Why do Indian feminists unlike the western feminists not voice the same anger? Intervista a Navjot Altaf

di Chiara Lupi e Elvira Vannini.

«Non è il femminismo una nozione occidentale e quindi del tutto irrilevante nell’Asia meridionale?» – si chiedono Kamla Bhasin e Nighat Said Khan in un testo pubblicato da Kali for Women (la prima casa editrice femminista in India)[i] – una questione, questa, che raramente viene sollevata come domanda: piuttosto si pone come un attacco o qualcosa da non prendere realmente sul serio. Non è un caso che questo tipo di accusa, che racchiude alcune delle ambivalenze sulla “grande narrazione” del femminismo bianco, eterosessuale e di classe media, venga formulata da uomini e donne di formazione occidentale, che hanno frequentato scuole anglo-americane e parlano la lingua dominante, indossando abiti occidentali e così via. È singolare che le stesse accuse, continuano le due studiose femministe, non vengano mai mosse contro la scienza moderna o in generale contro la modernità – che è pur sempre il risultato di una “occidentalizzazione”:

«Queste stesse persone, ad esempio, non mettono in discussione le origini straniere dei sistemi parlamentari o presidenziali; dello sviluppo del capitalismo; della proprietà privata e del latifondismo; o dell’ideologia di sinistra. Concesso che il termine “femminismo” non sia nato nel subcontinente indiano; ma poi nemmeno la rivoluzione industriale, il marxismo, il socialismo o, del resto, neppure alcune delle nostre religioni dell’Asia meridionale. Einstein non è nato a Lahore, Marx a Calcutta o Lenin a Dhaka; tuttavia le loro origini occidentali non hanno reso le loro idee irrilevanti per noi. Né dovrebbero essere considerate irrilevanti, perché un’idea non può essere confinata entro limiti nazionali o geografici.

In ogni caso, se il termine femminismo è di importazione straniera, il suo concetto rappresenta un processo di trasformazione iniziato in Asia meridionale nel diciannovesimo secolo, una posizione politica organizzata e articolata contro la secolare subordinazione delle donne. Qui, il femminismo non è stato imposto artificialmente da nessuno, né è stato un’ideologia straniera di derivazione occidentale».

DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Chawal ki Kahani, Students in the process of installing, Shilpi Gram, Kondagaon, Bastar, 1997/1998.

I movimenti delle donne in India sono stati implicati invece, a differenza di quelli occidentali, nel discorso ecologico (non è un caso che quello più noto, il movimento Chipko contro il disboscamento degli alberi, sia stato guidato da donne). Il cosiddetto ecofemminismo del “terzo mondo” (K.N. Shoba, Ecofeminist Discourse in Postcolonial India: A Critique of Capitalism, Modernity, and Patriarchy, 2013) o “ecofemminismo indiano” ha il suo riferimento teorico nel conosciuto testo di Vandana Shiva, Staying Alive: Women, Ecology and Survival in India (1988) per la quale il rapporto tra donne e natura sarebbe biologicamente necessario perché la sottomissione del “principio femminile” (detto anche Shakti o Prakriti) che è la “forza vivente che sostiene la vita” sarebbe indispensabile per “gettare le basi per il recupero del principio femminile nella natura e nella società”, senza però tenere conto delle strutture patriarcali dentro lo spiritualismo induista e ritenendo che il degrado ambientale indiano sia anche responsabilità del mondo capitalista e patriarcale occidentale.

Artists Navjot, Altaf Mohamedi (whom she later married), and Shobha, during the making of a mural for Dawoodbhoy Fazalbhoy High School, Mumbai, 1972.

Navjot, Altaf Mohamedi. Artist Prabhakar Barwe, architect Arun Das, cousin Vijayvir and Shobha Ghare were part of the couple’s civil marriage.

