Dancing on the rubbles. Strategie plurali di riorientamento per il museo decolonizzato

Intervista ai membri di StrikeMoMA,

a cura di Stefano CavalieroIvette Peña Rivas. 

Parallelamente al riconoscimento di prigioni e università come strutture coloniali, anche i musei sono entrati nel mirino di una corrente di revisione istituzionale che, in essi, individua un think-tank e un propagatore culturale delle narrative moderniste occidentali, per loro natura violente ed esclusive. Strike MoMA, ampia coalizione di artisti e attivisti, movimento critico nei confronti dei rapporti di forza e del sistema di potere delle istituzioni dell’arte, nato lo scorso marzo a New York, si riconosce in questo contesto, portando avanti una lotta intersezionale rivolta a scardinare le logiche capitaliste, coloniali e patriarcali del museo statunitense e delle strutture ideologico-culturali, produttive e soprattutto economico-finanziarie del mondo dell’arte.

Gli scioperi sono iniziati in seguito alla diffusione di documenti che attestavano i legami finanziari tra Leon Black, collezionista e presidente del MoMA, e Jeffrey Epstein, imprenditore criminale morto suicida nel 2019. Tuttavia, a questo movente se ne sono aggiunti molti altri, tutti collegati all’ingerenza dei membri del consiglio di amministrazione nelle crisi politiche ed ambientali su scala globale: da Porto Rico alla Palestina, da Cuba al Kashmir, dallo Yemen alla Colombia, dal Congo alla violenza contro le comunità indigene americane.

Gli scioperi non intendono soltanto puntare il dito contro i “predatori miliardari”, che con l’art-washing vogliono legittimare le proprie azioni e i loro finanziamenti, nel regime governamentale e di soggettivazione neoliberale dell’Artecrazia, ma si propongono piuttosto di mettere in discussione l’intera struttura di potere che regge il museo, porre le comunità e i lavoratori del mondo dell’arte in primo piano rispetto all’istituzione. Artisti, curatori, critici, professori, studenti e impiegati museali, dentro e fuori New York, hanno creato una piattaforma di scambio e discussione per individuare collettivamente le criticità del sistema ed immaginare dei futuri post-MoMA, in cui l’istituzione, messa sotto scacco, diventa irrilevante e l’arte viene autodeterminata dalle comunità che la producono, solo così “il museo può diventare un bersaglio facile attraverso il quale possiamo riunirci, studiare, hackerare le narrative [egemoniche], costruire e differenziare nel processo di lotta”.

Amin Husain, Nitasha Dhillon e Amy Weng, tra gli agitatori di Strike MoMA e già attivi nello scorso decennio con i gruppi Decolonize This Place, Gulf Labour e nell’onda movimentista e antagonista di Occupy Wall Street, hanno accettato di rilasciare un’intervista per chiarificare i punti dello sciopero e discutere le problematiche intrinseche al sistema dell’arte occidentale. La coalizione ha ottenuto il sostegno delle Guerrilla Girls nonché di intellettuali e attivisti tra cui Angela Davis, Fred Moten, Sandy Grande e Gayatri Spivak.

Strike MoMA: struttura e termini per la lotta [Il manifesto tradotto in italiano]

«Quando scioperiamo contro il MoMA, scioperiamo contro la sua modernità intrisa di sangue. Il monumento sulla 53esima strada diventa il nostro prisma. Vediamo le nostre storie e le nostre lotte riflesse nella sua struttura cristallina, e intravediamo futuri appena schiusi. Il museo si trasforma in un teatro di operazioni dove i movimenti interconnessi per la decolonizzazione, l’abolizione, l’anticapitalismo e l’antimperialismo possono ritrovarsi l’un l’altro. Perché Strike MoMA? Per far sì che qualcos’altro emerga, qualcosa che stavolta sia sotto il controllo dei lavoratori, delle comunità e dellз artistз, piuttosto che dei miliardari!»

