Imparare dal virus: come scioperare il telelavoro

di Francesco Tola.

 

Womanhouse VS Playboy Mansion

Quando ho letto questo articolo pubblicato da El País il 28 marzo, in cui Paul B. Preciado punta le luci sulla crisi del Covid-19, ero (e sono ancora) in un momento di totale stasi. Bombardato incessantemente dai social network avevo dimenticato come si sciopera. Volevo farlo veramente ma lo sciopero oggi non è solo una pratica politica, è una dimensione dello spirito. Avessi veramente scioperato sarei riuscito ad andare oltre le app e avrei sfruttato a mio vantaggio la quotidiana pagina bianca della mia anima. Invece mi sono lasciato sfruttare dallo smartphone che mi ha intrattenuto in una griglia di stimoli senza sosta. Leggevo di lavoro e di smart-working e pensavo “ma non sto già lavorando anche mentre dormo?”

Citando il discorso di Foucault sulle celle monacali come archetipo delle architetture disciplinari, Preciado descrive il modo in cui gli statisti moderni hanno ricalcato il modello dell’autoreclusione religiosa per dettare la disposizione dei corpi nelle striature dello spazio entro i confini dello stato-nazione.

Stano Filko, Freedom, 1965 – 1968. Courtesy Marinko Sudac Collection.

Pensiamo alla storia dell’arte: dapprincipio le pitture parietali ebbero confinato la pulsione erotica delle immagini negli spazi chiusi e bui delle caverne, poi i templi, i santuari e le chiese, le prime istituzioni pubbliche, le Wunderkammer, i musei, le case dei mecenati, sono stati e sono i confini entro i quali le opere degli artisti vivono la loro secolare quarantena. Ogni scena ha un teatro, ogni dipinto una cornice, ogni fotografia ha una pellicola e ogni film uno schermo. Tutti i dispositivi di visione sono dispositivi di quarantena, in senso ottico. E se fossimo noi a essere incorniciat*? Siamo noi quell* sullo schermo? Le nostre case sono i teatri? I nostri corpi sono pellicole?

Deleuze, durante il ciclo di lezioni intitolato Le point de vue all’Università di Vincennes, riprese le teorie della monadologia di Leibniz afferrando da preveggente la condizione di quell* che oggi sono conosciuti tra la generazione dei Millennial e la I-Generation come Hikikomori. Sfruttando i dispositivi audiovisuali e le tecnologie attuali, coloro che si isolano nella propria stanza godono di uno spazio imperituro di espletamento delle pulsioni vitali e quindi erotiche e desideranti. Membrana cellulare dello spazio-tempo telematico, la cameretta dell’hikikomori è stata concepita da Hugh Hefner per produrre il primo oggetto editoriale destinato alla brama degli occhi desideranti dell’individuo moderno e, come ci fa notare Preciado, è stato un prototipo dell’istituzione farmacopornografica, in quest’era di soft power in cui “più consumiamo, più siamo in salute, più siamo controllat*.”

Preciado indica quindi la Playboy Mansion di Hugh Hefner come archetipo del nostro appartamento contemporaneo plasmato secondo gli usi e i costumi dettati dal capitalismo postmoderno, coloniale e patriarcale. Si rivela da questo punto di vista del tutto antitetica la Womanhouse. Nel 1972 Judy Chicago e Miriam Schapiro inaugurano a Fresno «(…) la prima esposizione di arte femminista che si sarebbe svolta in una casa abbandonata: uno spazio domestico che stava per essere demolito, trasformato prima in un’opera d’arte collaborativa e ambientale e poi in una galleria effimera, transitoria. In Womanhouse, è lo spazio domestico stesso, storicamente naturalizzato come “femminile”, che si trasforma in oggetto di critica e sperimentazione artistica. La casa eterosessuale, un sito privatizzato e disciplinare, è politicizzata e denaturalizzata attraverso il linguaggio, la pittura, l’installazione e le performance.» Da Los Angeles a Fresno, tra la Playboy Mansion e la Womanhouse, una contrazione dello spazio-tempo. Il castello neoarcaico di Hefner dista dalla Womanhouse poco più di duecento miglia, pari a tre ore in auto.

Lucia Marcucci 1972, Il virus, collage su carta. Courtesy Galleria Frittelli.

Quello di Hefner è un sistema tecno-disciplinare del desiderio. Le donne della Womanhouse ne hanno fatto un détournement. Hanno condiviso pratiche ed elaborato discorsi sulle rovine della “casetta in Canadà” trasformandola in un parco tematico degli orrori. Se la Playboy Mansion è il fortino patriarcale preso a modello per le tecniche di telelavoro contemporanee, la Womanhouse è il negativo antipatriarcale e anticapitalista. La Womanhouse è la nostra casa quando scioperiamo il telelavoro, quando condividiamo architetture e desideri nella sfera economica del dono. Una womanhouse oltre che essere aperta, è uno spazio di sperimentazione collettivo, più uno snodo che una cella.

La differenza tra le architetture disciplinari ancora impiegate per il contenimento dell’epidemia in Occidente e le tecniche farmacoporgnografiche adottate in paesi come la Corea del Sud o il Giappone sta solo nei mezzi. Preciado distingue la sostanza materiale delle architetture disciplinari dalla sostanza algoritmica delle tecniche farmacopornografiche. Privato della connotazione spaziale architettonica, il desiderio si contrae nel nervo ottico degli utenti. Come pulsione vitale è la nostra moneta di scambio e, in un sistema economico postfordista, la trappola è un bozzolo di onanismo telematico. I pixel sono i mattoni che edificano le architetture delle cyber strutture del controllo.