Dalla fine degli anni Sessanta l’artista e attivista indiana Navjot Altaf [nata nel 1949 a Meerut, vive e lavora a Mumbai e Bastar, India] insieme all’artista Mohamedi Altaf, compagno di vita e di lotte (che era stato studente a Londra e aveva conosciuto movimenti di contro-cultura e agit-prop nei laboratori di stampa radicale diffusi in quegli anni negli ambienti antagonisti), aderirono al gruppo chiamato PROYOM (Progressive Youth Movement), un’organizzazione politica – che comprendeva studenti di vari college e università di Bombay, docenti e accademici, economisti, giornalisti, cineasti e alcuni artisti visivi –  influenzata dalla teoria marxista e affiliata al CPI (ML), il Partito comunista indiano (di orientamento marxista-leninista) fondata nel 1967 in seguito a una “rivolta contadina militante” contro i proprietari terrieri “nemici di classe” che aveva assunto le dimensioni di un’insurrezione di massa preparata a Naxalbari, un villaggio nel nord del Bengala Occidentale. Altaf era anche coinvolto con il Matunga Labour Camp, sempre attraverso PROYOM nei primi anni ‘70, altra formazione comunista con sede a Mumbai che funzionava come una comunità di artisti di sinistra, impegnati nel cambiamento sociale e l’agitazione politica, che realizzavano manifesti e opere in esposizioni pop-up ospitate in università, fabbriche, sale sindacali o luoghi fuori dalle istituzioni artistiche.

Navjot Altaf, Poster done during emergency period, 1976.

Navjot ha attraversato tre fasi principali nella sua produzione artistica tra gli anni ‘70 e gli anni ‘90: dai dipinti ad olio dal 1972 al 1974, con cui tenta di formulare una critica marxista del capitale e delle strutture di potere, contro il semi-feudalesimo e il colonialismo imperialista, la realizzazione di disegni a penna e inchiostro fino al 1983, seguita da un’esplorazione di acquarelli e acrilici che continuò fino alla metà degli anni ’90. Dopo il 1998, si trasferì da Mumbai a Kondagaon nella regione di Bastar (Chhattisgarh), nell’India centrale e da allora ha avviato progetti collaborativi e di ricerca su questioni di genere, sociali ed ecologiche. Nel 2000 ha istituito un artist-run centre insieme a 3 artisti Ādivāsī (o “abitanti originari” di Bastar).

Abbiamo conosciuto Navjot Altaf all’opening della Seconda Biennale di Yinchuan, nel giugno 2018, che ora ci racconta la sua straordinaria e radicale ricerca, in questa lunga intervista, come anticipazione della sua prima personale italiana a cura di Marco Scotini e significativamente intitolata Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation (Democrazia della Terra e Femminismo) che inaugura il 2 novembre al PAV, Parco Arte Vivente di Torino.

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

Gli anni Settanta hanno rappresentato per la tua ricerca artistica un importante punto di svolta. Volevi usare l’arte e la cultura per diventare politicamente efficace e far emergere una coscienza critica e rivoluzionaria. È in quel momento che la tua pratica artistica si è intrecciata all’attivismo politico, unendoti per esempio a PROYOM. “L’arte – hai detto – è stata strumentale. PROYOM voleva strumentalizzare l’arte”. Allora, potresti raccontarci la tua esperienza di artista che ha scelto un ruolo attivo come protagonista della lotta sociale? In quale occasione ti sei sentita più efficace con le tue azioni? Quali sono i modelli di riferimento per la tua pratica?

Navjot Altaf: Questo mi fa riflettere su come la mia pratica artistica sia improntata sulle mie esperienze e sulla mia indagine intellettuale: le preoccupazioni socio-politiche ed estetiche, la posizione che scelgo come artista nel processo di ricerca e mentre lavoro sui progetti quando coinvolgo persone di diversa provenienza o disciplina… La mia lotta, le decisioni difficili che questa comporta e come ci siano aspetti molteplici in qualsiasi processo decisionale.

L’inizio degli anni Settanta: avevo appena completato la scuola d’arte a Bombay.