Attivisti di strike MoMA che protestano fuori dal museo il 30 aprile 2021; le foto sono prese da Hyperallergic via Facebook #strikemoma || strikemoma.org

Stefano Cavaliero e Ivette Peña Rivas: Perché avete scelto lo sciopero come strumento di lotta? Le mobilitazione, i laboratori e le forme creative di protesta e dibattito pubblico possono essere considerati delle strategie di critica istituzionale?

Amin Husain: Il contesto di StrikeMoMA è stato creato nel corso di tre mesi, e abbiamo cercato di pensare all’esperienza del nostro movimento nella città in lotta, e soprattutto ai musei come luoghi di lotta. Con Decolonize This Place, tutti continuavano a chiederci “Cosa succederà al lavoro artistico? Cosa succederà agli artisti e al sistema dell’arte?”, e noi continuavamo a rispondergli che non erano queste le domande da cui partivamo. La domanda da cui partiamo è “Come possiamo raggiungere la libertà?”. Dovremmo davvero capire come l’arte e l’estetica possano essere riconosciute non solo attraverso le categorie che il sistema dell’arte riconosce, o che ci dice di riconoscere. Dobbiamo capire come focalizzarci sugli artisti, sulle comunità artistiche, le lotte dell’arte, e i suoi sogni e desideri. Ci abbiamo pensato a lungo, e alla fine non abbiamo trovato nessun’altra soluzione se non quella di abolire il sistema museo. Ci abbiamo provato, ma non c’è altra strada. Il museo non potrà correggersi da solo. Ora abbiamo la possibilità di renderci conto di cosa parliamo quando parliamo di museo, e se debba o non debba esistere, o se debba esistere secondo modalità diverse. Queste discussioni sono collettive, e devono essere fatte in diverse lingue, e in diversi contesti. In tutto il mondo si parla di modernità e “fuck modernity”, di centralità dell’occidente e di “fuck centralization of the West”, ed è necessario costruire una cornice abbastanza larga da permettere alla gente di partecipare alla conversazione in maniera autonoma, senza la mediazione del MoMA. Lo sciopero si basa sulla rimozione del MoMA –e di qualunque altro regime- dall’equazione, e su strategie per pensare a come generalizzare lo sciopero, e a come creare a partire dalla distruzione. Una parte di queste strategie riguarda la decentralizzazione del mondo dell’arte, ma i nostri più grandi ostacoli sono i suoi custodi, ovvero quelli che costruiscono le loro carriere sulla politica e a cui non frega un cazzo della gente.

I manifestanti di Strike MoMA protestano per le strade di New York. Courtesy Decolonize This Place via Twitter #strikemoma || strikemoma.org

Nitasha Dhillon: Neanch’io credo che si tratti solo di distruzione: si tratta piuttosto di essere consapevoli di ciò che può emergere dalle rovine. Ci piace molto l’idea di “dancing on the rubbles”, ballare sulle macerie. Possiamo vedere che quello che sta succedendo in tutto il mondo, specialmente con la messa in discussione dei monumenti, ha a che fare col riconoscimento delle maggiori strutture della società come dispositivi di oppressione. Come per i monumenti, la gente ha iniziato ad identificare i musei, ma anche le prigioni e le università, come strutture coloniali. Ariella Azoulay parla specificatamente di come l’arte moderna sia il prodotto della colonizzazione, e di come i musei siano parte integrante di questo progetto, isolando la gente dai propri manufatti e costruendo estetiche. Nei termini dello sciopero, penso che la cosa più urgente sia pensare ad un “riorientamento”, che scaturisce anche dalla consapevolezza che, nelle istituzioni, c’è un grande dibattito riguardo diversità, equità ed inclusione. Il dibattito pubblico e istituzionale è incentrato sul fatto che non ci sono abbastanza persone BIPOC (black, indian, people of color) nelle università e nei musei, che ci sono soprattutto bianchi e che questo è il motivo per cui la crisi esiste, e che noi abbiamo il bisogno di introdurre nelle istituzioni più operatori neri e del sud globale. Questi dibattiti sono utili e meravigliosi, ma non risolvono niente, siccome sono portati avanti e mediati dalle istituzioni stesse. L’anno scorso, con tutto ciò che succedeva negli Stati Uniti con George Floyd, i musei rilasciarono una lettera in cui esprimevano solidarietà con la black cause, ma nelle istituzioni non cambiò nulla. L’istituzione può essere diventata più diversificata, ma le sue strutture e i suoi meccanismi sono rimasti invariati. La crisi in cui siamo è piuttosto legata alla colonizzazione e alla modernità occidentale, e la nostra vera sfida è quella del riorientamento delle rovine e delle macerie. Per esempio, se davvero smantellassimo il MoMA, dovremmo pensare attivamente alle cose di cui potremmo riappropriarci, a cosa possiamo ricavare da questa distruzione. Possiamo avere un sacco di immondizia, ma possiamo riciclare, e capire a fondo cosa voglia dire riciclare. Il riorientamento è necessario.

