The specter of yet another turbulent time. In ricordo di Okwui Enwezor

“Qual è la tua urgenza? O quale urgenza muove la tua arte?” ricordo solo la questione e non la circostanza, con cui Okwui Enwezor (Calabar, Nigeria 23 ottobre 1963 – 15 marzo 2019) rivolgeva al pubblico durante una conferenza qualcosa di molto più forte di una domanda: trovare un metodo critico per fare delle scelte e aprire nuove prospettive. Esposizioni, quelle di Enwezor, che hanno costituito un frame, o forse una concatenazione di frame dentro cui le riflessioni teoriche e le analisi storiche si sono costitutivamente delineate, attraversando vari campi discorsivi della mia formazione. A partire dalla scoperta di quella costellazione post-coloniale che era la premessa più forte, e allora per me completamente sconosciuta, posta nel 2002 dal primo direttore non europeo a guidare la kermesse tedesca: la sua nomina era già sorprendente, un curatore di origine nigeriana, anche se naturalizzato americano, intellettuale engagé, teorico e poeta.

Okwui Enwezor, documenta 11, Kassel, 2002.

Una figura carismatica, le cui mostre e biennali memorabili, ammirate e indagate come significativi paradigmi di conoscenza dentro il sistema espositivo contemporaneo, hanno segnato la storia dell’arte e della cultura attuale, percorrendo criticamente la diffusione di modelli neo-liberali di globalizzazione. Anche per chi non l’ha vista, documenta 11 rimane uno spartiacque nella scena artistica internazionale che ha amplificato, con un impatto senza precedenti, il ruolo politico dell’arte, seppur da un luogo istituzionale, capace di alterare significativamente la nostra visione del mondo, che proprio in quel drammatico 2001, subiva un duro contraccolpo, dopo i fatti di Genova contro il G8, cambiando in modo irreversibile le nostre lotte e le nostre vite.

Già nel 1997, la direzione curatoriale della 2nd Johannesburg Biennale, riconosciuta internazionalmente ma contrastata in Sudafrica con una chiusura anticipata (impedendone la prosecuzione negli anni a venire) nella difficile fase di transizione politica post-apartheid, sotto gli effetti ambivalenti del colonialismo tra Sud Globale e Nuovo Mondo, la visione di Enwezor era molto chiara: “guardare oltre i dati della storia”, contestando la moda di termini come “multiculturalismo”, “postcoloniale” e “globalizzazione” in quanto riprodurrebbero solo relazioni neo-coloniali, per esplorare piuttosto “come gli imperativi economici degli ultimi cinquecento anni abbiano prodotto fusioni culturali resilienti e disgiunzioni”. [i]

Okwui Enwezor e Christopher Till, accompagnano il principe Carlo d’Inghilterra per una visita a Electric Workshop, alla 2nd Johannesburg Biennale, 1997.

Poi The Short Century (2001), in cui la ricostruzione dell’indipendenza e dei movimenti di liberazione in Africa dal 1945 al 1994, decentrava la modernità occidentale e giustapponeva l’arte con le immagini di eventi politici epocali precorrendo potenti vie di fuga: “L’alienazione causata dal colonialismo – sosteneva Enwezor citando V.Y Mudimbe – costituiva la tesi, le ideologie africane dell’alterità (black personality e negritude) l’antitesi, e la liberazione politica la sintesi”. Un altro argomento importante era il ruolo delle formazioni simbolico-discorsive nella creazione del black imaginary e nella genealogia della categoria del blackness, seguendo la ‘necropolitica’ di Achille Mbembe: “la storia della schiavitù e del colonialismo avevano assegnato al termine Nero il significato del nome dello schiavo”. I concetti che ci definiscono (e definiscono l’Altro) non sono fissi ma sono “catene di significanti aperti”. Il mio primo approccio con queste tematiche è stato suscitato e scandito dalla prossimità e l’analisi delle mostre di Enwezor, a partire dall’indimenticabile documenta 11. O come la sua importante esposizione sull’archivio di cui innumerevoli volte ho letto e riletto il testo critico in catalogo. Se l’archivio si trova nella casa di chi comanda, che non sono solo i custodi dei documenti ma anche quelli a cui viene dato “diritto e competenza ermeneutica” (Derrida), il potere è esercitato non solo sugli oggetti custoditi, ma anche sul discorso storico o sul discorso pubblico, così la “febbre d’archivio” che Enwezor metteva in rassegna nel 2008 sottolinea, ancora oggi, un nucleo di ricerca centrale, i cui fantasmi non cessano mai di ri-apparire.

