Per farla finita con l’Artecrazia

Intervista a Marco Scotini sul nuovo libro per DeriveApprodi.

Le recenti proteste di #strikeMoMA denunciano la supremazia del denaro, la ricchezza e l’art-washing, insieme a una modernità coloniale e imperialista intrisa di violenza, attaccando i “predatori miliardari” che utilizzano l’arte come strumento di accumulazione attraverso la filantropia liberale: così affermano che “inseguire” gli oligarchi del MoMA è un’altra strategia di sciopero, così come riaprire gli archivi e denunciare “il loro patrimonio di miliardi appeso alle pareti, opere d’arte trasformate in ornamenti di oppressione e cifrari di dispossesso”. Possiamo dire che combattono contro l’Artecrazia?

Marco Scotini: L’annuncio che Thomas Messer, l’allora direttore del Solomon Guggenheim, avesse cancellato la mostra di Hans Haacke, prevista per il 30 aprile 1971, negli anni ha fatto riempire pagine d’inchiostro senza compromettere, in sostanza, la venerabile immagine del museo americano. Se arriviamo all’oggi (al marzo scorso, per esempio) il caso delle Serpentines Galleries sembrerebbe di segno opposto, quando non lo è affatto. Qui si permette addirittura a Hito Steyerl di denunciare, con una sua personale, il direttore Yana Peel per il suo legame con società di spionaggio. Subito dopo, la Peel presenta le dimissioni mentre l’altra sede della nota galleria in Hyde Park perde il nome che coronava il timpano dell’edificio: quello della famiglia Sackler, altro esempio di ‘filantropia tossica’ legato ad una compagnia farmaceutica accusata di killeraggio sanitario. Da un lato nessuno ha messo in discussione gli oltre dieci anni di supporto alla istituzione da parte dei due brand, con i programmi di successo varati da Obrist e i padiglioni commissionati a Rem Koolhass o Olafur Eliasson perché l’Arte è, per statuto, buona. Nessuno, cioè, ha messo in discussione la ‘giusta’ condotta del museo o la positività dell’istituzione in sé, come invece denuncia #strikeMoMA. Ma c’è di più.

Yana Peel (vice-presidente della Goldman Sachs prima di approdare alla Serpentine nel 2000), Hans-Ulrich Obrist, Tommy Hilfiger, Naomi Campbell e Julia Peyton-Jones partecipano al Serpentine Summer Party, 2016.

Black Lives Matter al primo posto della Power 100 di ArtReview, 2020.

Hito Steyerl, così come il movimento Black Lives Matter hanno raggiunto, per due anni successivi, le vette delle Top Power 100 stilata dalla rivista inglese Art Review. Ecco questo nuovo fenomeno è quello che, nel libro, ho chiamato Artecrazia. In sostanza si tratta di promuovere un’immagine liberale del neoliberismo contemporaneo, quando questo di democratico non ha più nulla. Il nuovo fascismo è ultraliberista, nazional-liberista (come dice il mio amico Lazzarato): produce impresa e stato, combina l’agenda neoliberista con quella neonazionalista. Il vero crimine è far passare questi casi come degli incidenti di percorso senza mettere in discussione l’alleanza basilare tra istituzione e finanziarizzazione. Senza mettere in discussione la rincorsa ad un museo assediato dal management e da una sorveglianza digitale invasiva che traccia utenti e preferenze, imponendo la monetarizzazione come asset principale dell’istituzione. Ora: pensare che l’attuale regime del capitale possa garantire libertà d’espressione o ricerca e libertà culturale mi pare l’aspetto perverso di questa nuova visione. In questo senso il libro Artecrazia invece di raccontare uno stato dell’Arte vuole rendere evidente che abbiamo sempre più a che fare con un’Arte di Stato. Naturalmente parlo di questa nuova condizione in cui Stato di diritto e Stato d’eccezione sono ormai indistinguibili.

Khaled Houran, Picasso in Palestine, a cura di Charles Esche, veduta dell’esposizione, 2011.

Sia il regime governamentale dell’Artecrazia che l’artwashing sono termini fortemente impregnati di neo-liberismo; quello artistico (secondo un retaggio modernista, eurocentrico e colonialista, che il concetto stesso di arte promette) non è un campo innocente, ma calato dentro un preciso rapporto sociale, quello del capitale. Così oggi le gerarchie razziali e di genere, come la questione ambientale, stanno al cuore della riproduzione del capitale. Ma non si tratta di una rivendicazione di natura vertenziale o salariale (come accade in molte organizzazioni artistiche oggi): il capitale è una relazione sociale da distruggere, non è qualcosa da migliorare né una ricchezza da ridistribuire in modo più equo. Artecrazia resta ancora la prima contro-investigazione dell’intera sfera artistica e dei suoi segmenti produttivi, ma cosa è cambiato in questi anni rispetto a questa visione?