Banner simbolo della protesta. Courtesy Strike MoMA by Instagram #strikemoma || strikemoma.org

Amin Husain: Aggiungo un’ultima cosa. Nitasha ha parlato di diversità, equità ed inclusione. Non fanno altro che ispessire le fila di un sistema già fottuto. Le persone a cui è concesso di entrare, anche se sono ben intenzionate e producono arte straordinaria, stanno incentivando uno status quo dannoso ed illegittimo. È un sistema di esclusione, e nessuno ne viene incluso se non in termini di oppressione. Dunque, ci sono due cose di cui il mondo dell’arte deve rendersi conto. La prima è che diversità, equità ed inclusione sono solo una questione estetica e di facciata. Poi, c’è l’altra faccia della medaglia, vale a dire la supremazia del denaro, il benessere e l’art-washing. Questi sono gli strumenti del museo, e in questi termini si può parlare di regime. Quando parliamo di uscire dal museo, non parliamo degli impiegati del MoMA, né di uscire fisicamente dall’edificio del MoMA –anche se potremmo parlare anche di questo. Parliamo piuttosto di svincolarci dai vincoli che il MoMA ci ha imposto, che sono un’estensione delle ideologie dello stato-nazione e della centralità della civiltà occidentale. StrikeMoMA dice, in breve, che i musei sono sullo stesso piano di prigioni, polizia e regimi oppressivi, e che lo scopo dello sciopero è liberare il museo, ma mettendolo nel mirino. Il museo può diventare un bersaglio facile attraverso il quale possiamo riunirci, studiare, hackerare le loro narrative, costruire e differenziare nel processo di lotta.

Y’all know why strike @themuseumofmodernart || strikemoma.org #strikemoma

Stefano Cavaliero e Ivette Peña Rivas: Credete che sia più importante “riformare” l’istituzione del museo, o trovare spazi antagonisti e alternativi attraverso cui far sentire la vostra voce e diffondere i vostri messaggi?

Amin Husain: Ciò che intendiamo portare avanti è una diversità di tattiche e strategie. Dalla vostra domanda, posso immaginare che abbiamo la stessa coscienza politica. Ma voi siete in una posizione diversa dalla mia, e vedete il mondo da un posto diverso, con diverse esperienze di vita vissuta. La cosa importante, però, e che noi ci riconosciamo nella conversazione che dobbiamo avere senza il MoMA. Ci sono persone che sono pronte ad abbandonare il museo, e dovrebbero abbandonarlo; ma ci sono anche i lavoratori del museo, che potrebbero lottare dall’interno e formare un sindacato. La cosa più importante che il manifesto afferma è che nessuno impone come devi lottare, ma ognuno dovrebbe capire come può lottare a partire dalla sua posizione.

Stefano Cavaliero e Ivette Peña Rivas: Dall’inizio dello sciopero, avete avuto la possibilità di confrontarvi con i membri del consiglio d’amministrazione del MoMA sulle questioni sollevate dal vostro manifesto?