Renee Green, Vogue par Nelson Mandela (Taste Venue), (1994), tratto dal catalogo Trades Routes: History and Geography, della 2nd Johannesburg Biennale, Matthew DeBord (ed.), Greater Johannesburg Metropolitan Council & Prince Claus Fund, Johannesburg e The Hague, 1997, p. 106.

Ma dov’era l’Africa di Enwezor, la diaspora, l’immigrazione e il processo di decolonizzazione, mi chiedevo e cercavo alla 56esima Biennale di Venezia del 2015. Avevo recensito criticamente la sua All the World’s Futures, per Alfabeta2 [Marx nelle strade, non alla biennale!] irritata soprattutto da quel fulcro (teorico e curatoriale) che era stata l’ARENA, una sorta di oratorio (piuttosto un palcoscenico progettato da David Adjaye), teatralizzazione di un’imponente lettura dal vivo, per tutti i sette mesi di apertura della mostra, dei tre libri di Das Kapital senza interruzione e come un’epica (e spettacolare) manifestazione di oralità, con l’animazione successiva di recital teatrali e musicali, assemblee plenarie, canti operai, approfondimenti del Capitale, proiezioni di film e dibattiti. Allora, portare Marx alla Biennale mi appariva come un’insanabile contraddizione, tra le tante ambivalenze del sistema dell’arte che col tempo ho imparato ad accettare. Non tanto il revenant del marxismo quanto il problema della sua eredità e della sua falsificazione nella realtà storica contingente, attraverso il grande dramma della nostra epoca, che Enwezor aveva individuato nel capitale, di cui l’ARENA era indubbiamente una geniale intuizione curatoriale che solo oggi riesco a cogliere.

David Adjaye, ARENA, lettura dal vivo di Das Kapital, All the World’s Futures, a cura di Owui Enwezor, Padiglione centrale, Giardini, 56esima Biennale di Venezia, 2015.

Allora quale poteva essere l’urgenza? Le rivendicazioni di gruppi subordinati pongono problemi politici che consentono un cambio di prospettiva nel campo delle pratiche artistiche ed espositive, per “formalizzare l’emergenza di nuove posizioni e capire i cambiamenti nelle placche tettoniche che sono il terreno della cultura. È interessante chiedersi non perché le esposizioni tematiche collettive abbiano assunto tali possibilità, ma in che modo possiamo cominciare a romperle”. [ii]

Nella maggior parte degli interventi in materia di esposizioni su scala globale oggi – secondo Catherine David – quello che viene implicitamente o esplicitamente messo in discussione è il limite del concetto e della forma tradizionale di mostra. La sfida delle pratiche contemporanee è di non essere più conformi alle tre unità classiche della modernità: unità di tempo, di spazio e di narrazione [iii]. La decima edizione di documenta è stata la prima «manifestation culturelle» dopo la fine della Guerra Fredda che ha inscenato il conflitto della rappresentazione nella frantumazione e pluralità dei format espostivi: catalogo, città, museo e 100 Days/100 Guests (a cui Okwui Enwezor aveva preso parte raccontando l’esperienza di Johannesburg). Interrogare l’istituzione e introdurre nuove categorie della critica e del discorso politico, per articolare una posizione teorica in un momento contingente della storia, riattualizzando la società dello spettacolo alla luce di un neosituazionismo postdebordiano e delle contestazioni del ’68. Politics/Poetics ridefiniva il contesto di economia politica dell’arte alla fine del XX secolo con una mostra-laboratorio come “stato d’agitazione” e una monumentale piattaforma discorsiva. Una struttura espositiva (Retroperspectives) come macchina del tempo orientata a un’ontologia del presente, insieme all’inclusione di lavori di natura interdisciplinare ma soprattutto la persistente integrazione di elementi discorsivi: la piattaforma dei 100 Days-100 Guests sarà un modello dichiarato per le Platforms di Enwezor.

Okwui Enwezor, schema delle Platforms, tratto dal catalogo Archive in motion/Discrete Energies, Michael Glasmeier, Karin Stengel (eds.), Kassel, Kunsthalle Fridericianum, Steidl, Göttingen, 2005.

