So as to find the strenght to see. Intervista a Lisa Parola

di Eleonora Roaro

 

«Da qualche anno a questa parte penso al modo in cui leggiamo la nostra storia e in particolare in molte delle mie opere incentrate sulle narrazioni escluse o distorte nell’ambito di contesti storici. Ora più che mai è facile sentirsi paralizzati davanti all’enorme potere che le narrazioni politiche romanzate esercitano sulla deformazione delle percezioni. A me preoccupa l’esclusione delle minoranze politiche ed etniche e delle strutture socio-culturali che si oppongono al potere. Confesso di nutrire spesso dei dubbi sulla forza delle narrazioni indipendenti in arte e sulla resistenza all’interno dell’arte. Passo un bel po’ del mio tempo a pensare come si potrebbe fare meglio e persino se non si dovrebbe semplicemente lasciar perdere certi argomenti. […]

Se l’arte non resiste all’attacco violento della cancellazione e dell’offuscamento, se non dedica attenzione alle “fantasie” che ci circondano in materia di violenza, genere, repressione ed espropriazione, chi altro lo farà?» Fatma Bucak [i]

 

«Molto spesso l’idea del radicalismo è intesa come la necessità di qualcosa di molto lontano da quello che ti sta accadendo intorno in questo momento. Quel che capisco di ciò che costituisce il radicalismo, o il femminismo radicale nel caso della questione curda, è che le donne ora sono riconosciute come ugualmente capaci di amministrare la vita insieme agli uomini; che hanno un’organizzazione autonoma, persino un esercito; che sono insegnanti nelle scuole; che partecipano attivamente all’economia; che il patriarcato non è più visto come la norma; che la liberazione delle donne è diventata lo scopo prezioso di una rivoluzione che cerca di cambiare la mentalità della società» Dilar Dirik, attivista del Movimento delle Donne Curde (Yekîtiya Star)[ii]

Fatma Bucak, Fall, dalla serie “Four Ages of Woman”, 2013, video HD, colore, suono, HD digital video, colour, sound 3’ 26”

 

Eleonora Roaro: Dopo una prima esposizione presso la Fondazione Merz, lo scorso 17 ottobre ha inaugurato alla Galleria Civica di Palermo in collaborazione con il Festival delle Letterature Migranti, la mostra personale So As To Find The Strength To See di Fatma Bucak (Iskenderun, 1984) curata da te, insieme a Maria Centonze e Agata Polizzi. Il titolo è un invito a osservare i fatti geopolitici attuali per quello che sono, nella loro durezza e urgenza: «Sono nata a Iskenderun; una cittadina nel sud della Turchia, molto vicina al confine con la Siria ma sono cresciuta a Istanbul. Sono curda. L’appartenenza a questa minoranza del mio Paese probabilmente mi ha permesso di avere una sensibilità acuta, soprattutto verso alcune tematiche relative all’identità: repressione, espropriazione, migrazione e violenza che hanno trasformato considerevolmente l’esistenza umana» scrive l’artista. In che modo hai iniziato a lavorare con Fatma?

Lisa Parola: La Fondazione CRT per l’arte aveva una residenza per artisti per la quale io nel 2014/2015 curavo la parte di coordinamento. In quell’occasione Fatma Bucak produsse un lavoro che fu esposto successivamente al Castello di Rivoli. In quel periodo era al Cairo per una residenza importante in un momento in cui la primavera araba non aveva più le spinte dell’anno precedente: si iniziavano a capire le difficoltà della trasformazione in atto. Mi chiamò più volte su Skype dicendo che non aveva paura tanto di ciò che vedeva ma di ciò che sentiva, che trovai essere una definizione potente. Lei non poteva muoversi poiché era controllata dalla polizia e chiese, tramite alcune associazioni, di essere messa in contatto con delle persone e di poterle incontrarle in un ambiente protetto. Domandò loro di portare un oggetto che ricordasse momenti di violenza subita, come uova rotte, cemento buttato per terra, polvere, carta strappata, ed erano invitati a performarlo. Questo lavoro, che è stato molto lungo, ha prodotto formalmente una serie fotografica e un’installazione sonora.

Fatma Bucak, Damascus rose, 2016, Rose di Damasco raccolte a Damasco e innestate in piante di rosa, dimensioni variabili. Photo Renato Ghiazza, Fondazione Mario Merz, Torino.

 

ER: Come è nato il primo episodio espositivo di So as to find the strenght to see pensato per gli spazi della Fondazione Merz?