Nitasha Dhillon: StrikeMoMA deriva anche dall’esperienza di vari movimenti sorti a New York negli ultimi dieci anni, che erano anche dei movimenti sociali, come quelli verificatosi attorno al Guggenheim. Molte persone che ora fanno parte di StrikeMoMA fanno anche parte di Gulf Labour, che è il movimento sorto a causa della costruzione del Guggenheim di Abu Dhabi, e ci sono anche persone che sono state coinvolte nelle manifestazioni del Whitney contro Warren Kenders. Warren Kenders era un membro del consiglio d’amministrazione del Whitney, ma è anche il proprietario di una compagnia che produce gas lacrimogeni usati sui confini USA-Messico, in Turchia, Egitto e Palestina, e anche munizioni usate a Gaza. Questo è solo un esempio di chi siede nel consiglio di amministrazione di queste istituzioni, e per riferirci a loro parliamo di “interlocking directorates”, vale a dire una rete di poteri forti interconnessi. Nel MoMA c’è Larry Fink, che è responsabile degli incendi in Amazzonia e della crisi del debito pubblico di Porto Rico, e che finanzia anche il Dipartimento di Polizia di New York. Ci sono tutte queste connessioni. Ho citato tutto questo perché durante gli scioperi al Guggenheim abbiamo avuto l’occasione di parlare con i membri del consiglio d’amministrazione, ma non è cambiato nulla. Il punto è che la conversazione che stiamo portando avanti su scala globale, soprattutto nelle sue declinazioni anticoloniali, richiede che loro smantellino l’intera struttura di potere di cui sono parte, e che ricalibrino tutto a partire dal basso.

Amin Husain: Abbiamo provato a parlare col consiglio di amministrazione di varie istituzioni dal 2014 –in realtà Nitasha dal 2011, con Occupy Wall Street-, e pensavamo che fosse molto importante, ma dopo le insurrezioni di George Floyd abbiamo capito che ora è tempo di cambiare tattica. Non è più tempo di parlare con le leadership del MoMA: dobbiamo renderle irrilevanti. In effetti, il museo stesso è adesso irrilevante. Ciò che è davvero importante per noi in quanto studenti, pensatori e persone che si uniscono è che amiamo il mondo dell’arte, ma crediamo che debba essere gestito dalle comunità che la producono.

I manifestanti di Strike MoMA protestano per le strade di New York. Courtesy Decolonize This Place via Twitter #strikemoma || strikemoma.org

Stefano Cavaliero e Ivette Peña Rivas: A differenza degli Stati Uniti, in Europa ci sono numerose istituzioni pubbliche che promettono di offrire ai cittadini un servizio culturale accessibile a tutti. Affidarsi al pubblico potrebbe aiutare a svincolare il museo dalle logiche politiche ed economiche portate avanti dagli ”interlocking directorates”?

Nitasha Dhillon: Credo che bisogna guardare con molta più attenzione a quest’idea di pubblico/privato. Il discorso del pubblico deriva da una situazione in cui gli stati nazionali dovrebbero finanziare la cultura, e stati di welfare dovrebbero garantire queste risorse alla gente, che le vive in quanto cittadini. Ma ciò che abbiamo visto con Occupying Museums (un gruppo di Occupying Wall Street) è l’urgenza di decostruire le nozioni di pubblico e privato. L’Europa ha istituzioni pubbliche alle quali guarda con orgoglio, mentre negli Stati Uniti c’è un contesto spiccatamente capitalista, in cui i musei sono privati e in cui anche i progetti del governo sono spesso frutto di una collaborazione tra pubblico e privato. Negli Stati Uniti ci sono questi spazi chiamati “publicly owned private space” (spazi privati di fruizione pubblica), che le agenzie immobiliari costruiscono con la responsabilità di riservarli all’uso pubblico, nonostante siano privati. Ma, oltre a questo, cosa si intende per “pubblico” nel contesto degli stati nazionali? Se si pensa al “pubblico” statunitense –ma anche europeo-, si tratta di un pubblico suprematista bianco e di origine coloniale. Tutti i pubblici sono pubblici imperialisti, e non c’è nessun collegamento con il desiderio di giustizia e libertà. Cosa dovrebbe essere davvero preso in considerazione è il contesto anti-imperialista, che ragioni sull’enorme ricollocamento che sta succedendo in tutto il mondo, e che riconosca che l’ideologia dello stato-nazione non può offrirci strutture di libertà. Ogni progetto nazionale è un progetto esclusivo e coloniale, e si può vedere anche nel contesto degli stati del cosiddetto “Terzo Mondo”. Se si guarda all’India, è uno stato moderno basato sul genocidio e su un progetto coloniale, e nessuno dei confini è stato stabilito su criteri di autodeterminazione. Dunque, in ogni geografia, ogni pubblico è un pubblico fascista. Bisogna dunque pensare a costruire mondi decolonizzati e pluralizzati, e ad intessere relazioni. Questo pensiero, ad ogni modo, è un processo, e deve essere portato avanti in quanto tale. Siamo spesso portati a stabilire un obiettivo quinquennali o decennali, come se il processo e il tempo fossero lineari. Anche la linearità deriva da un’ideologia colonialista e capitalista, finalizzata a raggiungere il progresso e la modernità. Cosa bisognerebbe fare, invece, è costruire un quadro di tempo e spazio al di fuori delle logiche coloniali, in cui la libertà venga configurata nella processualità della pratica della libertà, e in cui anche l’arte sia prodotta.

