Bert Theis e gli eredi illegittimi dei Situazionisti

Il sub-curatore Bert Theis, tra le soggettività plurali e insubordinate dei molteplici ruoli che ha rivestito – prima di tutto artista e militante, infaticabile organizzatore e intellettuale, pedagogo e docente, inflessibile filosofo e ironico utopista – aveva coniato un efficace inventario di termini critici, dei veri e propri concetti politici, per dare tensione e creatività alle narrazioni e ai focolai d’enunciazione dei conflitti in atto: audience-specific, dirty cube, dispersed center e soprattutto fight-specific che deterritorializzavano l’arte dai suoi luoghi abituali, attraverso un processo di soggettivazione che è, ancora oggi, una delle più potenti pratiche istituenti, critiche e molecolari che abbia mai intercettato.

L’arte si impegna in una lotta precisa e non si limita ad illustrarla o rappresentarla. L’arte può essere costitutivamente una questione di collocamento e “contrapposizione” antagonista, tesa a fornire quel grimaldello indispensabile per rovesciarsi in contro-soggettività. Da Bert Theis – che sapeva sempre dove posizionarsi nella lotta, laddove altri sono costretti alla scelta – ho imparato a cogliere la complicità, non sempre inconsapevole, di questa “obbediente” macchina governamentale che è il sistema artistico, con la sussunzione (in molti casi) di un tipo di arte che contribuisce a consolidare l’economia creativa. Una grande retrospettiva museale, intitolata Building Philosophy – Cultivating Utopia, presso il Mudam Luxembourg – Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean sarà dedicata all’amico Bert Theis(1952-2016). Quando una genealogia politica dell’arte – o dell’arte politica – sarà finalmente scritta Bert Theis sarà dentro questa storia.

Il testo che segue Eredi illegittimi dei Situazionisti è uno degli scritti più significativi di Bert pubblicato nel 2012 in I Siuazionisti nella città, a cura di Tiziana Villani per Millepiani | Urban, esito del Convegno Internazionale franco-italiano svoltosi il 29 aprile 2011 a l’Ecole Nationale Supérieure d’Architecture de Paris La Villette di Parigi.

out – Office for Urban Transformation, La Stecca degli Artigiani, Milano 2002-2010.

Eredi illegittimi del Situazionismo

Quarant’anni dopo la dissoluzione dell’Internazionale Situazionista la società dello spettacolo è sempre dominante e fortemente evoluta. Oggi attivisti e artisti continuano a porsi la domanda di come combatterla, come uscirne. Il nostro [i] interesse per la teoria e la prassi dei situazionisti non è quello di esperti, né di critici o storici d’arte, né quello di esegeti. Ci sentiamo “eredi illegittimi” dei situazionisti e il nostro interesse per la loro teoria e la loro prassi è generato dalla nostra propria ricerca e prassi, in quanto abitanti della città, artisti ed attivisti.

In breve: i situazionisti ci interessano, perché vorremo capire quale delle loro scoperte possono essere degli strumenti utili ancora oggi. Nel nostro caso il terreno di verifica è il conflitto urbano attorno al quartiere Isola di Milano, che sta subendo un progetto di sviluppo neo-liberale, portato avanti dalla destra berlusconiana e populista, insieme a degli immobiliaristi americani e italiani potenti, e con il consenso del centrosinistra.

Nel corso dell’ultimo decennio Isola Art Center e out-ufficio per la trasformazione urbana si sono più volte confrontati con i concetti situazionisti [ii], e forse non è un caso che l’ultima mostra che abbiamo potuto organizzare nella ex-fabbrica occupata della Stecca degli artigiani prima dello sgombero, avesse come titolo Situazionisola.

Occorre delucidare alcuni punti che ci uniscono ai situazionisti, o che ci separano di loro. Bisognerà tener conto del fatto che nei quindici anni di storia dell’Internazionale Situazionista (1957-1972) la teoria e la pratica non si presentano come un blocco monolitico. Alcuni concetti sono abbastanza fissi e altri evolvono dopo l’espulsione delle correnti artistiche, forti sopratutto nella sezione italiana, olandese e tedesca. In più, come rileva Gianfranco Marelli: “Pure, anche in questi ambiti prettamente artistici, la démarche situazionista paga lo scotto di essere un’organizzazione che non possiede una progettualità comune a tutti i suoi militanti, che – anzi- dimostrano di avere differenti interpretazioni e valutazioni attorno ai concetti chiave della propria teoria, come il concetto stesso di Urbanistica Unitaria, deriva, costruzione di situazioni…” [iii]

Bert Theis, Lieber 10 Palmen als 1000 Eichen, 2005, Isola, Milano.