Preciado ci ricorda che, così come i corpi possono eludere gli spazi istituzionali secolarizzati, gli/le utenti possono collettivizzare il blackout. Possiamo decidere qui e ora di disconnetterci, chiudere gli occhi e cospirare con le mascherine.

Renate Eisenegger, Isolamento (Isolation), serie di otto fotografie, 1972. Courtesy The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

 

 

IMPARARE DAL VIRUS

di Paul B. Preciado

Se Michel Foucault fosse sopravvissuto all’aids nel 1984 e avesse vissuto fino all’invenzione di una terapia antiretrovirale efficace, oggi avrebbe novantatré anni. Avrebbe accettato di confinarsi nel suo appartamento in rue de Vaugirard? Il primo filosofo della storia a morire di complicazioni dovute al virus dell’immunodeficienza acquisita ci ha lasciato alcuni dei più efficaci strumenti per valutare la gestione politica dell’epidemia – strumenti che, in questa atmosfera di disinformazione rampante e contagiosa, sono un equipaggiamento cognitivo di protezione.

La cosa più importante che abbiamo imparato da Foucault è che il corpo vivente (e dunque mortale) è l’oggetto centrale di tutte le politiche. Non esistono politiche che non siano politiche del corpo. Ma per Foucault, il corpo non è un organismo biologico già dato sul quale poi agisce il potere. Il vero compito dell’azione politica è quello di fabbricare il corpo, di metterlo a lavoro, di definire le sue modalità di produzione e riproduzione, di smascherare i modelli del discorso attraverso cui il corpo finge sé stesso nella sua capacità di dire “io.” L’intera opera di Foucault può essere intesa come un’analisi storica delle diverse tecniche con cui il potere amministra la vita e la morte dei popoli. Tra il 1975 e il 1976, gli anni in cui vennero pubblicati Sorvegliare e punire e il primo volume di Storia della sessualità, Foucault usa la nozione di “biopolitica” per parlare della relazione che il potere stabilisce con il corpo sociale nella modernità. Egli descrive la transizione da quella che chiama società autoritaria, nella quale l’autorità è descritta dal potere di ritualizzare la morte, a una “società disciplinare”, che sovrintende e dispone della vita dei popoli in funzione dell’interesse nazionale. Per Foucault, le tecniche di governo biopolitico si diffondono come una rete di poteri che oltrepassano la sfera giuridica e diventano forze orizzontali, tentacolari, attraversando l’intero territorio dell’esperienza vissuta e penetrando ogni corpo individuale.

Stano Filko, Pink Tank, Remembering HAPPSOC, 1968. Courtesy Marinko Sudac Collection.

Durante e in seguito alla crisi dell’aids, diversi autori hanno ampliato e radicalizzato le ipotesi di Foucault esplorando la relazione tra immunità e biopolitica. Il filosofo italiano Roberto Esposito ha analizzato i legami tra la nozione politica di comunità e quella biomedica ed epidemiologica di immunità. I due termini hanno una radice comune, il latino munus, l’obbligo (tassa, tributo, dote) che si deve pagare per far parte della comunità. La comunità è cum (più) munus: un gruppo umano vincolato da una legge comune e da un obbligo reciproco. Il sostantivo immunitas è un termine privativo che deriva dalla negazione di munus. Nel diritto romano, l’immunità era un privilegio che esonerava dagli obblighi condivisi da tutti. Chi ne fosse esonerato era immune. Colui che fosse stato de-monizzato, al contrario, sarebbe stato spogliato di tutti i privilegi della comunità.

Roberto Esposito sottolinea che tutte le biopolitiche sono immunologiche: presuppongono una certa definizione di comunità e lo stabilirsi di una gerarchia tra quei corpi che sono esenti da tributi (quelli considerati immuni) e quelli che la comunità percepisce come potenzialmente pericolosi (de-monizzati) e che saranno esclusi in un atto di protezione immunologica. Ecco il paradosso della biopolitica: tutti gli atti di protezione includono una definizione immunitaria di comunità per cui essa garantisce a sé stessa il potere di decidere di sacrificare altre vite per mantenere una sovranità esclusiva.

Lo stato di eccezione è la normalizzazione di questo paradosso intollerabile.

Rozemin Keshvani, The Locked Room, 2020. Courtesy MIT Press. L’immagine è tratta da un esperimento della classe di scultura alla Saint Martin’School of Art di Londra nel 1969.

A partire dal diciannovesimo secolo, con la scoperta del primo vaccino contro il vaiolo e gli esperimenti microbiologici di Louis Pasteur e Robert Koch, la nozione di immunità migra dall’ambito del diritto e acquisisce un significato medico. Le democrazie europee liberarli e patriarcal-coloniali del XIX secolo fabbricano l’ideale di individuo moderno non solo in quanto agente (maschio, bianco, eterosessuale) economico libero, ma anche in quanto corpo immune, radicalmente separato, che non deve niente alla comunità. Secondo Esposito, il ruolo che la Germania nazista attribuì a certe parti della popolazione (ebrei, rom, omosessuali, disabili) di corpi che minacciavano la sovranità della comunità ariana è un esempio paradigmatico dei pericoli della gestione immunitaria. La considerazione in termini immunologici della società non è terminata col nazismo, al contrario, è permasta in Europa legittimando le politiche neoliberali di amministrazione delle minoranze razzializzate e dei popoli migranti. È questo intendere immunologico che ha forgiato la comunità economica europea, il mito di Shengen e le tecniche del Frontex negli ultimi anni.