Le necessità di espandere il campo dell’arte contemporanea al di fuori dei global network attivati dalle biennali, nello specifico campo di forze in cui sono localizzate, sarà alla base della struttura curatoriale di documenta 11; il modello delle Platforms, di carattere teorico, come le definiva “intellettualmente rigorose e metodologicamente avventurose”, disseminate per il mondo, culmineranno nell’esposizione a Kassel, che sarà a sua volta “uno strumento di conoscenza e di ricerca, non di semplice presentazione dell’arte contemporanea”.

Le quattro transoceaniche Platforms dovevano espandere temporalmente, geograficamente e concettualmente la stessa documenta, erano state strutturate come discussioni tematiche di natura politica, antropologica e sociale, i cui risultati hanno fornito le premesse della Platform 5, la mostra conclusiva e il cuore dell’istituzione tedesca, stabilendone quali sarebbero stati i punti cardine: mondialismo, creolizzazione, globalismo, post-colonialismo, gender, alterità, migrazioni, diaspora, eurocentrismo, democrazia e totalitarismi: “documenta 11 is based on five platform that try to describe the present location of culture and its interfaces with other complex global system of knowledge”. [iv]

L’impianto curatoriale delle Platforms delocalizzava la mostra su scala planetaria e intercontinentale – parteciparono tra i più influenti pensatori, ricercatori, studiosi del discorso politico, sociale e antropologico, filmakers e artisti – centrando problematiche contingenti attraverso conferenze, simposi, workshop internazionali, nelle più lontane e diverse parti del mondo, perchè “Art is knowledge production” per Enwezor. Iniziate in Europa, seguirono New Delhi, St. Lucia, Lagos, per poi ritornare a Kassel, tanto che l’esposizione è stata l’epilogo di una serrata ricerca già avviata con la Platform 1, tenutasi tra marzo e ottobre 2001 a Vienna e Berlino, intitolata Democracy Unrealized, a cui partecipò, tra gli altri Homi K. Bhabha, sottolineando la storica fragilità di regimi politici rappresentativi. La democrazia in quanto processo incompleto è un sistema istituzionale e un movimento sociale, alcune esplicitazioni concettuali che la definiscono, superano l’egemonia dell’ordinamento occidentale, attraverso una capacità di immaginazione politica transnazionale.

I rivolgimenti epocali, gli studi coloniali e postcoloniali che relativizzano i confini, la difficoltà dell’arte di porsi come soggetto di riferimento nelle crisi culturali del presente, rispetto all’industria creativa e al lavoro cognitivo, sono investigati attraverso dispositivi di pensiero che hanno consentito si avvicinare teoricamente il problema.

La seconda Platform 2, Experiments with truth: transitional justice and the processes of truth and riconciliation, si svolse nel maggio 2001 a New Dehli, la Platform 3 nel gennaio 2002 a St. Lucia, dal titolo Créolité and Creolization; la Platform 4 nel marzo 2002 a Lagos, esplicitamente dedicata all’insorgenza del mondo culturale africano e del dibattito postcoloniale: Under siege: four african cities – Freetown, Johannesburg, Kinshasa, Lagos, fino alla quinta e ultima Platform 5 costituita dall’esposizione a Kassel.

Enwezor lanciava un appello alla complessità, con la necessità di espandere il campo della cultura visuale, di allargare gli orizzonti della discussione critica all’interno del dibattito sull’arte: “A Vienna non avremmo potuto predire che in sei mesi la situazione politica mondiale si sarebbe trasformata in modo così accelerato e drammatico; in fondo, però, non credo che la situazione sia cambiata sostanzialmente dopo quelle immagini apocalittiche del World Trade Center di New York: l’urgenza di riflettere sul concetto di democrazia, di agire, e di sollevare questioni per aprire uno spazio di pensiero differente c’era allora, come adesso…”

Solo la discorsività e l’impegno intellettuale possono rovesciare e minare l’illusione di autonomia della sfera artistica: bisognava deterritorializzare la mostra e connetterla con il resto del mondo fuori dal museo. Questo era stato il vero significato delle Platforms, e la mostra andava interpretata alla luce delle considerazioni teoriche emerse e non come loro semplice e conseguente illustrazione.