MS: Credo che soprattutto dopo i due anni che abbiamo passato non ci possiamo più permettere il lusso di essere ridicoli. Bisogna guardare le cose per quello che sono. Il ruolo dell’arte all’interno di questa partita non è solo pericoloso ma esattamente opposto alla sua mission (al suo statuto). Per questo con DeriveApprodi abbiamo deciso di pubblicare una nuova edizione di Artecrazia (che ormai era introvabile) visto che i fatti trattati nella prima edizione si erano moltiplicati sotto e post pandemia. Tutto questo è alla base di un rapporto di dipendenza che scongiura ogni tentativo di autonomia, depotenziando e neutralizzando sempre più la capacità di azione collettiva antagonista.  In sostanza, per la violenza del capitale ogni occasione diventa una risorsa preziosa per mettere a profitto un nuovo piano securitario e un’ennesima strategia di controllo (spietata e pacificata) sulla popolazione. Un piano che attraverso le ragioni della sicurezza e i dispositivi ipermoderni avalla e riproduce nuovi razzismi, sessismi, differenze di classe, servilismi e colonialismi.

Gianni Motti, azione con dei Marines armati, avvenuta all’opening della1st Prague Biennale, nella sezione “Acción Directa. La sfera sociale latino-americana”, curata da Marco Scotini, nel 2003.

Nessun dubbio che l’espansione dell’arte contemporanea abbia non solo accompagnato, ma promosso e legittimato culturalmente, la globalizzazione. Nessun dubbio che i musei e le istituzioni dell’arte siano diventate palestre neo-liberali (sul modello delle imprese), prive di asperità e contrasti e che, in quanto tali, abbiano rinunciato alla sperimentazione, all’imprevisto e al proprio futuro. La moltiplicazione esponenziale di mostre e biennali che sfruttano temi come l’ecologia, il genere, ed ora la questione razziale, quale vetrina dell’emancipazione liberale va letta nei termini di un processo di pacificazione (anti-conflittuale) e di autoassoluzione (artwashing) che tende solo a riaffermare l’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale alla riproduzione delle gerarchie sociali, al mantenimento dell’ordine, alla stabilizzazione delle relazioni di potere: “Artecrazia” appunto.

Igor Grubic, 366 Liberation Rituals (Bicycle and Flag), 2008. Courtesy Laveronica Arte Contemporanea, Modica.

Hai spesso sostenuto la pressoché totale assenza di criticabilità, nel dibattito e nell’ordine del discorso pubblico, nella stampa, nelle dichiarazioni e nelle produzioni sia artistiche che teoriche delle diverse comparse del sistema, complice la dilagante banalizzazione dei social e l’annullamento di pensiero critico, operano senza intaccare minimamente il soggetto storico che ha avuto, e che ha tuttora, il potere di raccontare. Come aprire spazi antagonisti senza funzionare secondo una compatibilità e una logica capitalistica? E come riattivare uno spazio della critica? Qui è anche l’urgenza di una riflessione politica…

MS: Le azioni della criticabilità delle cose sono cadute: il fatto che una cosa o un evento possano essere sottoposti a critica non fa più parte del nostro orizzonte di pensiero. È come se l’automatismo e il funzionamento impersonale delle nuove tecnologie digitali avessero fatto passare un altrettanto automatico funzionamento delle norme sociali in cui non riesci a vedere il nemico o il sovrano. La prospettiva “esodante” di qualche anno fa – e di cui anch’io ho fatto parte – non intendeva però liquidare la critica. All’opposto, ne proponeva un’altra versione: affermativa, fattuale, alternativa. Se non ci piace una cosa ne facciamo un’altra: questa era la sostanza e presupponeva però un campo potenziale d’azione che oggi ci è stato totalmente sottratto dai nuovi autoritarismi. Dunque non ci resta altro che tornare a coltivare il dubbio, il sospetto, la critica. L’abbandono dell’analisi marxiana lo stiamo pagando quotidianamente, sulla nostra pelle, con l’ampliamento delle disuguaglianze, il lavoro servile, la riduzione di temi politici a pattern decorativi. Al populismo di sinistra che si rifiuta di nominare il nemico fa da contraltare l’ostracismo indignato della cancel culture. Ma in entrambi la critica rimane assente. Con il libro ho provato non solo ad analizzare le tecniche di governo dell’Artecrazia ma anche le possibili sottrazioni al suo regime. Enumerarle qui sarebbe lungo.