Nel suo libro del 1994 Flexible Bodies, l’antropologa della Princeton University Emily Martin analizzò la relazione tra immunità e politica nella cultura nordamericana durante la crisi della polio e l’aids. Martin giunse ad alcune conclusioni che risultano pertinenti per analizzare la crisi attuale. L’immunità del corpo, sostiene Martin, non è un mero fatto biologico indipendente da variabili culturali e politiche. Al contrario, ciò che intendiamo per immunità si costruisce collettivamente su criteri sociali e politici che producono o sovranità o esclusione, protezione o stigmatizzazione, vita o morte.

Renate Eisenegger, Isolamento (Isolation), serie di otto fotografie, 1972. Courtesy The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

Analizzare la storia delle epidemie mondiali degli ultimi cinque secoli dal prisma che ci offrono Michel Foucault, Roberto Esposito e Emily Martin porta a elaborare un’ipotesi che prende la forma di un’equazione: dimmi come la tua comunità costruisce sovranità politica e ti dirò che piega prenderanno le tue piaghe.

Nel dominio del corpo individuale, le diverse epidemie materializzano le ossessioni che dominano la gestione politica della vita e della morte delle popolazioni in un dato periodo. Con le parole di Foucault, un’epidemia radicalizza e muta le tecniche di biopolitica che si applicano al territorio nazionale fino al livello dell’anatomia politica, inscrivendole nel corpo individuale. Allo stesso momento, un’epidemia permette di estendere all’intera popolazione le misure di “immunizzazione” politica che fino ad allora erano state violentemente applicate solo su quelli che erano considerati “stranieri” sia al di qua che al di là dei confini del territorio nazionale.

Bàlint Szombathy (BOSCH+BOSCH), Untitled, 1979. Courtesy Marinko Sudac Collection.

La gestione politica delle epidemie rivela l’utopia di comunità e le fantasie immunitarie di una società, mostra i sogni di onnipotenza (e impotenza) della sua classe politica. L’ipotesi di Foucault, Esposito e Martin non ha niente a che vedere con le teorie del complotto. Non si tratta dell’idea ridicola che il virus sia creato in laboratorio o che sia un piano machiavellico per estendere politiche ancor più autoritarie. Contrariamente il virus agisce a nostra immagine e somiglianza, non fa altro che replicare, materializzare, intensificare ed estendere a tutta la popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica che già operavano sul territorio nazionale e i suoi confini. Così che ciascuna società possa definirsi per l’epidemia da cui è minacciata e per il modo di far fronte a essa.

Prendiamo a esempio la sifilide. L’epidemia arrivò per la prima volta a Napoli nel 1494. L’impresa coloniale europea era appena cominciata. In un certo senso il morbo annunciò l’avvento della colonizzazione distruttiva e delle politiche razziali. Gli inglesi chiamarono l’epidemia “la francese” mentre per i francesi era “la napoletana”, e i napoletani la attribuirono all’America; si pensava fosse stata portata dai colonizzatori infettati dagli “indiani”. In effetti era il contrario. Lo scambio di patogeni fu enormemente asimmetrico: i germi europei devastarono il Nuovo Mondo. Il virus, come disse Derrida, è sempre lo straniero, l’altro, quello dell’altrove. Tra il XVI e il XIX secolo, la sifilide, un’infezione sessualmente trasmissibile, materializzò nei corpi le forme di repressione ed esclusione che dominarono la modernità patriarcal-coloniale: l’ossessione per la razza pura, il divieto dei cosiddetti “matrimoni misti” tra persone di classi e “razze” diverse e le molteplici restrizioni che gravavano sulle relazioni sessuali ed extramatrimoniali.

Group of Six Authors, Exhibition-action on the Republic Square, Zagreb, 25 ottobre 1975. Courtesy Marinko Sudac Collection.

 

Al centro del dibattito durante e dopo questa crisi ci saranno le vite che saremo disposti a salvare e quelle che saranno sacrificate.

Al nesso di questi modelli di comunità e immunità, il corpo sovrano fabbricato dalla sifilide fu il corpo bianco, borghese, confinato sessualmente nella vita coniugale e destinato alla riproduzione del corpo nazionale. Così la prostituta diventò il corpo vivo in cui si condensarono tutti i significanti politici abietti durante l’epidemia: donna lavoratrice e spesso razzializzata, corpo esterno alle regole della casa e del matrimonio, che faceva della sessualità il suo mezzo di produzione, la sex worker fu resa visibile, controllata e stigmatizzata come il principale vettore di propagazione del virus. Ma non fu la repressione della prostituzione né la reclusione delle prostitute nei bordelli nazionali (come immaginò Restif de la Bretonne) ciò che curò il virus. Al contrario invece, la reclusione delle prostitute non fece altro che renderle più vulnerabili al morbo. Ciò che permise la quasi totale eradicazione della sifilide fu la scoperta della penicillina nel 1928, in un momento di profonda trasformazione delle politiche sessuali in Europa con il sorgere dei primi movimenti di decolonizzazione, il suffragio delle donne bianche, la prima ondata di decriminalizzazione dell’omosessualità e una relativa liberalizzazione dell’etica matrimoniale eterosessuale.

