisce Manifesta “lo spettacolo della cancellazione” (The spectacle of erasure). Ad essere nascosto, qui, non è il potenziale sovversivo (operato dalla sfera culturale artistica), ma gli stessi genesi e materiali che l’hanno prodotta e che vanno a costituirne l’archivio storico. Partendo dallo studio nell’archivio di Manifesta in Olanda, anch’esso promosso come dispositivo aperto e consultabile, Madžoski nota due contraddizioni. La prima è stata, banalmente, l’impossibilità di consultare parte dei documenti nello stesso archivio; la seconda, l’individuazione, tra le foto storiche di Manifesta, di un soggetto (a volte una donna, altre un uomo) che nelle didascalie rimaneva sempre “non identificato” (unidentified), e che «si muoveva liberamente di città in città, di paese in paese, seguendo questa mostra itinerante come un’ombra» [vii]. «Ciò che la questione del “non-identificato” mette in luce – scrive – non è solo la “brevità” di memoria di coloro che hanno dato un nome a queste immagini relativamente recenti, ma anche il fallimento dell’archivio di assolvere alla funzione per la quale è stato creato. […] Ciò decostruisce l’intenzione di Manifesta di avere un pieno controllo della sua immagine storica» [viii].

La seconda questione riguarda il reale rapporto tra Manifesta e il territorio sempre diverso nel quale ogni due anni è organizzata. A tal proposito, Basualdo scriveva:

Il rapporto con il contesto locale […] diventa un’opportunità per esercitare una forma di revisionismo storico (sulle narrative storiche della modernità. N.d.r) […]. La presunta natura strumentale delle biennali può quindi servire, paradossalmente, a tentare una serie di operazioni il cui scopo è in gran parte radicale se considerato all’interno del contesto istituzionale tradizionalmente legato all’arte (occidentale) moderna e contemporanea [ix].

Federico Catagnoli, Hasta la Victoria Siempre, china su carta, 2018.

Tuttavia, scrive Marco Scotini, più che alle istituzioni di un determinato territorio o regione che Manifesta garantisce di “rilanciare”, la Biennale sembra dare sempre più voce a professionisti locali, «più scaltri e “affamati”» [x]. Il rapporto che quindi Manifesta sembra assumere nelle sue versioni più recenti con le regioni ospitanti, è quello di «un’azienda con le proprie reti di distribuzione» [xi], in quanto – se agli inizi Manifesta godeva delle finanze della fondazione olandese European Art Manifestation più di altri fondi governativi ed europei – successivamente (in virtù del rifiuto di qualsiasi nazionalismo) si appoggiò ai finanziamenti e investimenti delle singole città che ospitano l’evento.

In cosa consiste quindi questo “rapporto con il contesto” così declamato da Manifesta? Se facciamo un’analisi delle sue condizioni di produzione, il rapporto sembra avere una natura più economica che culturale. Una relazione profonda e specifica con la socialità del territorio risulta impossibile dati i presupposti delle condizioni di governance, in cui le decisioni principali sono prese sempre da un board di advisor della Fondazione prima della realizzazione di un concept curatoriale. Inoltre i curatori locali sembrano spesso essere esclusi dalla nomina; le condotte sociali e le cornici burocratiche non possono venire problematizzate [xii]; il pubblico stesso è in qualche modo chiamato a “collaborare” alla realizzazione dell’evento senza un’adeguata retribuzione [xiii]. Più che il contesto, dunque, Manifesta sembrerebbe promuovere sé stessa.

Vediamo, quindi, come nel primo caso ad essere invisibile sia il contesto di produzione e genesi interni di Manifesta, mentre nel secondo caso il suo contesto contemporaneo (sociale, politico, culturale) nel quale va ad operare e a mostrarsi ogni due anni. Ad essere problematica in ciascuno dei due casi non è però l’invisibilità in sé, ma una mission che la nega costantemente. Quali sono quindi, oggi, le istituzioni instabili? Da una parte, è evidente come le biennali si siano piuttosto ritualizzate, proponendo uno schema ripetitivo a prescindere dal contesto nel quale operano. Dall’altra, Manifesta si è resa a sua volta “instabile”, ma non per il discorso culturale che Basualdo le riconosceva, quanto per il suo cambiamento di ruolo e di natura di biennale in grado di creare un discorso “pan-europeo” democraticizzante. Sono forse le arene delle istituzioni museali quelle che oggi conservano un potenziale di cambiamento di forma e funzione in relazione ai contesti nei quali si sono stabilite?