L’Internazionale

La forma di organizzazione internazionale scelta dai lettristi e poi dai situazionisti rimane attuale. Il motivo non è tanto la tradizione o la nostalgia, ma la necessità pratica. L’accumulazione del capitale è un processo internazionale e la globalizzazione ci ricorda ogni giorno questo fatto, oggi più tangibile che non nel tempo dei sitazionisti. Una realtà nazionale o locale può soltanto essere capita e cambiata tenendo conto delle dinamiche internazionali. Questo ci avvicina a delle persone di paesi più o meno lontani. L’artista Dan Perjovschi di Bucarest ci conferma che nella sua città gli immobiliaristi agiscono allo stesso modo che a Milano. La multinazione texana Hines che costruisce nel quartiere Isola a Milano costruisce anche in un quartiere popolare a Danzica in Polonia, dove gli abitanti si oppongono con lo slogan “Fuck the Towers!”. La ricerca di alternative politiche, le ricerche teoriche e le ricerche artistiche sono oggi delle pratiche internazionali. Possono certo articolarsi nazionalmente e localmente, ma la cornice dell’analisi non può essere che internazionale. Nel campo della lotta urbana abbiamo stretto dei contatti con gruppi e collettivi affini: ad Amburgo con Park Fiction, a Vilnius con Pro-test Lab, a Parigi con Atelier d’Architecture Autogérée, a Londra con Public Works e a Zurigo con il filosofo Gerald Raunig. A parte questa collaborazione continua, lavoriamo in modo più sporadico con artisti argentini, turchi, albanesi, tedeschi o russi. Una collaborazione più stretta o un coordinamento internazionale dovrebbe nascere da esperienze concrete e da convergenze.

La critica dell’urbanistica

“L’urbanistica è quell’atto di impadronirsi dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo che, sviluppandosi logicamente come dominazione assoluta, può e deve oggi risistemare la totalità dello spazio come il suo decoro”, scrive Debord [iv]. E Raoul Vaneigem aggiunge: “Come public-relation, l’urbanistica ideale è la proiezione nello spazio della gerarchia sociale senza conflitto. Strade, prati all’inglese, fiori naturali e foreste artificiali lubrificano gli ingranaggi della soggezione, la rendono amabile” [v]. Nella sostanza nulla è cambiato fino ad oggi. La frase di Vaneigem potrebbe essere usata per descrivere la simulazione del paesaggio attorno alle torri alberate del “Bosco Verticale” di Stefano Boeri costruite sulle macerie della “Stecca degli artigiani” che avevamo occupato. Mentre i situazionisti dedicavano gran parte della loro critica alla città costruita in funzione dell’automobile e all’edilizia popolare come strumento di separazione e di dominazione, noi stiamo subendo un fenomeno più recente che affligge le metropoli: la gentrificazione. Il quartiere post-industriale nel quale lavoriamo affronta la violenza di una trasformazione urbana che spinge i più deboli fuori per fare spazio ad abitazioni e negozi di lusso, combinati con uffici di standard elevato. Negli ultimi anni i prezzi delle case sono quadruplicati nel quartiere Isola. Il simbolo di questo processo è la trasformazione dell’ex-sede cittadina del partito comunista “il botteghino” di via Volturno 33 in una torre di abitazioni di lusso. Saskia Sassen ha riassunto la situazione con poche parole: “L’innalzamento sociale di un quartiere portato all’estremo, come mi sembra stia accadendo con l’intervento urbano in questione, inserisce appunto una certa politica nello spazio urbano: troppo dislocamento, troppo potere che spinge i più deboli fuori. E questo farà nascere una reazione altrettanto politica.” [vi]

Combattere la gentrificazione è una lotta difficile. In un primo tempo serve la divulgazione di questo meccanismo di lotta di classe territoriale dall’alto che in Italia viene analizzato con ritardo. Un modello di opposizione potrebbe essere il movimento “Recht auf Stadt” (diritto alla città) di Amburgo, con cui siamo in contatto attraverso Park Fiction. [vii]

Rimaflow, 2016, Bert Theis e Mariette Schiltz, Angelo Castucci, Duccio Scotini, Paolo Caffoni.