Diagramma di Cem Dinlenmiş per Disobedience Archive (The Park), a cura di Marco Scotini, SALT Beyoğlu, Istanbul, 2014.

È nelle pagine di Artecrazia che hai enunciato come disamina analitico-politica il ruolo dell’arte contemporanea tra i principali global player nell’assetto economico neoliberista, su cosa intendiamo quando parliamo di “arte” in termini di accelerazione conservatrice (salvataggio dell’economia capitalistica; nuove forme di estrazione del valore; intensificazione delle disuguaglianze e delle asimmetrie di genere, razza e soprattutto di classe; smantellamento dei diritti e coercizione forzata al lavoro gratuito; distribuzione parossistica della ricchezza, ecc.). Una vera palestra neoliberale di cui svelare il lato occulto della macchina espositiva: asimmetria informativa tra addetti ai lavori e pubblici addomesticati; presenza di conflitti di interesse tra soggetti che svolgono diversi ruoli e che originano insider trading, aggiotaggio, azioni di concerto, ammesse in asta. Alleanze politiche, economiche e finanziarie abilmente nascoste e con grande destrezza. In questa (presunta) fase post-pandemica, in quali forme si è trasformato il rapporto tra arte e finanziarizzazione che per primo hai denunciato?

MS: Chi gestisce ormai il sistema dell’arte è l’alleanza forte tra finanziarizzazione e securizzazione. Dove si possa trovare una istituzione ancora in grado di garantire ricerca e sperimentazione lo vorrei chiedere ai miei colleghi che vedono in questo regime il trionfo del curatore e della libertà d’espressione. Ma forse la loro risposta sarebbe lo sciocchezzaio che ha riempito il vuoto espositivo degli ultimi due anni. Non-Fungible Token, digitalizzazione dei mercati, forum online e così via: sarebbe questa la novità?

Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, direttore della Haus der Kulturen der Welt (HKW), Berlino, 2021.

Elvira Dyangani Ose, direttrice del Museu d’Art Contemporani de Barcelona (MACBA), 2021.

Rispetto alla prima edizione del 2016, il sistema-mondo è profondamente mutato e negli ultimi anni gli scioperi dell’ondata femminista transnazionale hanno attaccato un aspetto centrale del sistema capitalistico: la divisione sessuale e razzializzata del lavoro, la centralità del lavoro riproduttivo e la politicizzazione della cura, che già facevano parte del vocabolario femminista. Come sono cambiate le lotte dopo il ciclo di Occupy che era entrato nel mondo artistico e con quali effetti? Inoltre: “Come possiamo curare la ferita coloniale? – dice Alpha Konarè, presidente del Mali e dell’ICOM – Bisogna uccidere il museo”. Forse, oggi, la critica istituzionale, che pure attraversa tutti i tuoi testi, non basta più se pensiamo all’attuale configurazione patriarcale, razzista e coloniale che è emersa con forza in questi anni (oltre alla soggettivazione neo-liberale che hai analizzato). Come si rompe l’Artecrazia e quali vie di fuga proponi? Fino a quando rimarranno le attuali condizioni capitalistiche, quale azione culturale sarà ancora possibile?

MS: Sono e non-sono d’accordo con te su questo. Tanto la messa in crisi del sistema patriarcale che di quello coloniale (o neocoloniale) sono giustamente al centro dell’attenzione in questo momento e credo di aver dato il mio contributo (per quanto limitato) anche in questo ambito – alcuni testi in tema sono in Artecrazia. Ho però paura (una sorta di segreto terrore) che tutto ciò continui a funzionare come dispositivo esotico all’interno dell’apparato. Se i fashion show devono essere i portavoce di un discorso emancipativo sul genere o se la nomina simultanea di Bonaventure Soh Bejeng Ndikung alla direzione dell’Haus der Kulturen der Welt e di Elvyra Dyangani Ose al Macba devono essere il segno del repair coloniale, il passo avanti è illusorio. Né più né meno che rivendicare che Cecilia Alemani sia la prima donna italiana alla guida della Biennale di Venezia. Non è che non mi voglio allontanare dalla critica al soggetto neoliberale ma credo che proprio lì stia il vero problema: quello di una nuova lotta di classe. Muovere una critica a questo soggetto significa anche scontrarsi con gli altri due. Invece sembra che lavorare sul femminismo o sull’ ex-colonizzato ci faccia perdere di vista ciò che realmente siamo, conducendoci ad un’altra latitudine, in un altro emisfero. Ha ragione Silvia Federici quando afferma nel suo Marx e il femminismo: “il metodo marxiano del materialismo storico, secondo cui per capire la storia e la società dobbiamo comprendere le condizioni materiali della riproduzione sociale, risulta cruciale per il discorso femminista”. Altrimenti si fa metafisica della mescolanza e la si spaccia per ecologia, in momenti di drammatica contraddizione.