Mezzo secolo dopo, l’aids è stato per la società neoliberale eteronormativa del novecento ciò che la sifilide è stata per la società industriale e coloniale del quattrocento. I primi report ufficiali sono apparsi nel 1981, precisamente nel momento in cui l’omosessualità smetteva di essere considerata una malattia psichiatrica, dopo che era stata oggetto di persecuzione e discriminazione per decenni. La prima fase dell’epidemia colpì in modo sproporzionato quelle categorie note come le 4 H: homosexuals, Haitians, hemophiliacs, heroin users. In seguito si aggiunse alla lista hookers (prostitute e prostituti). L’aids ricostituì e riattualizzò la rete di controllo sul corpo della sessualità tessuta dalla sifilide e che la penicillina e i movimenti di decolonizzazione, femminista e omosessuale, avevano disarticolato e trasformato negli anni sessanta e settanta. Come successe durante la soppressione della prostituzione durante la crisi della sifilide, la repressione dell’omosessualità non fece altro che incrementare il numero di morti. Il modello di comunità / immunità dell’aids è legato alla fantasia di dominio della sessualità maschile intesa come diritto non negoziabile di penetrazione, dove ogni corpo penetrato (omosessuale, donna e tutte le forme di analità) è percepito come corpo senza dominio (de-monizzato). Se l’aids si sta trasformando gradualmente in un disturbo cronico, lo si deve alla depatologizzazione dell’omosessualità, al potenziamento farmacologico del Sud del mondo, all’emancipazione sessuale femminile che ha permesso alle donne di rifiutare il sesso senza preservativo, all’accesso alle terapie antiretrovirali a prescindere da classe sociale o grado di razzializzazione.

Renate Eisenegger, Isolamento (Isolation), serie di otto fotografie, 1972. Courtesy The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

Ben prima della comparsa del Covid-19, un processo di mutazione globale era già in atto. Già prima del virus stavamo attraversando cambiamenti sociali e politici profondi quanto quelli che influenzarono le società che svilupparono la sifilide. Nel XV secolo, con l’invenzione della stampa e l’espansione del capitalismo coloniale, si passò da una società orale a una società scritta, da una forma di produzione feudale a una forma di produzione industriale schiavista e da una società teocratica a una società retta da accordi scientifici in cui le nozioni di sesso, razza e sessualità si sarebbero convertiti nei dispositivi di controllo necro-biopolitico della popolazione.

Oggi ci troviamo nel vivo di una transizione dalla società della scrittura a quella della cyber oralità, da una società organica a una società digitale, da un’economia industriale a un’economia immateriale, da una forma di controllo disciplinare e architettonico a forme di controllo tramite microprotesi e cibernetica dei media. In altri scritti ho usato il termine farmacopornografica, riferendomi a questo tipo di gestione e produzione del corpo, per descrivere la tecnologia politica che produce la soggettività sessuale in questa nuova configurazione di potere e sapere. Non sono più le sole istituzioni disciplinari (scuola, fabbrica, caserma, ospedale, ecc.) a regolarci ma un insieme di tecnologie biomolecolari, microprotesiche, digitali, di trasmissione e di informazione. Nel campo della sessualità, le alterazioni farmacologiche della consapevolezza e del comportamento, il consumo di massa di antidepressivi a ansiolitici e la diffusione della pillola contracettiva, così come delle terapie antiretrovirali, le terapie di prevenzione dell’aids o il viagra, sono alcuni dei fattori che indicano la gestione biotecnologica. L’estensione planetaria di Internet, la generalizzazione dell’uso delle tecnologie informatiche mobili, l’uso dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi nell’analisi dei big data, lo scambio d’informazioni a grande velocità e lo sviluppo di dispositivi globali di vigilanza informatica tramite satellite, sono indici di questa nuova gestione semio-tecnica digitale. Uso il termine pornografiche perché, in primo luogo, queste tecniche di biovigilanza si introducono nel corpo, attraversano la pelle e penetrano in noi; in secondo luogo, perché i dispositivi di biocontrollo non funzionano con la repressione della sessualità (masturbatoria o meno), ma attraverso l’incitazione al consumo e alla produzione costante di un piacere regolato e quantificabile. Più consumiamo, più siamo in salute, più siamo controllat*.

Haus-Rucker-Co, Oasis n.7, facciata del Fridericianum, documenta V, a cura di Harald Szeemann, Kassel, 1972.

La mutazione in corso potrebbe infine catalizzare la svolta da un regime patriarcal-coloniale ed estrattivista, da una società antropocentrica e da una politica dove una parte molto piccola della comunità umana mondiale autorizza sé stessa a esercitare una politica predatoria universale, a una società capace di redistribuire energia e sovranità. Da una società di energie fossili a una di energie rinnovabili. In questione c’è anche il passaggio da un modello binario di differenza sessuale a un paradigma più aperto in cui la morfologia degli organi genitali e la capacità riproduttiva di un corpo non definiscono la sua posizione sociale dal momento della nascita; e da un modello eteropatriarcale a forme non gerarchiche di riproduzione della vita. Al centro del dibattito prima e dopo la crisi ci sono le vite che saremo dispost* a salvare e quelle che saranno sacrificate. È nel contesto di questa mutazione, di questa trasformazione dei modi di intendere la comunità (una comunità che oggi è la totalità del pianeta) e l’immunità che il virus opera e si converte in strategia politica.

Coop Himmelblau, Restless sphere, Basel Event, 1971.