Essere all’avanguardia o essere al centro di un movimento sociale?

A questa domanda strategica diamo chiaramente una risposta diversa da quella dei situazionisti. La causa di questa divergenza è forse il fatto che abbiamo un approccio meno apocalittico al mondo. Nel 1972 Guy Debord e Gianfranco Sanguinetti scrivono nelle Tesi sull’internazionale Situazionista e il suo tempo che il “crollo di un mondo” è cominciato, che la nuova epoca è “profondamente rivoluzionaria” e che “a tutti livelli non si può e non si vuole più andare avanti come prima.” [viii] Dalla convinzione della rivoluzione immanente si deduce il ruolo avanguardista rivendicato dai situazionisti. Mezzo secolo dopo, bisogna prendere atto che non è il vecchio mondo capitalista ad essere crollato, ma l’Internazionale Situazionista.

Il concetto leninista di avanguardia presa dal vocabolario militare oggi è messo in discussione addirittura nelle organizzazioni e nei movimenti rivoluzionari. Non ci consideriamo un’avanguardia, ma piuttosto parte di un vasto movimento sociale che si sta costruendo in un processo ineguale e combinato. Il nostro obiettivo non è diventare “una Cospirazione degli Eguali, uno stato maggiore che non vuole le truppe.” [ix] Le nostre forme di organizzazione per intervenire nel conflitto sociale che determina la trasformazione della città, Isola Art Center e out possono essere definite come piattaforme aperte, prive di settarismo. Non abbiamo molto da insegnare, ma molto da imparare nelle lotte. La nostra intenzione è di mantenere e rendere fertile l’unione di artisti e attivisti rifiutando la creazione di un’organizzazione “iper-politica.” [x]

Una delle parole d’ordine centrali dell’organizzazione “iper-politica” situazionista era “Tutto il potere ai consigli operai!”, ma la loro base sociale e il loro pubblico erano composti da artisti, intellettuali e studenti. Formavano un’avanguardia di teorici e attivisti tagliati fuori dalla massa dei lavoratori. Per risolvere questa contraddizione, non hanno deciso di entrare nel mondo operaio come altre formazioni dell’estrema sinistra in quel momento. Invece hanno ridotto la loro funzione alla preparazione di un’ipotetica ‘grande serata’ della rivoluzione: “Noi organizziamo solo il detonatore: l’esplosione libera dovrà sfuggirci definitivamente, e sfuggire a qualsiasi altro controllo”. [xi]

Ci sembra corretto affermare che ci vuole un processo rivoluzionario permanente a livello planetario per cambiare il mondo e la vita, però è anche vero che bisogna inventare in ogni epoca collettivamente i modi per arrivarci. Alla base di ogni rivoluzione c’è l’auto-organizzazione delle masse in comitati di lotta che possono prendere nomi diversi. In seguito questi nuovi organismi possono imporsi sulla scena politica come contro-potere di una democrazia diretta. L’auto-organizzazione non si limita alla sfera produttiva con i consigli operai, (che oggi chiameremo piuttosto consigli dei lavoratori pensando a includere impiegati e precari), ma anche nei luoghi di studio, nei luoghi della vita e nei quartieri popolari. Durante le recenti rivoluzioni in Tunisia e in Egitto sono nati comitati popolari di difesa della rivoluzione che hanno la loro origine nei comitati di difesa a dei quartieri. Il nostro lavoro nei quartieri si focalizza sulla preparazione a far emergere questo tipo di strutture.

Rimaflow aprile 2016 durante l’installazione.

Che fare con l’arte?