[Giulia Carletti]

 

THE WELL-OILED ART-EVENT MACHINE. Le biennali come strutture rituali

Le biennali sono grandi mostre collettive internazionali che ricorrono ogni due anni caratterizzate da una prosperità di opere, un ampio budget e l’ambizione di trovarsi nel fulcro del mondo dell’arte internazionale. Nascono in una chiave di esposizione universale e rimangono fino agli anni ‘40 un significativo luogo di guida, di visibilità di tutto ciò che è l’attualità o l’aggiornamento, si trasformano negli anni ’60 in grandi laboratori mentre dagli anni ’90 si ricerca un nuovo concetto espositivo che richiede diversità, pluralità ed eterogeneità. Si consolida così il concetto di biennale contemporanea: un collage di relazioni e una molteplicità di linguaggi artistici.

Oggi le nuove biennali diventano un luogo di riferimento e un modello mondiale. Il carattere su larga scala offre spazi frammentati, discorsivi di natura sperimentale e riflessiva sia in termini di forma che di contenuto. Negli ultimi vent’anni la biennale è diventata il modello espositivo di default in tutto il mondo, le sue capacità come strumento promozionale e la sua abilità nell’essere un marchio delle città l’hanno resa una forza da copiare piuttosto che da sovvertire.

Esistono nel mondo più di 160 biennali d’arte diffuse in oltre 50 paesi. Sempre più città sostengono il turismo culturale come mezzo sicuro per assicurarsi un posto nell’arena internazionale dell’economia e della cultura. Ogni biennale è unica, per la scala, gli oggetti esposti, il livello di visibilità. Tuttavia, hanno in comune l’ambizione di promuovere e rilanciare i luoghi che le ospitano e di contribuire alla designazione di una nuova geografia per l’arte internazionale, la sua curatela e la sua ricezione.

Il modello della biennale demarca uno spazio temporaneo di dialogo e promuove uno scambio mediato a livello artistico e culturale che ad intervalli regolari viene trasformato e reinventato. A differenza della stabilità dello spazio museale, le biennali hanno un aspetto e una struttura temporanea. Sono istituzioni non istituzionalizzate votate al cambiamento e al rinnovo.

Curatori, critici e artisti di tutto il mondo si riuniscono per partecipare a un evento espositivo globale che mira a mediare e riassumere una cornice più ampia per mostrarla al pubblico in una unità di tempo, luogo e narrazione. La biennale è uno strumento che serve alla diffusione del contemporaneo. È la visione del mondo come un agglomerato di culture, tempi e luoghi differenti, che vengono assemblati e compressi.

«They could be defined as Crystal Palace exhibition: buildings with transparent facades reflecting and organising, within their interiors, images, and representations of the outside world» [xiv]

È il mezzo attraverso il quale viene conosciuta la maggior parte dell’arte contemporanea. Sono manifestazioni delle ultime tendenze: producono e promuovono il concetto di pratica artistica contemporanea, raccontano al visitatore cosa sta succedendo attraverso un lavoro curatoriale che, si presuppone, possa offrire un nuovo modo di vedere le cose.

Le biennali emerse negli anni ’90 hanno contribuito a riposizionare e consolidare il ruolo curatoriale nel mercato globale, coinvolgendolo all’interno di una complessa rete di scambio culturale. Da Les Magiciens de la terre molti curatori hanno abbracciato il pluralismo culturale come nuovo standard di rappresentazione, tentando di creare una visione meno occidentalizzata del mondo dell’arte. Non c’è più la necessità di imporre un tema, una visione teorica che manipola e usa l’arte per illustrare una teoria ma è la pluralità culturale che viene posta in risalto.

Benedetta Incerti, Irreversible, materiali d’archivio, 2018.

Il modello espositivo della biennale è utilizzato come veicolo sia per convalidare che per contestare il sistema internazionale del mondo dell’arte che per mostrare pratiche artistiche che sono state sommerse.