Immunità e politiche di confine

È almeno dalla caduta delle Torri Gemelle che le politiche di governo hanno iniziato a essere caratterizzate dalla ridefinizione degli stati-nazione in termini di neocolonialismo e identità e che il ritorno (dopo la fase di neoliberalismo Reagan-Tatcheriano che ha aperto alla libera circolazione e al libero mercato) all’idea di confine fisico come condizione per la restaurazione dell’identità nazionale e della sovranità politica. Israele, Stati Uniti, Russia, Turchia e la Comunità Economica Europea sono alla guida di una nuova concezione dei confini che, per la prima volta dalla caduta del Muro di Berlino pattugliato dai cecchini, sono sorvegliati e difesi con l’impiego di mezzi biopolitici incrementati da dispositivi di necropolitica, con tecniche di esclusione e morte.

Il Covid-19 ha legittimato ed esteso le pratiche statali di biovigilanza e controllo digitale normalizzandole e rendendole necessarie a mantenere una certa idea di immunità.

La società europea e quella nord americana hanno deciso di costituirsi in forma di comunità del tutto immunizzate, chiuse verso l’Est e verso il Sud, nonostante queste due aree siano le loro prime fornitrici di combustibili fossili e beni di consumo. La costruzione di questa immunità politica è l’esemplificazione della governamentalità neosovranista: l’Europa ha chiuso le frontiere in Grecia, Italia e Spagna nel 2015 e ha edificato i più grandi centri di detenzione extra territoriali della storia intorno al Mediterraneo. La distruzione dell’Europa – quella di cui siamo testimoni – è iniziata paradossalmente con la costruzione di una comunità europea immune, aperta entro i suoi confini ma completamente chiusa a stranieri e ai migranti.

Quello che si sta testando ora in scala globale attraverso la gestione del Covid-19 è un nuovo modo di intendere la sovranità in un contesto in cui l’identità sessuale e razziale (come gli assi di una segmentazione politica del mondo patrarcal-coloniale fino a ora) sono in un processo di disarticolazione. Il Covid-19 ha spostato a livello del corpo individuale le politiche di frontiera che avevano luogo nel territorio nazionale o europeo. Il corpo, il tuo corpo individuale, come spazio di vita e come rete di potere, come centro di produzione e di consumo di energia, è divenuto il territorio in cui le inedite politiche di confine che abbiamo progettato e testato per anni su “altr*” si esprimono ora in forma di misure di contenimento e di guerra al virus. La nuova frontiera necropolitica si è spostata dalle coste della Grecia alla porta di casa tua. Ora Lesbo è a due passi dalla tua porta. Il confine si stringe incessantemente intorno a te, spingendoti ancora più vicino al tuo corpo. Calais adesso ti esplode in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che respiri dev’essere solo la tua. La nuova frontiera è la tua epidermide. La nuova Lampedusa è la tua pelle.

È sui corpi individuali che ora si riproducono le politiche di frontiera e le strette misure di confinamento e immobilizzazione che come comunità abbiamo applicato in questi ultimi anni a migrant* e rifugiat*. Per anni l* abbiamo mess* nei centri di detenzione – limbo politici dove hanno vissuto senza diritti e senza cittadinanza; sale d’aspetto perpetue.

Ora siamo noi a vivere nel limbo dei centri di detenzione che sono le nostre case.

Lygia Pape, Espaços imantados (Magnetized Spaces), 1995.

 

Biopolitiche nell’era della “farmacopornografia”

Le epidemie, con la dichiarazione dello stato d’eccezione, sono eccezionali laboratori di innovazione sociale, l’occasione per una riconfigurazione in larga scala delle procedure del corpo e delle tecnologie di potere. Foucault ha esaminato la transizione dalla gestione della lebbra a quella della peste come il processo attraverso cui sono state impiegate le moderne tecniche disciplinari di spazializzazione del potere. Mentre i lebbrosi furono curati con misure necropolitiche restrittive che li escluse – condannandoli, se non alla morte fisica, come minimo alla morte biologica, alla vita al di fuori della comunità –, per reagire alla peste nacque una gestione di tipo disciplinare con le sue forme di inclusione escludente: una severa segmentazione della città e il confinamento di ogni corpo in ogni casa.

Renate Eisenegger, Isolamento (Isolation), serie di otto fotografie, 1972. Courtesy The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

 

La nostra salute non verrà dall’imposizione delle frontiere o dalla separazione, ma da un nuovo equilibrio con gli altri essere viventi del pianeta.

Le strategie adottate dai paesi nell’affrontare il Covid-19 mettono in luce due generi completamente diversi di tecnologia biopolitica. Il primo, che implica il confinamento in casa per l’intera popolazione, impiegato prima a Wuhan in Cina, poi in Italia, Spagna, Francia e più tardi nel Regno Unito e negli Stati Uniti, impiega severe misure disciplinari che per molti versi non sono poi così diverse da quelle che si utilizzarono contro la peste. Si tratta del confinamento domiciliare della totalità della popolazione. Rileggendo il capitolo sulla gestione della peste in Europa in Sorvegliare e punire ci si rende conto che le politiche di frontiera in Francia durante le epidemie non sono cambiare più di tanto nei secoli. La logica della frontiera architettonica è ancora quella dominante e si basa non solo sulla quarantena domestica ma anche sulla cura dell’infezione in reparti ospedalieri isolati. Non è ancora stato dimostrato che questa tecnica sia del tutto efficace.

Alice Bleton, Monade Capsule, 2018.