L’analisi situazionista della società capitalista e delle società dell’est temporaneamente sottratte al capitalismo è pertinente, e lo rimane, anche se oggi sappiamo che certe previsioni e deduzioni erano sbagliate. Come un filo rosso quest’analisi di matrice marxista si sviluppa dal Rapport sur la construction des situations del 1957 alla Società dello spettacolo del 1966 alle Tesi sull’Internationale Situazionista e il suo tempo del 1972. Rimangono attuali anche i concetti d’analisi più specifici come quello dello spettacolo, della dominazione della merce, della separazione, dell’alienazione, della critica della vita quotidiana e alcuni concetti di azione come ad esempio l’urbanistica unitaria…

Come artisti e attivisti dobbiamo porci una domanda essenziale, che era anche fondamentale per i situazionisti: Quali sono le premesse per il lavoro degli artisti nella società capitalista? L’arte fa parte dello “spettacolo”, è un “interstizio sociale” o permette la “realizzazione della filosofia”? È possibile affermare che i sistemi dell’arte con i loro produttori (artisti, critici, curatori), le loro istituzioni pubbliche (musei, centri d’arte, biennali, grandi mostre internazionali, progetti di Public Art, accademie), le loro istituzioni private (gallerie, fiere, aste, collezionisti, riviste d’arte) formano un “interstizio sociale” dove prevale una logica diversa, o alternativa alle leggi della società capitalista come sembra sostenere Nicolas Bourriaud nel suo libro “Estetica relazionale” [xii] che ha fatto furore nel mondo dell’arte. O è vero che questi sistemi funzionano con le stesse logiche e sono parte integrante della società capitalista?

Bourriaud scrive: “Per noi, aldilà del suo carattere mercantile o del suo valore semantico, l’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale. Il termine d’interstizio fu utilizzato da Karl Marx per qualificare delle comunità di scambi che sfuggono all’economia capitalista, perché sottratti alla legge del profitto: baratto, vendite a perdita, relazioni umane (…) suggeriscono altre possibilità di scambio che quelle in vigore nel sistema. Tale è precisamente la natura della mostra d’arte contemporanea nel campo del commercio delle rappresentazioni: crea degli spazi liberi, delle durate con dei ritmi che si oppongono a quelli che strutturano la vita quotidiana, favorisce un commercio inter-umano diverso dalle “zone di comunicazione” che ci sono imposte.”

Bert Theis, Lieber 10 Palmen als 1000 Eichen, 2005, Isola, Milano, Architecture of change, curata da Marco Scotini.

I situazionisti non credono a questi spazi liberi perché “la maggior parte degli artisti di oggi non può naturalmente superare la contraddizione che esiste tra il loro posto effettivo nella produzione, il posto che a loro è riconosciuto, e la ricerca concreta di un posto interamente nuovo di un nuovo mestiere mettendo in pratica l’idea di una sperimentazione totale.” [xiii] I sitazionisti partono dalla premessa marxista che viviamo in una società di classe dove il proletariato e la borghesia si affrontano. Vogliono cambiare questa società con una rivoluzione proletaria e pensano che questa sia immanente. Secondo loro il compito dell’arte “vera” è di preparare e di far scattare la rivoluzione. In questo processo è necessario “negare l’arte per realizzarla” in modo dialettico, perché in realtà alla fine è il proletariato che deve realizzare l’arte. “Il comunismo realizzato sarà l’opera d’arte trasformata in totalità della vita quotidiana …” [xiv]

Per Bourriaud la società capitalista non è un ostacolo per la sperimentazione dell’arte, mentre per i situazionisti la realizzazione dell’arte passa per forza attraverso il cambiamento della società e della vita quotidiana. Bourriaud scrive: “Contrariamente a ciò che pensava Debord, che vedeva nel mondo dell’arte nient’altro che un contenitore di esempi che bisognava “realizzare” concretamente nella vita quotidiana, la pratica artistica appare oggi come un terreno ricco di sperimentazioni sociali, come uno spazio in parte preservato dall’uniformazione dei comportamenti. Le opere delle quali si parlerà qui disegnano tante utopie di prossimità.” [xv] Buona parte degli artisti che Bourriaud cita come esempi di un nuovo approccio “relazionale” alla produzione dell’arte sono oggi tra i più quotati del mercato. E ad una buona parte di queste opere “relazionali” si potrebbe applicare l’osservazione di Debord “che apparentemente si tratta di un tentativo di dialogo, di incontro sociale in un epoca dove l’ambiente urbano atomizza sempre di più gli individui. Ma questo tentativo è in realtà la negazione del dialogo, perché le persone sono riunite la per decidere di un bel niente; per discutere sotto un pretesto sbagliato, con dei mezzi sbagliati” [xvi]