LP: È un lavoro iniziato nell’estate del 2016 quando Fatma, sapendo che io avevo già dei rapporti con la Fondazione Sardi (anche se non ero ancora una loro curatrice), mi chiese se potessi aiutarla nel finanziamento di un’opera fotografica. Per noi fu il primo lavoro di produzione di un’artista mid-career. È un’opera importante, 84 immagini ottenute secondo un processo temporale che ha previsto la raccolta e la catalogazione quotidiana dei principali giornali turchi, in 84 giorni a partire dal 7 febbraio 2016: data conosciuta come “il massacro delle cantine” a Cizre, una città della Turchia sudorientale, al confine con la Siria, dove vennero trucidate diverse persone. Alcune donne lavano le pagine di giornale, raccolte dall’artista, nei catini fino a che non resta più inchiostro. Questo suo raccogliere, accumulare i giornali non è semplicemente la documentazione dell’atto in sé. Significa interrogare il pubblico in riferimento al ruolo che i media hanno rispetto ad alcune vicende politiche. Non lo fa semplicemente da curda, ma in senso più ampio, legandosi ad un concetto complesso di democrazia.

ER: Qual è la relazione dell’artista con i media mainstream e le narrative che veicolano?

LP: Fatma si interroga moltissimo non tanto sui mezzi di comunicazione in sé, ma su ciò che ci arriva attraverso i media. Non è una denuncia tout-court, ma lavora sui meccanismi che permettono alla definizione di democrazia di non essere lineare. Per esempio, quando ci racconta di alcuni eventi geopolitici ci dice sempre che ci mancano dei passaggi. Nel caso della sequenza di numeri del lavoro 342 Names (2017-2018), che documenta l’atto di incidere per centinaia di volte le identità delle vittime della sparizione forzata in Turchia dopo il colpo di stato del 1980, ma non ci dice semplicemente che sono morte 342 persone – che già da sé è una cosa gravissima –, ma che mancano dei livelli di informazione sulla notizia in sé. Trattare la storia contemporanea significa avere poca prospettiva sui fatti, poiché si è molto dentro, e dunque il compito dell’artista è quello di reinterpretare i tasselli dei giornali, dei media.

Fatma Bucak, Scouring the Press, still da video, 2016. HD video, color, sound, 9’20”. Commissionato e prodotto da SAHA Association, Istanbul.

Fatma Bucak, Omne vivum ex ovo – Nomologically possible anyhow, 2013, still da video.

 

ER: Numerosi sono gli artisti che, nella loro pratica, indagano tematiche geopolitiche. Qual è la peculiarità della ricerca di Fatma?

LP: Fatma riesce a coniugare ai temi geopolitici e di genere a un aspetto formale potente. Negli ultimi decenni gli artisti hanno interrogato moltissimo la storia e i fatti politici, ma spesso realizzano mostre che sono una sommatoria di documenti. In questo modo viene a mancare il regime estetico. Fatta invece, oggi ancora di più che in passato quando lavorata per lo più con video e fotografia, ha queste caratteristiche: il suo lavoro diventa scultura, installazione, performance…

Fatma Bucak, And then God bleesed them, 2013, still da video, courtesy Galleria Alberto Peola, Torino.

 

ER: Fatma Bucak è un’artista curda che, se da una parte è sempre legata al proprio luogo di provenienza, non vuole esserne limitata. Afferma: “Non voglio essere connotata come un’artista solo curda: sono prima di tutto un’artista”. Indaga quindi un concetto più ampio di geografia e di democrazia…

LP: È un’idea di una geografia decostruita che parte dalla sua biografia, inscindibile da sé. Non corrisponde più solo alla geografia di nascita, ma anche a dove ci si sposta e ci si posiziona. Tutto l’ambito degli studi post-coloniali parla di questo. Negli ultimi anni Fatma si sta aprendo ad altre questioni, come nei lavori realizzati al confine nel deserto del Marocco, o al confine col Messico, o ancora gli scontri di Goteborg. Corrisponde a una necessità più ampia di indagare il concetto di violenza e di democrazia in tutte le sue contraddizioni.

note:

[i] Conversazione con Fatma Bucak, di Lisa Parola e Maria Centonze, in Fatma Bucak. So as to find the strenght to see, Fondazione Merz, Torino, catalogo della mostra, 2018, p.78.

[ii] http://www.hotpotatoes.it/2017/12/07/living-without-approval-intervista-a-dilar-dirik-di-jonas-staal/

 

Fatma Bucak, Padre III, Melancholia II series, 2010, courtesy Galleria Alberto Peola, Torino.

Fatma Bucak, Blessed are you who come – Conversation on the Turkish-Armenian border, 2012, Still image HD video, color, sound, 8 min. 42 sec.

Fatma Bucak, Remains of what has not been said, particolare, 2016, Fondazione Sardi per l’Arte, Torino.

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