La seconda strategia, impiegata in Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Giappone e Israele, implica il superamento delle moderne tecniche disciplinari del controllo architettonico e l’adozione di tecniche farmacopornografiche di bioviglilanza. In queste aree si predilige la detenzione individuale della carica virale attraverso la diffusione dei test a la costante sorveglianza digitale dei pazienti tramite i loro dispositivi mobili. I telefoni e le carte di credito diventano strumenti di sorveglianza che permettono un costante tracciamento dei corpi individuali che potrebbero veicolare il virus. Non ci servono braccialetti biometrici. Il telefono è il miglior braccialetto: nessuno ci si separa, nemmeno quando dorme. Il GPS informa la polizia sui movimenti di ogni corpo sospetto. La temperatura e altri segni vitali di ciascuno sono osservati in tempo reale tramite gli apparecchi digitali dell’occhio cyber autoritario. In questo contesto, la società è una comunità di utenti, e la sovranità è soprattutto trasparenza digitale e gestione dei big data. Ad aprile, Apple e Google hanno firmato un accordo per lanciare una nuova applicazione di tracciamento smartphone per il Codiv-19. Se l’utente del telefono risulta positiv*, l’app lo notifica presso le autorità sanitarie pubbliche che si occuperanno di allertare chiunque il cui smartphone si sia trovato nei paraggi del telefono della persona infetta nei quattordici giorni precedenti.

Wim Wenders, Paris, Texas, 1984.

Dopotutto certe tecniche politiche di immunizzazione non sono nuove e sono già state impiegate nella ricerca e cattura dei cosiddetti terroristi. Sin dai primi anni dieci del duemila, per esempio, a Taiwan è stato legalizzato l’accesso alle app di incontri anche per attività sessuali al chiaro fine di prevenire la propagazione dell’aids così come della prostituzione sul web. Il Covid-19 ha legittimato ed esteso questo genere di pratiche governative di biosorveglianza e controllo digitale, standardizzandole e rendendole “necessarie” a mantenere una certa idea di immunità. Ciò nonostante, i governi che hanno implementato misure estreme di sorveglianza digitale non si sono ancora prefigurati di proibire il traffico e il consumo di animali selvatici o la produzione industriale di uccelli e mammiferi – all’origine della produzione di zoonosi virale, compresa la SARS-COV-2 – né di ridurre le emissioni di CO2. Così a crescere non è stata l’immunità del corpo sociale bensì la tolleranza dei cittadini al controllo cibernetico dello stato e delle corporation.

La gestione politica del Covid-19 come forma di amministrazione della vita e della morte disegna i contorni della nostra soggettività. All’indomani della crisi verrà introdotta una nuova utopia della comunità immunitaria e una nuova forma di controllo high-tech sui corpi umani. Il soggetto del tecnopatriarcato neoliberale che il Covid-19 sta fabbricando non ha pelle, è intoccabile, senza mani. Non scambia beni fisici, né paga in moneta, paga con carta di credito. Non ha le labbra, non ha la lingua. Non parla in diretta, lascia un messaggio vocale. Non si assembra né si collettivizza. È radicalmente individuo. Non ha volto, ha una maschera. Per esistere il suo corpo organico si cela dietro una serie indefinita di mediazioni semio-tecniche, una serie di protesi cibernetiche che usa come maschere: indirizzi e-mail, Facebook, Instagram, Zoom, TikTok, Twitch. Non è un agente fisico, è più un teleproduttore, è un codice, un pixel, un conto bancario, una porta con un nome, un indirizzo al quale Amazon può spedire i suoi ordini.

Alexander McQueen, VOSS, 2001.

Covid-19 ha anche reso visibile una cartografia di zone improduttive del corpo sociale nel nuovo sistema farmacopornografico considerate obsolete dal regime di produzione tecnico digitale. Si tratta di zone o di gruppi di popolazione che sono già stati lasciati dall’altra parte della frontiera biopolitica ma che appaiono oggi doppiamente vulnerabili: gli/le anzian*, in particolare quell* istituzionalizzat* nelle industrie di morte note come RSA, anzian* per i/le quali è troppo tardi trasformarsi in soggetti tecnico digitali; persone diversamente abili, in particolare quelle istituzionalizzate nelle industrie di morte note come RSD; le persone criminalizzate e incarcerate nelle industrie della morte note come prigioni e centri di detenzione, universi paralleli e completamente al di fuori della bolla di Internet. I corpi dei senzatetto (al di fuori della disciplina domestica così come del controllo e del consumo digitale) sono considerati criminali proprio perché eludono il confinamento e sono registrati in centri di detenzione che, più che cure, promettono contagio. Mai come adesso è stato chiaro quanto il lavoro retribuito sia esso stesso un’istituzione di confinamento, così come vediamo i/le lavorator* “essenziali” diventare corpi de-monizzati e brutalmente costretti negli spazi con tassi di rischio letali. I/le lavorator* essenziali costrett* a pedalare sono sottopagat* in maniera sproporzionata, sproporzionatamente migranti, sproporzionatamente corpi razzializzati. La loro mobilità forzata: anche quella è incarcerazione. In relazione a questi, le istituzioni di confinamento tradizionali, inclusi gli ospedali, appaiono ora non come enclave in cui si mantiene l’ordine sociale e disciplinare, ma come gli anelli fragili di una catena di mutazione bio-necropolitica.

Hans Hollein, Mobile Office, 1969.