Le biennali sono dispositivi grazie ai quali l’arte ha il compito di interpretare il mondo per i suoi visitatori. Allo stesso tempo, queste mega-exhibition dimostrano come possono coesistere attività creative diverse con modalità e interpretazioni che derivano da culture differenti, rappresentate però come una cooperazione organica globale. Hou Hanrou visualizza queste esposizioni come dei corpi organici costituiti da sovrapposizioni a più livelli di sistemi differenti che rappresentano diverse velocità, diverse spazialità nel mondo che insieme si intrecciano per creare un corpo organico completo [xv].

Nonostante la molteplicità di voci creative al loro interno e il dibattito sulla curatela che ha generato nuovi temi e metafore, l’ordine concettuale di base, la struttura espositiva, la missione, e il rapporto con il pubblico rimangono sostanzialmente immutati. Si mostrano come spazi ermetici che replicano i musei e le rigide geometrie del white cube.

Il modello biennale, come sostiene Elena Filipovic, è un’entità autonoma, senza tempo, isolata dall’ambiente fisico e costretta in specifici parametri [xvi].

Una struttura rituale sempre uguale a sé stessa, indipendentemente dalla sua posizione geografica e dal suo contesto, che prescrive modalità di comportamento ai visitatori e ai partecipanti attraverso l’utilizzo degli spazi, della curatela, del display, dell’organizzazione delle opere e del percorso artistico. Il visitatore è invitato a seguire un copione che gli viene dettato. L’obiettivo è quello di evitare qualsiasi posizione potenzialmente critica o che si allontani dalla narrativa costruita, mantenendo determinate relazioni di potere tra l’arte, il display e la sua ricezione pubblica e istituzionale.

[Veronica Franzoni]

Mauro Valsecchi, New York Film Critics Circle Awards: 2001 tragedia sulla Terra, polvere di pigmento su carta, 2018.

MEGA-EXHIBITIONS | BIENNIAL SCALE | MEGA-OBJECTS. La riproduzione dell’eccesso

«Le esposizioni globali glorificano il valore di scambio della merce. Creano un framework in cui il suo valore d’uso tende a passare in secondo piano. Aprono una fantasmagoria in cui una persona entra per essere distratta. L’industria dell’intrattenimento rende tutto più semplice elevando la persona al livello della merce». Walter Benjamin, The Arcades Project, 1999.

Dalla rivoluzione industriale a oggi, l’eterogeneità culturale è stata messa in mostra attraverso il modello dell’esposizione universale. Questo format, espanso ed esteso a dismisura, è stato riadattato in quelle che vengono chiamate Mega-exhibition. Biennali, triennali, Manifesta, Documenta, Capitali della cultura, festival, fiere, mostre blockbuster e mostre etnografiche: sono tutti ottimi esempi della proliferazione incontrollata di «forme espositive basate sul dominio dello spettacolo e della spettacolarizzazione dell’arte e della cultura attraverso un processo di diffusione e riproduzione dell’eccesso[xvii]».

La pressione di tale crescita – si pensi che dalla metà degli anni Novanta sono nate oltre cento biennali nel mondo –, unita alle richieste di coinvolgimento delle scene artistiche e culturali del luogo in cui queste manifestazioni hanno sede o vengono ospitate, causa agitazione negli equilibri locali e una eccessivamente accelerata tensione verso aspettative sempre più globali. Il desiderio di un “vero” riconoscimento per le realtà minori viene alimentato dalle stesse ambizioni alla base dell’evento e dalla consolidata fama attribuita alle Mega-exhibition.

Gli artisti in primis, consapevoli che i curatori avranno il dovere di far dialogare il sistema dell’arte contemporanea con le realtà locali, sperano di riuscire a emergere dai contesti periferici sottofinanziati di origine per entrare in un giro di produzione internazionale ricco di risorse. Mettono quindi in atto strategie per garantire loro una maggiore visibilità: solo la drammatica espansione delle dimensioni dei loro lavori può temporaneamente placare «l’ansia dell’anonimato e del fallimento[xviii]». Questo cambiamento di scala delle opere – definito da Okwui Enwezor Biennial Scale – produce installazioni talmente allargate nello spazio da risultare distorte, immagini e oggetti ingranditi e deformati, proiezioni dal tono cinematografico, pitture facilmente confondibili per murales: «la versione artistica degli organismi geneticamente modificati». In altre parole, «mega mostre hanno bisogno mega oggetti [xix]».