Amin Husain: Sì, ci è sempre stato detto che il processo è lineare, ma noi non concepiamo lo sciopero in modo lineare. Pensiamo che la cosa più importante sia il processo di trasformazione della nostra comunità e del museo, anche non vedendone una fine preciso. Il processo, lungo il suo corso, ci aiuterà a ridefinire le migliori risposte e le migliori strategie, senza l’ansia di avere un cammino stabilito. Penso, ad esempio, agli zapatisti negli anni ’90, che ci hanno insegnato che non è necessario avere la risposta ad ogni domanda prima di agire o di contestare. Il nostro processo è, in primo luogo, un processo di dissidenza. Perché? Perché il nostro compito non è quello di presentare delle alternative in via preventiva e normativa. Perché se decidessimo tutto ancor prima di agire si tratterebbe ancora una volta di un’imposizione ai danni della gente. Crediamo nel processo come modalità per capire le cose, e capirle vuol dire organizzarsi, condividere, imparare insieme, perché è così che si troveranno risposte. Per adesso, dobbiamo essere dissidenti, e dire che i musei non sono etici.

Interconnected Struggles – Scene dalla manifestazione di strike MoMA con i compagni di Porto Rico, della Colombia e la Repubblica Dominicana contro tutti gli speculatori della guerra, i manager di hedge fund e i sionisti presenti nel consiglio di amministrazione del museo. Courtesy Strike MoMA by Instagram #strikemoma || strikemoma.org

Interconnected Struggles – Scene della mobilitazione per le strade di New York. Courtesy Strike MoMA by Instagram #strikemoma || strikemoma.org

Interconnected Struggles – Scene della mobilitazione per le strade di New York. Courtesy Strike MoMA by Instagram #strikemoma || strikemoma.org

#1-3 || Framework, Analysis, Organizing, Action • some posts are in threes, they are so important • Courtesy Decolonize This Place via Facebook #interconnectedstruggles #globalizetheintifada #strikemoma || strikemoma.org

Stefano Cavaliero e Ivette Peña Rivas: Come si interfacciano le rivendicazioni di StrikeMoMA con il contesto urbano e sociale di New York, oltre che con le lotte transnazionali alle quali si ricollega?