 

La prigione soft: benvenut* nella tele-repubblica di casa tua

Uno dei cambiamenti biopolitici fondamentali nelle tecniche biopolitiche farmacopornografiche che caratterizzano la crisi del Covid-19 è che l’ambiente domestico, e non le tradizionali istituzioni di confinamento e normalizzazione (ospedale, fabbrica, carcere, scuola, ecc.), appare ora come nuovo centro di produzione, consumo e controllo biopolitico. La casa non è più solo il posto in cui il corpo è confinato, come nella peste. Le residenze private ora sono diventate il centro dell’economia del teleconsumo e della teleproduzione. Lo spazio domestico esisterà d’ora in avanti come un punto in una zona di cyber sorveglianza, uno spazio identificabile su Google Maps, una cella riconoscibile da un drone.

Quando ho studiato la Playboy Mansion qualche anno fa – prima nell’originale tenuta gotica a Chicago e successivamente a Los Angeles – ero interessato a quello che, già nel mezzo della Guerra Fredda, funzionava come un laboratorio in cui si studiavano nuovi dispositivi farmacopornografici di controllo del corpo e della sessualità. Dispositivi di questi tipo, che iniziarono a diffondersi in Occidente con la fine del XX secolo, con la crisi del Covid-19 si sono estesi all’intera popolazione del mondo. Mentre conducevo la mia ricerca alla Mansion, fui colpito dal fatto che Hugh Hefner, uno degli uomini più ricchi del mondo, aveva passato quasi quaranta anni senza uscire dalla Mansion, vestito esclusivamente in pigiama, accappatoio e pantofole, bevendo coca-cola e mangiando Butterfingers. Hefner dirigeva e produceva il più grande magazine da uomo in circolazione negli Stati Uniti direttamente da casa sua, spesso senza neanche alzarsi dal letto. Connesso a telefono, radio, stereo e videocamera, il letto di Hefner era una vera e propria piattaforma di produzione multimediale della vita del suo abitante.

Screenshot della visione 3D di Google Earth della Playboy Mansion a Los Angeles.

Il suo biografo Steven Watts descrisse Hefner come “un autorecluso nel suo paradiso esclusivo”. Sostenitore di ogni genere di mezzo di archiviazione di materiale audiovisivo molto prima dei telefoni cellulari, di Facebook e di Whatsapp, Hefner realizzò più di venti cassette audio e video al giorno, contenenti materiale che andava dalle interviste alle istruzioni per i suoi impiegati. Hefner aveva installato telecamere a circuito chiuso nella residenza, dove viveva anche una dozzina di Conigliette, e aveva l’accesso a ogni stanza in tempo reale dal suo centro di controllo. Con la sua copertura in pannelli di legno e le sue tende spesse ma attraversate da migliaia di cavi e colma delle più avanzate tecnologie di telecomunicazione dell’epoca, la Mansion era allo stesso tempo del tutto opaca e completamente trasparente. Così anche il materiale filmato dalle videocamere di sorveglianza finì sulle pagine del magazine.

Oltre che la trasformazione della pornografia eterosessuale in cultura di massa, la silenziosa rivoluzione biopolitica di Playboy lanciò una sfida alle divisioni che stavano alla radice della società industriale del XIX secolo: la separazione tra la sfera della produzione e quella della riproduzione, la differenza tra la fabbrica e la casa e, di conseguenza, la distinzione patriarcale tra mascolinità e femminilità. Playboy sovvertì quelle differenze proponendo una nuova enclave di vita: la casa per single connessa alle nuove tecnologie di telecomunicazione col suo nuovo inquilino, produttore semio-tecnico che non ha mai bisogno di uscire, neanche per lavorare o per fare l’amore – attività che, per giunta, diventano indiscernibili. Il letto rotondo era allo stesso tempo il suo tavolo da lavoro, la sua scrivania, un set fotografico e un luogo d’incontri sessuali, oltre che lo studio televisivo dove veniva girato il famoso programma Playboy After Dark. Playboy anticipò il discorso contemporaneo sul telelavoro e sulla produzione immateriale che la gestione della crisi del Covid-19 ha trasformato in dovere del cittadino. Hefner definì questo nuovo produttore sociale “lavoratore orizzontale”. Il vettore di innovazione sociale che Playboy mise in moto promosse l’erosione (e poi la distruzione) della distanza tra lavoro e piacere, produzione e sesso. La vita del playboy, costantemente filmata e diffusa tramite i magazine e la TV, era interamente pubblica, nonostante il playboy non lasciasse mai la sua casa o addirittura il suo letto. Playboy metteva anche in crisi la differenza tra la sfera maschile e femminile, rendendo il nuovo operatore multimediale quello che all’epoca suonava come un ossimoro, l’uomo di casa. Watts ci ricorda che l’isolamento produttivo necessitava di supporto chimico: Hefner era un gran consumatore di Dexedrina, un’anfetamina che eliminava il sonno e la fatica. Quindi, paradossalmente, l’uomo che non si alzava mai dal letto non dormiva poi così tanto. Il letto come nuovo centro di produzione multimediale era una cella farmacopornografica: poteva funzionare solo con l’uso di pillole contraccettive, di droghe che sostenevano alti rimi di produzione e, eventualmente, con una connessione a banda larga che reggesse il costante flusso di codici semiotici, divenuti il vero e unico alimento a nutrire il playboy.

Renate Bertlmann, Zärtliche Pantomime, Tender pantomime 1, 1976. Courtesy The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

Ora tutto ciò non ti suona familiare? Non sembra tutto stranamente simile alla tua vita confinata? Lascia che ti ricordi i consigli del presidente francese Emmanuel Macron: Siamo in guerra. Non lasciate le vostre case. Telelavoro.