Isabella Boghetti, serie “Virus” (Virus 1: L’apartheid non è finita, Virus 2: Aviaria, Virus 3: Ex nihilo, Virus 4: Le lucciole, Virus 5: SARS, Virus 6: Le maschere di Facebook, Virus 7: corpo-tubo, Virus 8: Twitter), stampa su acetato 12x12cm, 2018.

Se è logico pensare che a grandezza corrisponda visibilità, è allora sul principio della ripetizione e dell’accumulo che prende forma questo attuale modello espositivo. L’eccesso, giustificato dai curatori e alimentato dagli artisti, finisce inevitabilmente con l’intrappolare nella sua estetica anche il pubblico.

Visti i criteri appena citati, le mostre internazionali su larga scala di certo non offrono «una comprensione più profonda dei movimenti artistici nel pubblico locale attraverso l’uso simbolico e lo scambio di idee o forme dell’arte internazionale», ma si preoccupano piuttosto di instillare in loro «un certo desiderio di globalità [xx]».

È necessario sottolineare come questa tipologia di evento, data la natura “universale”, diffusa e differenziata, non si rivolga allo spettatore comunemente considerato ideale, ovvero quello già abituato alle logiche espositive contemporanee, bensì a uno generico, appartenente a gruppo demografico, culturale, linguistico, politico e religioso totalmente sconosciuto. All’apparenza, sembra che biennali, mostre blockbuster o fiere, introducano nel circuito dell’arte contemporanea molte delle caratteristiche di quella cultura di massa da cui il sistema stesso vuole a tutti i costi mantenere le distanze, osservandola e analizzandola a distanza.

Il rischio esiste, ed è quello di veder sfociare nel mero intrattenimento ciò che viene proposto come operazione artistica e curatoriale d’avanguardia, trasformando anche le città ospitanti in mete turistiche per condivisioni social dal taglio intellettuale.

Ma è anche vero che queste comunità transitorie di osservatori, i cui membri sono privi di un’identità comune di fondo, sono però fonte di un enorme potenziale di modernizzazione spesso trascurata o ignorata. Al contrario delle comunità tradizionali, infatti, concentrate su un linguaggio comune e incomprensibile a chi non condivide con queste la stessa memoria, le masse arbitrarie rivolgono invece il loro sguardo in avanti, verso il contesto, esattamente come si propongono di fare molte delle pratiche curatoriali sperimentali oggi, di cui Manifesta è il principale esempio.

Di conseguenza, il modello espositivo contemporaneo, è già «politico e sociale su un piano puramente formale, in quanto si riflette sullo spazio dell’assemblaggio, sulla formazione di una comunità, e lo fa indipendentemente dal fatto che l’artista abbia in mente un messaggio politico o meno [xxi]».

A mio avviso, le capacità di ricezione e attenzione di un pubblico più vasto sono un’ottima base per la creazione di un nuovo modello espositivo con ambizioni universali. Ora il compito di artisti, curatori e operatori culturali è quello di ridurre, riformulare, asciugare l’eccesso per allontanarsi dalla troppo appetibile spettacolarizzazione. Perché «è inutile alimentare in senso critico e innovativo il sistema di produzione senza procedere parallelamente alla sua trasformazione. […] L’esteriorità non è più data. Va costruita [xxii]».

[Lisa Barbieri]

 

Cecilia Meroni, Il solo limite è l’aria (9/11/1989), penna nera su carta, 29,7×21 cm, 2018.

(NOT A) MONOLOGUE. Intorno al concetto di locality

«Che cos’è l’Europa e chi è europeo? Esiste una “nuova Europa” o c’è ancora una “vecchia Europa”? Linfluenza culturale europea nel mondo è diminuita o no? L’identità europea è singolare e unica o è plurale e multiculturale?» [xxiii]

Secondo Samuel Huntington la mancanza d’identità culturale all’interno del continente è dovuta alla presenza di immigrati, “lavoratori ospiti”, che turbano l’integrità culturale della comunità europea. In Europa, come nel resto del mondo, ci sono popolazioni e culture diverse che attraverso l’arte riescono a convivere e a dialogare abbattendo distanze ancora oggi presenti. Secondo Hou Hanru le Biennali hanno ambizioni culturali e geopolitiche con il duplice problema di rappresentare il contesto locale e le istanze globali, di intensificarne la negoziazione, politicamente trascendente rispetto alle relazioni di potere con l’Istituzione. Storicamente alcune hanno avuto origine in contesti culturali che avevano subito profonde trasformazioni politiche: dalla prima Documenta del ‘55 nella Germania post-bellica della ricostruzione, a Gwangju nel processo di democratizzazione della Corea del Sud, la Biennale di Johannesburg dopo la fine dell’apartheid fino a Manifesta che nasce come la Biennale europea dopo la caduta del muro di Berlino. Cosa è rimasto oggi di questo significato politico?