Le Platforms transnazionali non riguardano esclusivamente il mondo dell’arte e i suoi contenuti, ma un processo discorsivo per mettere a fuoco le condizioni culturali, politiche ed economiche della vita nel mondo postcoloniale; indipendenti rispetto al progetto complessivo, hanno dimostrato come l’esperienza estetica sia un’attività intellettuale che riflette le contraddizioni del nostro tempo, che attiva un nuovo sistema di circolazione della conoscenza in grado di interrogare e mettere in questione la realtà, connettere la produzione artistica con indagini sociali, riflessive, etiche.

In accordo con Wolfgang Lenk, documenta 11 è concepita come la conclusione di una serie di dibattiti pubblici sull’analisi teorica e storica della costellazione postcoloniale [v].

“Il postcoloniale oggi – secondo Enwezor – è un mondo di prossimità. É un mondo di vicinanza, non un altrove. Malgrado il suo stato perenne di contestazione e la mancanza di norme (anomia), caos e insostenibilità, è piuttosto uno spazio da cui emergono culture sperimentali, si articolano modalità che definiscono un nuovo significato e un nuovo sistema di produzione della memoria nella tarda modernità”.[vi]

e ancora:

“Non è necessario avvicinarsi all’esposizione con un approccio oppositivo, ma attraverso una modalità riflessiva e diagnostica dei numerosi contesti da cui l’arte, disobbedendo a tutti gli ordini, va avanti e si articola in una rivolta silenziosa che è difficile da assimilare e tuttavia, in modo del tutto naturale, rientra in certi paradigmi di lunga data dell’arte critica”. [vii]

Okwui Enwezor intercettava e registrava così un cambiamento e una sfida coraggiosi rispetto alla storia stessa di documenta, e non solo, come il lascito più significativo di una carriera critico-artistica fulminante:

“La sfera pubblica del gesto espositivo, implicito nella formazione storica di Documenta, in cui l’arte diventa un modello di rappresentazione e narrativa di soggettività autonome, è riadattata come una nuova comprensione del dominio discorsivo piuttosto che di quello museologico”. [viii]

 

Elvira Vannini

L’immagine di copertina ritrae Okwui Enwezor con Coco Fusco invitata alla 2nd Johannesburg Biennale del 1997.

Il titolo “the specter of yet another turbolent time” è ripreso da un passaggio del testo critico di Enwezor per documenta 11, ampiamente citato, The Black Box (2002).

Okwui Enwezor, Venezia, 2015.

note:

[i] Okwui Enwezor, “Introduction – Travel Notes: Living, Working, and Travelling in a Restless World”, Trades Routes: History and Geography, catalogo della 2nd Johannesburg Biennale, Matthew DeBord (ed.) Greater Johannesburg Metropolitan Council & Prince Claus Fund: Johannesburg and The Hague, 1997, page 7 – 9.

[ii] Okwui Enwezor, “Okwui Enwezor interviewed by Paul O’Neil”, in Paul O’Neill, Curating Subject, Open Editions, London, 2007, pp.112.

[iii] Catherine David in Tim Griffin, Global tendencies. Globalism and Large-Scale Exhibitions, Panel discussion with James Meyer, Francesco Bonami, Martha Rosler, Okwui Enwezor, Yinka Shonibare e Catherine David, in “Art Forum”, Novembre 2003, pp. 152-163.

[iv] La complessità geografica dei temi dell’undicesima edizione, rispecchiava la natura multiculturale del team curatoriale dal background differente – composto da Carlos Basualdo, Susanne Ghez, Sarat Maharaj, Ute Meta Bauer, Octavio Zaya e Mark Nash, che hanno affiancato Okwui Enwezor nel suo mandato per Documenta.

[v] “The documenta 11 exhibition is conceived as the conclusion of a series of public debates on the historical and theoretical analysis of the postcolonial constellation.”, Wolfgang Lenk, “The First Postcolonial Documenta”, in Michael Glasmeier, Karin Stengel, Archive in motion/Discrete Energies, catalogo della mostra, Kassel, Kunsthalle Fridericianum, Steidl, Göttingen, 2005, p. 376.

[vi] Okwui Enwezor, “The Black Box”, in Documenta 11_Platform 5, catalogo della mostra, Hatje Cantz Publishers, 2002, p.44.

[vii] Okwui Enwezor, “The Black Box”, op.cit., p.45.

[viii]  Okwui Enwezor, “The Black Box”, op.cit., p.54.

 

 

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