Il collettivo Claire Fontaine per la sfilata di Dior Autunno Inverno 2020 2021.

Si hai ragione, la cooptazione capitalistica delle differenze agisce oggi con incredibile velocità e rapacità nei territori dell’arte, accompagnata da nuove retoriche e dispositivi di estrazione del valore: insomma il mondo artistico non ha resistito al richiamo delle “differenze del capitale”, quindi assistiamo a continue forme di cattura di linguaggi e immaginari di rottura che vengono sussunti e totalmente depotenziati: il genere, la razza, l’ecologia e la radicalità politica, dentro circuiti artistici ad alta visibilità. Ruoli, funzioni creative ed enunciazioni, non solo non sfuggono alla valorizzazione capitalistica ma, al contrario, è proprio dentro il campo dell’estetico, che si rivelano elementi di grande attrattività senza i quali la logica del capitale non potrebbe darsi con la stessa efficacia e ricorsività. Quindi femminismo, questione ecologia e ora anche razziale messe a soggetto mentre permane il regime dell’Artecrazia e non vengono rovesciate né gerarchie sociali né alcun rapporto di potere. Così, in relazione al principio che i valori di una società sono racchiusi nella cultura che essa valorizza, i musei si sono trovati al centro di accesi dibattiti intorno alla riproduzione dell’ingiustizia. Cosa indica, secondo te, la già citata presenza di Black Lives Matter al primo posto nella power list dei 100 personaggi più potenti del sistema?

Proteste a Minneapolis dopo l’uccisione di George Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020.

Simone Leigh rappresenterà gli Stati Uniti alla Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia del 2022: si tratta della prima volta per una donna afroamericana.

Sicuramente si è tradotta in una maggiore visibilità dell’arte Black, nell’assegnazione di premi e incarichi istituzionali o direzioni museali affidate a persone di colore, come hai detto prima. Assistiamo continuamente al proliferare di processi di inclusione e di rivendicazioni identitarie che però continuano a muoversi sul piano del riconoscimento capitalistico, senza smantellare l’organizzazione gerarchica della società e le sue ingiustizie. Così, in fondo, è il tempo dello schiavismo o della piantagione che sembra riproporsi in una riconfigurazione neo-arcaica e neo-coloniale, insieme a un’accelerazione della potenza delle politiche economiche neoliberiste, da cui si alimenta in modo ricorsivo. BLM è arrivato a simboleggiare una sorta di resa dei conti globale sulla giustizia razziale e un cambiamento di paradigma nella cultura contemporanea. Ma possiamo davvero credere a questo?

MS: Ho più volte affermato che se c’è necessità di una vera e propria ecologia si tratta di una ecologia del possibile. La mancanza di criticabilità delle cose è legata non solo all’attitudine di denunciare o contestare ma soprattutto al fatto che qualcosa d’altro sia possibile e storicamente attuabile. Continuiamo a fare dell’esotismo attraverso ecologia, genere e razza quando siamo tutti felici e concordi nel promuovere una monotecnica (il digitale), un monolinguaggio (l’inglese) e una monocultura (il cosiddetto universalismo). Mentre professiamo una decolonizzazione della natura siamo disposti a rinaturalizzare tutto, escludendo la storia e l’artificio dal nostro discorso. Il problema era e rimane quello di un ampliamento del potere del capitale per cui ogni trasformazione è fuori dal nostro orizzonte che riduce tutto ad un problema di inclusione, a patto che questo non alteri i rapporti di potere esistenti. L’arte, in questo senso, è una sorta di grimaldello che ricrea continuamente l’illusione di una biodiversità da valorizzare ma, allo stesso tempo, è una cartina tornasole per leggere le drammatiche contraddizioni del presente, dove ogni cosa si rovescia nel suo contrario.

Chto Delat/What is to be done?, Angry Sandwich People, 2005.

Artecrazia cerca di rileggere la macchina espositiva lontano da ogni retorica spontaneista e liberatoria: all’interno dei rapporti produttivi l’arte non è più il segno di un “fuori” sociologico ma un terreno, come tutti gli altri, di una nuova lotta di classe. Non credo che sia solo il museo l’oggetto da decostruire e rimontare (con tutto il suo passato compromesso con il retaggio del potere occidentale) ma la stessa nozione di arte, che in un sistema come l’attuale risulta ormai funzionale alla negazione categorica di tutto ciò che promette.

Cover della seconda edizione ampliata di Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, di Marco Scotini, settembre 2021.

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