Era un ambiente decisamente politico. Come membro dell’organizzazione studentesca di sinistra PROYOM (Progressive Youth Movement) entravo in contatto con studenti di diverse discipline accademiche e università. Mi sono iscritta a PROYOM nel 1972. La siccità e la carestia stavano imperversando nei distretti di Ahmednagar e Osmanabad nel Maharashtra (uno stato nell’India Occidentale). Come membri del PROYOM, abbiamo raccolto denaro in città e ci siamo alternati a viaggiare fino ad Ahmednagar una volta alla settimana per sostenere gli studenti delle famiglie dei contadini colpiti duramente. Suppongo che il nostro lavoro con PROYOM sia stato condizionato da problemi ambientali senza che noi ne fossimo realmente consapevoli.

È stato allora che penso di avere appreso che l’arte, e gli artisti come altri professionisti, non sono sistemi isolati ma parte del sistema stesso in cui viviamo.

PROYOM comprendeva attività culturali come i circoli di studio in cui leggevamo e discutevamo di arte, cultura, società, politica in relazione tra loro per sviluppare una prospettiva critica. Ma è attraverso le attività politiche di PROYOM che ho potuto percepire la complessità della struttura sociale delle aree sovrappopolate: nonostante queste persone contribuissero al funzionamento quotidiano della città continuavano ad appartenere, in una condizione di stasi, a una classe sociale svantaggiata.

L’esperienza di interazione e di lavoro con differenti strati sociali nella città di Bombay ha aperto profonde questioni sulle asimmetrie del sistema creato dall’uomo e su come queste si perpetuino, nelle aree urbane o rurali, nella storia dell’umanità (possiamo estendere questa condizione al contesto attuale).

Le attività di PROYOM sono state percepite negli ultimi venticinque anni in tutto il mondo come esempio di un attivismo che ha messo a confronto la politica con l’arte, come un “modo di fare arte” che ha coinvolto artisti e membri provenienti da altre discipline. A livello personale direi che intervenire in spazi non artistici, spazi di vita quotidiana testimoni di questioni socio-politiche – come fabbriche, campi di lavoro, collegi, CPDR (Committee for the Protection of Democratic Rights) o uffici del PUCL (People’s Union for Civil Liberties) – mi ha permesso di attivare un processo di interazione con un pubblico diverso dai galleristi e dagli amanti dell’arte e insieme la possibilità di una profonda indagine sulla condizione umana e le sue asimmetrie, le oppressioni sociali, le migrazioni. Realizzavamo manifesti da affiggere sui muri della città attorno a problematiche locali o internazionali di attualità. Partecipavamo a manifestazioni politiche, ad esempio, per esprimere solidarietà ai lavoratori dei Textile Mills e al personale dei treni delle ferrovie di Mumbai nella protesta per migliorare salari e condizioni di lavoro.

Tutto ciò non è stato considerato una forma d’arte dalla comunità degli artisti, e dai critici.

DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Chawal ki Kahani, Students getting ready for installation, Shilpi Gram, Kondagaon, Bastar, 1997/1998.

Per noi erano azioni consapevoli. Tutto questo ci ha portato a stretto contatto con le persone, a intrattenere conversazioni animate, in quegli spazi non artistici, ma che accoglievano, secondo la mia esperienza, opere d’arte di diversa natura. Disegno, poster, teatro di strada, poesia, slogan, film, volti a smuovere la coscienza delle persone, per indurle a partecipare o ad allinearsi con movimenti sociali più ampi.

Ciò che ho capito è che l’arte è sempre politicizzata. In luoghi diversi, in periodi diversi e in contesti culturali, sociali e politici diversi, la categorizzazione dell’arte è sempre stata costruita o stabilita in modo diverso.

C’erano incertezze. Ma c’erano anche intuizioni inaspettate che si sono evolute attraverso quei momenti di scambio. I discorsi e le risposte che mi davano le persone, l’accumularsi di quelle esperienze, nel corso del tempo ha aiutato ad estendere la mia pratica al di là della sfera privata. Sono le scelte politiche che ho fatto come artista negli anni Settanta che con il passare del tempo mi hanno aiutato a sviluppare e analizzare la mia sensibilità. Quando mi guardo indietro sento che le mie scelte hanno definito la mia estetica e la mia politica.

Navjot Altaf + DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Navjot in a primary school with 7 women artists from IFAD project, Sambalpur, Bastar, 2005.