Le misure biopolitiche di limitazione del contagio imposte per contrastare il Covid-19 ci hanno trasformato in lavorat* orizzontali – più o meno a immagine di Playboy. Ciascuno dei nostri spazi domestici è oggi diecimila volte più tecnicizzato di quanto lo era il letto rotondo di Hefner nel 1968. Il telelavoro e i dispositivi di telecontrollo saranno d’ora in avanti all’estremità delle nostre dita. Fuori, i lavoratori subalterni e verticali, corpi razzializzati e femminizzati, sono condannati.

In Sorvegliare e punire, Foucault prese in esame le celle monacali come vettori di e modelli per la transizione dal regime di sovranità, con le sue tecniche sanguinarie di controllo del corpo e della soggettività, alle architetture disciplinari e ai dispositivi di confinamento comparsi nel XVIII secolo per la gestione di intere popolazioni. Le architetture disciplinari furono una versione secolarizzata delle celle monacali, spazi in cui per la prima volta si sperimenta l’individuo moderno come anima rinchiusa in un corpo, un’anima letterata capace di leggere gli ordini dello Stato. Quando lo scrittore Tom Wolfe visitò Hefner, scrisse che quest’ultimo viveva in una prigione soffice quanto un cuore di carciofo. Si potrebbe dire che la Playboy Mansion e il letto rotondo di Hefner, trasformati in oggetti pop di consumo, fungevano durante la Guerra Fredda da spazi di transizione dove si inventa il nuovo soggetto protesico ultraconnesso, e anche le nuove forme di produzione e consumo farmacopornografiche e di biovigilanza che dominano la società contemporanea. Questa mutazione si è diffusa in larga scala e si è amplificata con la gestione della crisi del Codiv-19: i nostri macchinari portatili di telecomunicazione sono i nostri nuovi carcerieri e i nostri interni domestici sono diventati le prigioni soft e ultraconnesse del futuro.

Renate Eisenegger, Isolamento (Isolation), serie di otto fotografie, 1972. Courtesy The SAMMLUNG VERBUND Collection, Vienna.

 

Mutazione o sottomissione

Tutte queste potrebbero essere brutte notizie ma anche una grande opportunità. È proprio perché i nostri corpi sono le nuove enclave del biopotere e i nostri appartamenti sono le nuove celle di biovigilanza che ora più che mai è urgente inventare nuove strategie di emancipazione e di resistenza cognitiva, per mettere in moto nuove forme di antagonismo.

Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, la nostra salute non sarà né il prodotto di un confine né di una separazione, ma di una nuova comprensione della comunità con tutte le sue creature, di un nuovo equilibrio tra gli esseri viventi sul pianeta. Ci serve un parlamento non definito secondo termini di politiche identitarie o di nazionalità: ci serve un parlamento di corpi (vulnerabili) che vivono sul pianeta Terra. L’avvento del Covid-19 e le sue conseguenze ci chiamano una volta per tutte a liberarci della violenza con cui abbiamo definito la nostra immunità sociale. Guarigione e riabilitazione non possono essere solo i gesti negativi dell’isolamento sociale, della chiusura immunologica della comunità. Guarigione e cura possono partire solo da un processo di trasformazione politica. Guarire in quanto società significherebbe inventare una nuova comunità al di là dell’identità e delle politiche di frontiera con le quali abbiamo prodotto sovranità finora, ma anche al di là della riduzione della vita a biosorveglianza cibernetica. Restare vivi, per preservare la vita sul pianeta nonostante il virus ma anche nonostante gli effetti di secoli di distruzione ecologica e culturale, significa implementare nuove forme strutturali di cooperazione globale. Così come il virus muta, se vogliamo resistere alla sottomissione, anche noi dobbiamo mutare.

Lygia Pape, Divisor, 1968.

Dobbiamo passare da una mutazione per forza a una mutazione per scelta. Dobbiamo riappropriarci criticamente delle tecniche biopoitiche e dei loro dispositivi farmacopornografici. Prima, è fondamentale modificare la relazione tra i nostri corpi e le macchine biovigilanti di biocontrollo: esse non sono solo dispositivi di comunicazione. Dobbiamo imparare collettivamente ad alterarle. Dobbiamo anche imparare a dealienarci. I governi invocano il confinamento e la telecomunicazione. Noi sappiamo che invocano la de-collettivizzazione e il telecontrollo. Usiamo il tempo e la forza del confinamento per studiare la tradizione di lotta e resistenza tra le culture minoritarie razziali e sessuali che ci hanno aiutato a sopravvivere fino a ora. Spegniamo i telefoni, disconnettiamoci da Internet. Organizziamo il grande blackout contro i satelliti che ci osservano e immaginiamo insieme la rivoluzione che viene.

[traduzione di Francesco Tola]

 

Francesco Tola. Artworker. La sua ricerca è un archivio fluido dal titolo Decolonizing Patriarchy. Ha studiato Arti Visive e Studi Curatoriali presso Naba di Milano e ha frequentato il modulo Arti del Master in Studi e Politiche di Genere presso l’Università di Roma Tre. Ha partecipato a Napoli all’edizione Display del ciclo Q-Rated della Quadriennale di Roma. Attualmente collabora col gruppo di ricerca di Marco Scotini e con lo spazio indipendente Il Colorificio. Nel 2019 ha esposto a Milano presso la galleria MEGA una mostra intitolata White Noises.

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