Amy Weng: Abbiamo cercato di creare una sinergia tra spazi pubblici e privati. Per esempio, in alcune piazze di New York abbiamo proposto alcune attività quali la rimozione dei rifiuti, la pulizia degli spazi pubblici, l’istallazione di barricate e impalcature, e per la fine della decima settimana di lavoro avevamo barricato l’intera piazza. Comunque, e nonostante utilizzassimo spazi pubblici, siamo stati mano a mano spinti fuori dalle strade. Crediamo che una delle ragioni per cui l’hanno fatto è perché non volevano che ci incontrassimo, organizzassimo, discutessimo, presentassimo le nostre attività e i nostri workshop. Vogliono eliminare questi spazi di incontro. Nelle settimane –perché noi eravamo lì ogni venerdì- costruivamo uno spazio ulteriore, esercitando una pressione sul museo proprio fuori al museo. E mentre facevamo queste cose, altre cose accadevano in Palestina e in Colombia. Questo era uno spazio dove in molti si riunivano per discuterne e diffondere informazioni corrette, ed era di fronte al MoMA. Potevamo puntare il dito contro il MoMA, dove le persone che ci stanno uccidendo risiedono, giocano, organizzano serate di gala e cocktail party. Essere lì significava esercitare una pressione, fargli notare che eravamo lì, e che c’eravamo insieme. Questo è uno dei posti, perché ce n’erano degli altri. Per esempio, con Nitasha abbiamo messo su uno spazio digitale, per poter permettere alle persone che avrebbero voluto partecipare ma non hanno potuto di potersi ugualmente riunire. Persone appartenenti a varie comunità hanno potuto interfacciarsi con gente che era fuori New York e costruire con loro relazioni, creando delle reti virtuali.

Jan van Raay, Faith Ringgold e Michele Wallace durante una protesta di Art Workers Coalition, Whitney Museum, 1971. Courtesy of Jan van Raay. © Jan van Raay.

Amin Husain: Se posso aggiungere una cosa, direi che ciò che manca a molti architetti ed artisti, gente che qui, negli Stati Uniti, ha avuto a che fare con il sistema di professionalizzazione, ciò che gli manca è una corretta comprensione del potere. Gli artisti non comprendono il potere, vogliono solo stare vicini al potere. Per questo ci sono i cocktail e i gala. Quindi, parlando in termini di ideologia e storia politica, è importante capire che i musei sono la cristallizzazione e la vetrina di ciò che succede nella nostra società. Chiunque si avvicini al museo non dovrebbe “eccezionalizzarlo”, né pensare al museo come svincolato dal contesto. I musei e le università sono luoghi di ritrovo e sono necessari per il progetto politico degli stati nazionali, il che significa che possono produrre le idee di cittadino e migrante, e possono muovere guerra agli altri. Sono i produttori dei monopoli di potere, e le persone che li supportano con finanziamenti stanno finanziando la morte delle altre persone. Quando guardiamo al MoMA, ragioniamo su scala globale, perché il nostro intento è quello di smantellare l’imperialismo. Ci siamo focalizzati sulla terra espropriata e rubata, sui genocidi, sulla schiavitù, e i musei e le università continuano a dirci che il dibattito può essere diffuso ed arricchito solo facendo delle mostre. Non è così. Cosa stiamo facendo di fronte al MoMA è bellissimo perché ci incontriamo per davvero, e in un mese o due la gente potrà vedere cosa abbiamo fatto fino ad oggi. È la stessa città di New York che diventerà il nostro museo. Vogliamo moltiplicare le azioni che abbiamo fatto davanti al MoMA per tutta la città.

«La donazione è una forma di compensazione nei confronti dei più svantaggiati, perché l’arte ha da sempre servito le élite contribuendo all’oppressione dei più deboli» «La donazione è una forma di compensazione nei confronti dei più svantaggiati, perché l’arte ha da sempre servito le élite contribuendo all’oppressione dei più deboli» «La donazione è una forma di compensazione nei confronti dei più svantaggiati, perché l’arte ha da sempre servito le élite contribuendo all’oppressione dei più deboli». GAAG, Jon Hendricks e Jean Touche rimuovono un dipinto di Malevich, MoMA, 1969.

Stefano Cavaliero e Ivette Peña Rivas: L’artista Gabrielle L’Hirondelle Hille, di cui il MoMA attualmente ospita una personale, ha scritto una lettera di solidarietà con la vostra causa, sottolineando come la sua stessa mostra si focalizzi sul ruolo del tabacco presso le comunità indigene in contesti precoloniali. Come avete accolto questa lettera? Cosa significa essere un antimperialista nel cuore dell’impero?