Poiché sono interessata all’arte pubblica, partecipativa, socialmente impegnata e a quali forme di conoscenza tale pratica possa generare, vedo il processo dialogico o l’interazione con persone provenienti da diversi campi e contesti socio-economici e culturali come parte della prassi creativa. I progetti in cui mi sono sentita più efficace sono stati quelli in collaborazione con Nalpar e Pilla Gudis (sviluppati e realizzati collettivamente con artisti indigeni, membri della comunità e funzionari comunali di Kondagaon Bastar) e Barakhamba a Delhi nel 2010. Ovviamente non penso che sia solo l’arte politica o gli artisti ad aver dato il via a modelli alternativi di resistenza contro l’egemonia statale e aziendale.

Navjot Altaf, DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Shantibai painting roof, DIAA Centre construction process, Kondagaon, Bastar, 2003-2005.

Navjot Altaf, DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Rajkumar with community workers, DIAA Centre construction, Kondagaon, Bastar, 2003-2005.

Hanno costituito un esempio per me imprescindibile i movimenti per i diritti civili come il movimento Chipko, iniziato dalle donne locali negli anni Settanta per salvare le foreste del nord dell’India e che si poi è diffuso anche in altre parti.

O anche il Koyla Satyagrah del 2015 [n.d.r. una marcia annuale simbolica condotta dalla popolazione dei villaggi della regione di Raigarh, dove le miniere di carbone e gli impianti termici hanno avuto un impatto duraturo sull’ecosistema e sulla popolazione] nel Chhattisgarh (stato dell’India centrale), dove è dal 2014 che ricerco e lavoro. Per un certo verso è simile alla resistenza politica del Salt Satyagraha di Gandhi, per la quale migliaia di persone avevano camminato per centinaia di chilometri contro il monopolio britannico del sale. Nel caso del Koyla Satyagrah, migliaia di persone provenienti dalle comunità minerarie del Raigarh e ottantadue villaggi limitrofi marciano ogni anno sulle rive del fiume Kelo per sfidare il monopolio dell’industria del carbone e rivendicare i loro diritti sulle risorse naturali, compreso il carbone presente sotto le loro terre. Invece che sostenere l’estrazione del carbone e le centrali elettriche private, hanno creato una cooperativa su parte dei loro terreni, in quanto favorevoli alle risorse rinnovabili e all’energia solare; vogliono continuare a coltivare ed essere stakeholder con un potere decisionale. Sono una comunità di resistenti e questo è il risultato che si ottiene attraverso la partecipazione e il dialogo. Mi sento personalmente ispirata dalla loro visione collettiva sui modi alternativi e sostenibili per la terra e per le generazioni future. Ho visto e sperimentato il modo in cui applicano la conoscenza del vivente, la fanno propria e la tramandano. Trovo che quello spazio sia allo stesso tempo uno spazio di confronto, di negoziazione e di collaborazione.

Navjot Altaf, DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Shantibai discussing Namita Vishwakarma’s work, a student supported by DIAA Centre, Kondagaon, Bastar, 2015.

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

Attraverso l’esperienza di PROYOM hai sfidato come artista la problematicità dell’assenza di un linguaggio per affrontare la questione di genere nel discorso marxista. Come ne hai fatto fronte attraverso la tua pratica? E quale posizione ha assunto questa all’interno del movimento femminista?

NA: Posso dire che tra le cause contro cui ho resistito e lottato, le attività di PROYOM e le nostre opere d’arte c’è stata sempre quella contro l’ingiustizia e la repressione nei confronti delle donne, ma che a causa dell’assenza di un’analisi approfondita sul genere nella teoria marxista, non c’è stato un lavoro mirato sul genere o sulla differenza di genere in quanto tale.

La mia comprensione delle questioni femministe non ha avuto inizio con letture teoriche, ma attraverso l’osservazione, fin dalla più tenera età, e le discussioni tra le donne partecipanti ai nostri incontri politici. Nonostante il loro profondo impegno e i loro contributi alla lotta politica, i membri maschili del gruppo avevano purtroppo trascurato la necessità di indagare la condizione di subordinazione femminile.