Per i situazionisti il rapporto dialettico tra le ricerche artistiche e la trasformazione della società è un problema più rilevante. Jorn scrive che il valore artistico rappresenta “il contrario del valore utilitario (chiamato materiale)”, che è un “valore progressivo perché corrisponde alla valorizzazione dell’uomo stesso, attraverso un processo di provocazione.” [xvii] Il problema nasce dal fatto che i sistemi dell’arte sono molto abili a trasformare ogni scoperta, anche la più radicale, in una merce, e così a ricuperarla. Questa capacità è uno dei meccanismi chiave del capitalismo, che trasforma tutto ciò che può, anche i libri anti-capitalisti, in una merce.

Invece di lavorare alle contraddizioni della produzione d’arte, che per forza diventa una merce potenziale nel sistema capitalista, i situazionisti hanno preferito eliminare semplicemente il problema escludendo gli artisti. Togliendo l’antitesi artistica dell’“iper-politico”, la tensione muore e la dialettica si ferma. L’unico artista che rimane fino alla fine dell’Internazionale è Guy Debord.

Una storia un po’ ingenua illustra il problema: nel laboratorio sperimentale d’Alba in Liguria, Pinot Gallizio aveva sviluppato insieme a Giors Melanotte la “pittura industriale”. A maggio 1959 presentano alla Galerie Drouin di Parigi “la caverna dell’antimateria”, una specie di tenda creata con tre tele immense, profumata con delle resine a base di erbe e illuminata in modo particolare. La mostra fu un sucesso di pubblico però “Al primo choc fece subito seguito il processo di reintegrazione di questa esperienza estetica nel campo del mercato dell’arte, grazie all’acquisto delle tele di Gallizio al pari di qualsiasi altra opera artistica, e ben poco valse il tentativo situazionista di aumentare il prezzo di vendita (da 10.000 a 40.000 lire) e di produrre rotoli più lunghi al fine di aumentare il principio inflazionistico.” [xviii]

I situazionisti che non avevano previsto questo successo commerciale decisero di esporre d’ora in poi la pittura industriale in spazi più grandi e fuori dal circuito delle gallerie d’arte. Debord spiega a Gallizio che la “caverna dell’antimateria” non corrisponde alla costruzione di una situazione, ma soltanto alla costruzione di un’atmosfera: “1. perché il lavoro riguarda solo il décor; 2. e sopratutto perché: questo decoro é costruito in una galleria d’arte, che vuol dire un luogo dove noi possiamo fare uno shock scandaloso, ma che fondamentalmente ci é ostile, sfavorevole”. [xix]

L’Internazionale Situazionista si é sciolta, Debord è morto, il problema dell’arte come merce continua a essere irrisolto, e probabilmente oggi in modo più drastico che mezzo secolo fa.

Rimaflow, 29 aprile 2016. Nikoley Oleynikov, Due-tre piccole cose sull’agenda di RiMaflow che hai bisogno di sapere, 2016 e Piero Gilardi, 2016.

Alcuni concetti post-situazionisti

Constatando che il superamento dell’arte e la realizzazione dell’arte da parte del proletariato sono finiti in un vicolo cieco, è necessario riprendere la sperimentazione artistica e politica dal punto in cui i situazionisti l’hanno lasciata.

Dieci anni di lavoro e di riflessione non sono bastati per formulare una nuova teoria coerente del rapporto tra politica e arte contemporanea. Pensiamo comunque di aver prodotto alcuni frammenti e concetti utili per una tale teoria che vorremo proporre a chi oggi si pone la domanda di come agire nelle metropoli.

Per iniziare distinguiamo tra una situazione fredda, calma e controllata, e una situazione calda, carica di conflitti e lotte potenziali. In una situazione calda si aprono nuove vie per l’arte. La nostra ricerca ci ha portato dall’arte site specific all’arte fight specific, dal white cube al dirty cube, dal dirty cube al dispersed center. La forma di organizzazione più adatta per veicolare l’arte fight specific che abbiamo individuato è la piattaforma.

Per non rimanere bloccati concettualmente abbiamo optato per un atteggiamento pragmatico. Prendendo atto dalla questione irrisolta del lato commerciale dell’arte, fonte di tribolazioni per i situazionisti, abbiamo affrontato la contraddizione organizzando semplicemente delle aste di opere d’arte per finanziare i ricorsi delle associazioni di quartiere contro i piani urbanistici. Iniziative che non ci hanno impedito di perseguire le nostre ricerche di un’arte adeguato alla lotta.