Nitasha Dhillon: Lei ha menzionato nella lettera che la sua personale a New York è una mostra politica. È possibile vedere queste dinamiche dentro al museo, ma non vedere i legami interni, e questo anche perché la gente crede che i gruppi come StrikeMoMA sono semplicemente contro il museo. Ma in realtà, potete vedere come all’interno di questi gruppi ci siano lavoratori museali, storici, pedagoghi, curatori, artisti e intellettuali, e questo non solo attorno al MoMA. Con il tempo abbiamo constatato che ci sono moltissimi simpatizzanti dentro alle istituzioni. Anche con il Whitney Museum erano i lavoratori, dall’interno, ad essersi organizzati ed aver rilasciato una lettera per interrompere la Biennale, e lo stesso è successo col MoMA. Credo che Gabrielle con la sua lettera abbia voluto scardinare l’idea secondo cui se lavori per un’istituzione non puoi dire niente sull’istituzione. Gli artisti invece giocano un ruolo fondamentale nella loro interazione con l’istituzione. Sono in una posizione in cui possono domandarsi “Se io parlo contro l’istituzione, questo può compromettere la mia partecipazione come artista? Il mio lavoro non verrebbe più esposto?”. Con Gabrielle e Michael Rakowitz, un altro artista che ha supportato la causa e che faceva parte del programma del MoMA, siamo stati in grado di indagare queste contraddizioni. Tutto ciò dimostra che ci sono altre possibilità, non solo quella di schierarsi oppure no con l’istituzione. La lettera cerca di creare uno spazio che permetta agli artisti di pensare al loro ruolo all’interno del sistema arte. Molti artisti sono precari, non sono ricchi, e devono appoggiarsi finanziariamente alle mostre e al mercato dell’arte. È parte integrante del sistema che abbiamo ereditato.

Amy Weng: Anche nel contesto dello sciopero, ci sono diverse modalità per scioperare, e non c’è nulla di normativo. Ad esempio Jive Poetic, che è un altro nostro amico che fa parte della Poet Society, è stato inviato a prendere parte alle nostre attività ma, dopo aver letto il manifesto, ha deciso di non partecipare, ma di fare una performance nella piazza appena oltre la strada del MoMA. Ognuno decide, basandosi sulle sue idee, come supportare la causa. Questo porta ad una domanda: l’arte che viene fatta in piazza è meno arte dell’arte che sta dentro ad un museo?

Amin Husain: È interessante che, quando Gabrielle è stata invitata, ha cercato di instaurare delle connessioni con la città e con le comunità. Lei ha questa personale a New York, ma è un’indigena canadese. La cosa importante della sua partecipazione era il dibattito che si era creato dietro le quinte, non quello che la gente vedeva. Allo stesso tempo però Gabrielle si diceva che questo era quello che voleva fare, ma non sapeva se avesse senso perché voleva solo ritirarsi e che quello sarebbe potuto essere il suo modo di scioperare. Ma poi ha trovato in maniera autonoma il suo modo di scioperare, e ha avvertito un senso di responsabilità nei confronti della comunità indigena a cui appartiene. Ha deciso di usare New York City come piattaforma per dare spazio alla sua comunità, e dunque la sua scelta non riguarda né il MoMA né la sua carriera, ma piuttosto le modalità in cui la sua arte politica può manifestarsi nel mondo. Quindi quando Gabrielle si è unita a noi e abbiamo letto la sua lettera, abbiamo pensato che fosse brillante. È questo quello di cui abbiamo bisogno, questo è emblematico.

«Fanculo Rockefeller! Non vi vogliamo e non vogliamo i vostri sporchi soldi! Se questo è l’unico modo per avere l’arte, chi se ne fotte dell’arte!». Guerrilla Art Action Group, Blood Bath (A Call for the Immediate Resignation of All the Rockefellers from the Board of Trustees of the Museum of Modern Art, New York), 1969.

Guerrilla Art Action Group, Blood Bath (A Call for the Immediate Resignation of All the Rockefellers from the Board of Trustees of the Museum of Modern Art, New York), 1969.