L’accesso alle autobiografie delle donne coinvolte nelle agitazioni di Telengana, in India alla fine degli anni Sessanta, ha reso criticabile la posizione assunta dai compagni di sesso maschile per la loro insensibilità alle preoccupazioni delle donne – come la gravidanza e l’aborto, i figli e il soddisfacimento dei loro bisogni primari – in alcune situazioni ha aperto questioni riguardanti i sistemi socio-politici ed economici che sostengono la costruzione e il funzionamento del potere patriarcale nella società anche quando le donne sono impegnate in attività politiche a fianco dei compagni di sesso maschile.

Il mondo dell’arte era assolutamente circoscritto in quel sistema socio-politico ed economico.

Navjot Altaf + DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Art workshop with children at DIAA centre with students from Kondagaon, Bastar and J J School of Art Mumbai, 2017.

Navjot Altaf + DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Art workshop with children at DIAA centre with students from Kondagaon, Bastar and J J School of Art Mumbai, 2017.

Le preoccupazioni dei movimenti femministi a metà degli anni Settanta erano quelle che dovevano portare a un cambiamento nella coscienza delle donne, che potessero portare a una differenza nelle loro vite, parlando per sé stesse e collettivamente.

I movimenti delle donne hanno iniziato ad affermare una voce collettiva, che manifestava e rivendicava la disparità salariale, la divisione sessuale del lavoro e del lavoro domestico-riproduttivo, la solidarietà tra donne e gruppi diversi impegnati in lotte simili. La mia comprensione che “i problemi delle donne hanno origini sociali e possono essere risolti da cambiamenti sociali e politici”, che la differenza sessuale sia una costruzione sociale e che il modo in cui un sistema limita le donne a guardare sé stesse dalla propria prospettiva e dalla propria soggettività è arrivata attraverso l’analisi delle femministe occidentali.

Griselda Pollock, Rozsika Parker, Linda Nochlin, Lucy R. Lippard, Hélène Cixous sono state le autrici a cui ho avuto accesso alla fine degli anni Ottanta. Hanno proposto di guardare al di fuori del mondo costruito da una società incentrata sull’uomo per ripensare a un’analisi socio-politica della cultura, parlando di arte e cultura.

“Cosa provoca una specifica pratica artistica, quali significati vengono prodotti, come e per chi”: l’ho trovato estremamente rilevante come artista.

Qualche anno dopo, Io tu noi. Per una cultura della differenza di Luce Irigaray ha avuto un grande impatto su di me, ma Women Writing in India: 600 B.C. to the Present, V: 600 B.C. to the Early Twentieth Century di Susie Tharu e K. Lalita, nei primi anni Novanta, fu una completa rivelazione. Per la prima volta, mi sono imbattuta in uno studio di storia della cultura indiana incentrato sul genere. In India dobbiamo riconoscere che le questioni di casta, classe, razza e genere sono profondamente interconnesse. Ho affrontato queste questioni attraverso la mia pratica con mezzi diversi. Direi che nel corso degli anni c’è stato un grande cambiamento nella coscienza del pubblico di tutto il mondo, perché la sicurezza di entrambi, uomini e donne, era messa a repentaglio.

Nel contesto attuale, se analizziamo le preoccupazioni femministe sono più complete e inclusive. Tuttavia, ciò che non si può ignorare è che in alcune parti dell’India e di altri paesi in via di sviluppo si stanno ancora affrontando le questioni fondamentali della parità di retribuzione o delle stesse opportunità per le donne. Sento che anche se la globalizzazione ha trasformato e neutralizzato molte cose in tutto il mondo e vari paesi stanno attraversando simili transizioni socio-politiche ed economiche, il contesto in cui l’artista lavora, ricerca e vive queste situazioni, ha un insieme unico di condizioni che hanno bisogno di essere comprese in tempo reale.