Per descrivere le forme d’arte legate alla lotta urbana, abbiamo coniato il concetto di arte fight specific. La scelta di prendendere chiaramente posizione per il movimento e le alternative dei cittadini, e contro le politiche neoliberali dei governanti e la speculazione edilizia delle multinazionali, richiede un’estensione del concetto di site specific (specifico alla sito, o in situ) verso il nuovo concetto di fight specific (specifico alla lotta). L’elemento decisivo del “sito” sono le persone che ci vivono e ci lavorano. Se le persone cominciano a organizzarsi e muoversi, l’arte fight specific diventa possibile. L’arte fight specific non è sempre possibile, ma dipende da una situazione calda, che vuol dire una situazione di conflitto e di lotta. Con il suo intervento l’arte può aiutare a trasformare una situazione fredda in una situazione calda.

Isola Art Center. Rosta Project, Isola, Milano 2007.

In questo senso possono essere definite fight specific opere come i manifesti Rosta di artisti russi come Maiakowski, Cerjomnych, Maliutin, Lavinski e molti altri per sostenere la rivoluzione dei soviet (è a questa esperienza che fa riferimento il progetto delle saracinesche Isola Rosta Project), i collage di John Heartfield  per la lotta antifascista tedesca negli anni venti-trenta, i manifesti e cartoline dipinti da artisti come Mirò per sostenere la repubblica durante la guerra civile spagnola. Più recentemente sono fight specific gli interventi dell’Internazionale Situazionista all’interno del movimento del ’68, il lavoro dell’artista Emory Douglas a sostegno del Black Panther Party negli Stati Uniti degli anni settanta [xx], il progetto Dazibao per sostenere i movimenti di opposizione extraparlamentare di Group Material ad Union Square di New York nel 1983, il progetto sulla gentrificazione “If you lived here…” di Martha Rosler per la Dia Foundation di New York nel 1983, gli interventi della VolxTheaterKarawane di Vienna al G8 di Genova nel 2001 e al “no border camp” di Strasburgo nel 2002 [xxi], la partecipazione del gruppo Etcetera al movimento di protesta in Argentina nel 2001 e altri ancora.

L’arte fight specific supera i limiti degli spazi riservati dalla società all’arte, si mette in gioco in un campo politico e sociale, si impegna in una lotta precisa, e non si limita a rappresentarla con disegni, quadri, fotografie, video, o installazioni.

Lo strumento più adatto che abbiamo individuato per veicolare la ricerca artistica fight specific è la piattaforma. La piattaforma è una forma di organizzazione rizomatica aperta che permette ad artisti, attivisti, curatori, teorici singoli o riuniti in gruppi di realizzare liberamente dei progetti in un contesto di lotta. Non è un collettivo con membri definiti, anche se dei collettivi possono entrare a far parte della piattaforma sporadicamente o a lungo termine. [xxii]

La piattaforma Isola Art Center in un primo tempo ha lavorato con le associazioni di quartiere alla riconversione dell’edificio industriale della “Stecca degli artigiani” e dei giardini adiacenti in un Centro per l’arte e il quartiere. L’occupazione dello spazio della “Stecca” ha permesso ad artisti, critici, curatori, filosofi e abitanti di sperimentare un nuovo tipo di Centro che abbiamo chiamato dirty cube (cubo sporco), per differenziarlo dal white cube (cubo bianco), lo standard della neutralità per l’esposizione dell’arte contemporanea. Per scelta abbiamo lasciato i spazi industriali che abbiamo liberati e resi accessibili in uno stato rozzo. Nello stesso momento a Parigi gli spazi del Palais de Tokyo sono stati trasformati in un egual rozzo stato simile, con la differenza fondamentale che il nostro era un progetto autogestito, non istituzionale e no budget.

Isola Art Centers. Some Hypotheses, serie di foto, Courtesy Federico Bianchi Contemporary Art 2008-2009.