Stefano Cavaliero e Ivett Peña Rivas: Esiste un rapporto con le mobilitazioni e le lotte che negli anni Settanta – da Art Workers Coalition ai gruppi femministi, Women Art in Revolution, etc., e anti-razzisti, Black Emergency Cultural Coalition, etc. – hanno coinvolto il museo?

Amin Husain: Sì, abbiamo fatto riferimento al gruppo di Art Workers Coalition, e abbiamo imparato molto da quello che hanno fatto in passato. Per ogni gruppo che ha combattuto per la stessa causa, abbiamo visto il loro impatto, cos’è andato bene e cos’è andato male. Il contesto che presentiamo a tutti è il nostro modo di riflettere su come possiamo far andare le cose bene, e come possiamo riflettere sulla situazione attuale. Il nostro pensiero dipende dall’orologio del mondo: cosa sta succedendo ora? Come impatta il sistema dell’arte? Cosa c’è che non funziona? Cosa succede con il capitalismo? Questo richiede di scendere a patti con il fatto che non esista un’unica risposta, o almeno che noi non ce l’abbiamo, ma che lo stesso dobbiamo parlarne e cercare delle soluzioni.

Art Workers Coalition, Artists Poster Committee (Frazier Dougherty, Jon Hendricks, Irving Petlin), Q: And Babies?, massacro di May Lai del marzo 1968, azione di protesta al MoMA, 1970.

Nitasha Dhillon: Le Guerrilla Girls si sono unite al gruppo del MoMA e abbiamo collaborato. Si sono soffermate sulla disparità di genere che esiste in queste istituzioni, e credo che nell’arte e nel sistema del lavoro la struttura sia molto complicata. Chi gestisce le istituzioni, per esempio, chi sono i curatori, chi i lavoratori. È una struttura difficile, vero? C’è uno studio sui musei di New York ed è stato evidenziato come la maggior parte delle persone nere lavorava nella manutenzione. Tutti questi movimenti sono stati molto importanti nell’evidenziare queste questioni. È ciò che ho detto prima, che questo movimento è costruito sulla storia di altri movimenti, e che non ha un tracciato fisso, ma cresce insieme al processo. Sono personalmente molto interessata ai movimenti dei lavoratori, ad esempio di quelli di Delhi, e mi piacerebbe approfondirli perché loro non scioperano solo per i loro stipendi, ma anche per la dignità delle loro vite e del loro lavoro. La gente non vuole più lavorare come prima. C’è bisogno di riorientare, e di costruire relazioni. Non dobbiamo domandare al MoMA quello che negli anni scorsi abbiamo chiesto al Whitney. La strategia della richiesta non funziona più. Ciò di cui c’è bisogno è la ristruttura, la riappropriazione, e il riciclo.

Per strike MoMA le Guerrilla Girls hanno presentato alcuni dei loro progetti di denuncia dei “cattivi comportamenti” del MoMA (1985-2021): «Fino a quando il MoMA non si reinventerà radicalmente, non racconterà la storia dell’arte ma la storia della ricchezza e del potere». 1985 QUANTE DONNE HANNO FATTO MOSTRE NEI MUSEI DI NYC: Anche se il MoMA è in testa al sondaggio nel 1984, una sola esposizione di un’artista donna è semplicemente patetica. Guerrilla Girls per #strikemoma || strikemoma.org

2015: CARO MUSEO D’ARTE MILIARDARIO: il MoMA ama spendere miliardi per i lavori di ristrutturazione, ma volevamo chiedere se anche gli stipendi dei dipendenti sono aumentati. Guerrilla Girls per #strikemoma || strikemoma.org

2019 LEON BLACK GLEN DUBIN: Dopo l’ennesima ristrutturazione, il MoMA ha intitolato due stanze a donatori con legami sospettosamente intimi con Jeffrey Epstein. È stato fantastico avere questo poster proprio fuori dal museo affinché tutti lo potessero vedere, grazie ad Art in Ad Places. Foto di Luna Park. Guerrilla Girls per #strikemoma || strikemoma.org

 

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