Kim Yoogin, United, collage con stampa, scotch e pennarello su carta, 27×19,8 cm, 2018.

Manifesta, biennale itinerante e nomade [xxiv], si costituisce nei primi anni ’90 in risposta al cambiamento politico, economico e culturale avviatosi alla fine della Guerra Fredda, come piattaforma “pan-europea” per l’arte contemporanea [xxv]. Nasce come progetto site-specific in cui la comunità culturale e artistica produce nuove esperienze creative con il contesto in cui si svolge, costruendo una rete che intreccia vari fili di produzione istituzionale e artistica all’interno del territorio europeo.

“Non si localizza in un contesto specifico ma si inserisce nei circuiti e nelle reti economiche e sociali: è piuttosto un’impresa priva di fabbriche localizzate e permanenti, concepita per progetti specifici ad hoc e che funziona solo all’interno della durata di brevi cicli produttivi. È dunque una «struttura organizzativa flessibile» che fa leva su una piccola unità amministrativa, permanente e centralizzata che produce a mezzo di esternalizzazione (outsourcing)” [xxvi].

La flessibilità di Manifesta è dovuta alla scelta di un tema o concetto pan-europeo che viene proposto da un team di curatori esterni, in collaborazione con le diverse istituzioni culturali e accademiche nella città ospitante. Un ruolo difficile spetta al curatore che svolge il compito di “far uscire il locale o, per dirla in un’altra maniera, di metter in contatto nel modo migliore possibile la scena artistica locale con il sistema internazionale” [xxvii]. Ogni nuova edizione “mira a stabilire un dialogo tra una specifica situazione culturale/artistica e il più ampio contesto dell’arte contemporanea” [xxviii].

Eventi come Manifesta cercano di essere significativi a livello nazionale e internazionale, mettendo in evidenza caratteristiche particolari e apparentemente incomparabili del luogo che le ospita, ciò che potremmo chiamare “locality” [xxix]. Il concetto “locality”, secondo il curatore Hou Hanru, era culturalmente legato alla tradizione locale ma aperto agli scambi internazionali e ad artisti provenienti da ogni parte dell’Europa.

Kim Yoogin, The future of Europe depends to them?, collage con stampa, scotch e pennarellosu carta, 27x 19,8 cm, 2018.

“La sfida che dobbiamo affrontare è come immaginare e realizzare una biennale culturalmente e artisticamente significativa in termini di incorporazione e intensificazione della negoziazione tra globale e locale, trascendendo politicamente il rapporto di potere stabilito tra diversi luoghi e andando al di là del regionalismo conformista” [xxx].

In un mondo globalizzato, oggi, è impossibile parlare di “locality” (“Luogo”) senza metterla in relazione con “globality” (“Altro”): relazioni sociali e politiche, economie, visioni, valori, linguaggi collettivi e individuali sono influenzati e trasformati.

Uno dei principali risultati della globalizzazione nell’arte contemporanea è la contaminazione tra gli artisti, attraverso le biennali, e il superamento delle barriere tra gli stati nazionali [xxxi].

Tramite le migrazioni si creano opportunità economiche e culturali che influenzano le località di tutto il mondo; “la partenza e l’arrivo di gruppi nei diversi luoghi condizionano le ideologie e le produzioni trasformando ogni città, regione e stato-nazione [xxxii]”.

Culturalmente e artisticamente confrontarsi con altri ambienti presenta un’apertura a nuove creazioni contagiate dal contesto, modificando la relazione tra soggettività e società. Il “sé” si fonde con “l’Altro” e il produrre arte si allontana sempre più dall’individualismo avvicinandosi allo scambio e alla collaborazione. Hanru afferma: “Lavorando collettivamente, diversi talenti individuali si accumulano e si combinano per generare nuovi linguaggi, concetti e, in particolare, nuove categorie culturali che suggeriscono una rivoluzione dell’ordine sociale, sia a livello globale (globally) che a livello locale (locally)” [xxxiii].