Per capire la natura del Centro bisogna considerare che la sua struttura organizzativa è tutt’altro che monolitica o piramidale. Non esiste, infatti, un direttore o curatore che decide il programma e i progetti. Non si tratta neanche di un “artist run space”, dove un gruppo di artisti realizza le sue mostre ed invita artisti amici ad esporre. Il centro si caratterizza piuttosto per la sua struttura flessibile, aperta, senza gerarchia prestabilita, rizomatica.

Una seconda piattaforma dell’arte fight specific corrispondendo a un intento e una metodologia più specifica è l’ufficio out-Office for Urban Transformation, che lavora all’interno di Isola Art Center; out che crea situazioni e materiale visivo utile alla lotta delle associazioni di quartiere.

Dopo la perdita della battaglia della Stecca e dei giardini, la risposta di Isola Art Center è stata di adeguarsi alla nuova situazione mutandosi da dirty cube nel paradossale dispersed center (centro disperso) ospitato da spazi amici presenti nel quartiere. Dal 2007 al 2012 questa nuova forma ha permesso di essere più presente nella vita di quartiere di prima. Con Isola Rosta Project il Centro ha usato le saracinesche del quartiere come nuovo spazio espositivo, che permette di portare l’arte e la critica dei progetti urbanistici nello spazio pubblico.

Nella fase attuale gli obiettivi del Centro disperso rimangono fight specific, denunciando i processi di gentrificazione e lavorando con il nuovo movimento Isola Pepe Verde per conquistare uno spazio verde comunitario e realizzare il sogno di un centro per l’arte e il quartiere.

note:

[i] Quando in seguito parlo di “noi”, intendo gli artisti e gli attivisti che lavorano con Isola Art Center e out-ufficio per la trasformazione urbana.

[ii] Il 6 marzo 2005 l’autore anarchico Gianfranco Marelli ha presentato il suo libro L’amara vittoria del situazionismo edizioni BFS, Pisa 1996. Il 14 aprile 2007 abbiamo inaugurato la mostra SituazionIsola. A  New Urbanism. Il 21 marzo 2011 il neo-situazionista Leonardo Lippolis ha presentato il suo libro Viaggio al termine della città, Elèuthera 2009. Leonardo è il figlio di Mario Lippolis, uno dei fondatori dell’Internazionale Situazionista a Milano. Tutti questi momenti sono documentati sul sito www.isolartcenter.org.

[iii] Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo, p119

[iv] Guy Debord, La Società dello spettacolo, punto 168

[v] Internazionale Situazionista, Numero 6, 1961, p34

[vi] D di Repubblica, 7.7.2007

[vii] www.rechtaufstadt.net

[viii] Guy Debord, Œuvres, Gallimard, pp 1088 et 1092

[ix] ibid.

[x] Nel suo Rapport sur la construction des situations 1957, Debord parla di “propagande hyperpolitique”.

[xi] Internazionale Situazionista 1958-69, Nautilus, Torino 1994, p 31

[xii] Nicolas Bourriaud, Esthétique relationelle, Les presses du réel, 1998/ it.: postmedia books 2010

[xiii] Guy Debord “Dieci anni di arte sperimentale: Jorn e il suo ruolo nell’invenzione teorica.” Museumsjournaal 1958 Otterlo

[xiv] Asger Jorn, “La fine dell’economia e la realizzazione dell’arte”, Internationale Situationniste n 4, giugno 1960, p 21

[xv] Nicolas Bourriaud, Esthétique relationelle, ibid

[xvi] Per un giudizio rivoluzionario dell’arte, febbraio 1961, Guy Debord Oeuvres, Quarto Gallimard, p 562

[xvii] Asger Jorn, op.cit.

[xviii] Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo, p86

[xix] Lettera di Debord à Gallizio, Parigi 30.1.1959 (Fond Pinot-Gallizio, Alba)

[xx] Vedi: Art and Social Change, a Critical Reader edited by Will Bradley and Charles Esche, Tate Publishing and Afterall 2007

[xxi] Vedi: Art and Revolution di Gerald Raunig, MIT Press 2007 e A Thousand Machines di Gerald Raunig, MIT Press 2010.

[xxii] La piattaforma è un modo totalmente diverso dalla forma di organizzazione  situazionista che in ogni momento contava più esclusi che aderenti. L’esperienza ha mostrato che le piattaforme si rivitalizzano con un ricambio generazionale più o meno ogni tre anni.

 

 

 

 

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