L’arte contemporanea oggi, creata da e per diverse località ma influenzata dalla globalità, può essere uno strumento per abbattere le egemonie e le ideologie dei capitalisti globali.

L’obiettivo di Manifesta è quello di superare il limite istituzionale ed entrare nella città/comunità composta da culture differenti andando oltre l’idea di cultura e passato puramente europeo. Allargare gli orizzonti rispettando le diverse culture “lasciando la propria isola per fondersi nell’oceano transfrontaliero nella ristrutturazione globale” [xxxiv]. Dove l’“Altro” e il “Sè” coesistono nel “glocal” contaminandosi tra loro.

[Antonia Algieri]

Timeline, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018, ph. Daniele Marzorati.

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018.

Gli interventi e le voci del glossario di Giulia Carletti, Veronica Franzoni, Lisa Barbieri e Antonia Algieri sono tratti dal seminario (Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta che si è svolto il 18 luglio presso Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.

Talk, (Un)pinning the butterfly, seminario, Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, 2018.

L’immagine di copertina è di Carmine Agosto, Cleaning USA, flag, 2017.

note:

[i] Cfr. Carlos Basualdo, “The Unstable Institution” in Manifesta Journal: No. 2 Biennals, 2003-2004.

[ii] Basualdo, ibidem, p. 138.

[iii] Ibidem, p. 147.

[iv] Ibidem, p. 148.

[v] La Biennale dell’Avana, per esempio, nata nel 1894, aveva come esplicito mandato politico quello di decentrare il monopolio economico della distribuzione dell’arte contemporanea verso l’emisfero meridionale.

[vi] Ibidem, p. 149.

[vii] Vesna Madžoski, De Cvratoribvs: The Dialectics of Care and Confinement. Atropos Press, 2013, p. 87.

[viii] Ibidem, p. 88.

[ix] Basualdo, ibidem, p. 146-147.

[x] Marco Scotini, “Il brand Manifesta. La versione cinica dell’exhibition making”, da Artecrazia: Macchine Espositive E Governo Dei Pubblici, 2016, p. 19.

[xi] Ibidem, p. 17.

[xii] vedi il caso della cancellazione di Manifesta 6 a Nicosia.

[xiii] Scotini, ibidem, p. 21.Fine modulo

[xiv] Peter Sloterdijk, Im Werlinnenraum des Kapitals. Fur eine philosophische Theorie der Globalisierung, 2005.

[xv] Paul O’Neill, The Culture of Curating and the Curating of Culture(s), 2012.

[xvi] Elena Filipovic, “The Global White Cube”, in Manifesta Decade: Debates on Contemporary Art Exhibitions And Biennials in Post-wall Europe, a cura di Elena Filipovic  e Barbara Vanderlinden, MIT Press, 2005.

[xvii] Okwui Enwenzor, Mega-Exhibitions and the Antimonies of a Transnational Global Form, Manifesta Journal no. 2, Winter 2003/Spring 2004

[xviii] ibidem

[xix] ibidem

[xx] ibidem

[xxi] Boris Groys, Art Power, Postmedia Books, Milano, 2012

[xxii] Marco Scotini, Artecrazia, ibidem.

[xxiii] cfr. “Tebbit’s Ghost” di Okwui Enwezor in The Manifesta, ibidem, p. 176.

[xxiv] “L’idea di una biennale nomade si mostrava la più idonea all’assorbimento di piattaforme socio-economiche ogni volta differenti, facendo perno (anche dal punto di vista degli elementi retorici autolegittimanti) sulla «rete» come principio chiave di organizzazione della morfologia d’impresa che, a partire dalla caduta del muro di Berlino, andava imponendosi”, in Marco Scotini, Artecrazia, ibidem, p. 16.

[xxv] Okwui Enwezor, op.cit., p. 183.

[xxvi] Marco Scotini, op.cit., p. 14.

[xxvii] Marco Scotini, ivi, p. 18.

[xxviii]Okwui Enwezor, op.cit., p. 184.

[xxix] Hou Hanru, “Towards a new locality:Biennials and “Global Art” ” in The Manifesta Decade, ibidem, p. 57

[xxx] Ivi, p. 58.

[xxxi] Ivi, p. 60.

[xxxii] Ivi, p. 61.

[xxxiii] Ivi, p. 61.

[xxxiv] Ivi, p. 58.

 

 

 

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