Navjot Altaf (3rd from left) with JJ classmates, among them Chandra Doshi, Varsha Dalal, Shakuntala Kulkarni, Anjana Mehra and Chanda Joglekar, 1970-

«Femminismo senza frontiere» lo ha definito l’indiana Chandra Talpade Mohanty, denunciando però come il cosiddetto “femminismo occidentale” abbia individuato una categoria monolitica di “donne del Terzo mondo” che annulla di fatto le differenze storiche, sociali e geopolitiche, rafforzando la marginalità delle loro posizioni e la condizione di subalternità. Nella ricerca e nella preparazione di progetti collaborativi e community-based ti sei imbattuta in temi e modelli comuni che uniscono le donne che lavorano per una causa femminista? Dovremmo parlare di un’unica arte femminista o ce ne sono di molteplici a seconda delle temporalità, del contesto e delle diverse geografie?

NA: Sì e penso al mio progetto Touch 4 con le lavoratrici del sesso, alla loro organizzazione SANGRAM e alle sue filiali sorelle a Mahrashtra (2008-2009); o a un altro progetto Soul Breath Wind in Chhattisgarh con le comunità indigene. Questi gruppi lavorano veramente con un approccio femminista.

Navjot Altaf, Touch IV, 2010, 22 monitors video installation, 13 minutes, The Guild Gallery, Mumbai, India.

SANGRAM ritiene che l’organizzazione comunitaria tra le donne all’interno dei bordelli e che “lavorare collettivamente come modalità per dare alle donne una voce” sia un mezzo potente per combattere i diversi problemi che uomini e donne affrontano nella professione.

SANGRAM lavora con le sex workers e altre persone emarginate a rischio di infezione da HIV/AIDS, migliorando la loro salute, costruendo la loro capacità di negoziare per il sesso sicuro e sostenendole nell’affermare e difendere i loro diritti. Personalmente il loro intero processo di lavoro con la parte esclusa della società, di giorno in giorno, lo ritengo un progetto femminista. Le ho incontrate per la prima volta a uno dei loro lunghi spettacoli, in collaborazione con una regista teatrale, al teatro Prithvi di Mumbai. Hanno affrontato il tema della rappresentazione e dell’auto-rappresentazione. Loro stesse hanno interpretato in scena i ruoli di tutti i personaggi.

Navjot Altaf, Soul Breath Wind (2014-18). Courtesy l’artista.

Navjot Altaf, Soul Breath Wind (2014-18). Courtesy l’artista.

Il mio recente progetto Soul Breath Wind (2014-2018) vede al centro le comunità indigene e non indigene (a Takraguda nel sud di Bastar e a Raipur e Korba nella parte centrale settentrionale del Chhattisgarh) interessate alle procedure di acquisizione di terreni per progetti di sviluppo minerario, che stanno lottando per avere giustizia contro le potenti forze che commettono il crimine di aumentare la vulnerabilità degli ecosistemi. Lo denunciano come “un attacco contro il suolo, contro uomini e donne e altri esseri viventi interdipendenti”. Queste forze hanno sconvolto i sistemi di relazioni tra le foreste e il suolo, con effetti sull’economia dei villaggi; le donne sono le più colpite, in quanto dipendono non solo dall’agricoltura, ma anche dalle piante commestibili e dai medicinali, dalle radici e dai frutti della foresta per la propria famiglia e da vendere al mercato locale.

Ci sono quindi dimensioni economiche e reali cambiamenti sia culturali che storici dovuti alla perforazione capitalistica del suolo.

Su un altro piano, le forze politiche di destra cercano continuamente di distruggere la ricca cultura indiana per diffondere “una forma nazionalista brahminica indù” e promuovere il sistema di caste e di gerarchia di genere (strettamente interconnesse) dell’ordine sociale brahmanico (la casta più alta) che continua a persistere in India.

Con la privatizzazione delle terre, dei fiumi e delle foreste, milioni di persone sono state sfollate nonostante l’esistenza di leggi e la promessa di un equo risarcimento per quanto avevano perduto, o che gli è stato espropriato. Questo li ha portati a una progressiva perdita delle sicurezze, la casa e la terra, che ha corroso quel senso di comunità che era la loro forza.

Credo che il femminismo nel contesto attuale abbia bisogno di riconoscere e apprezzare, nonché molto da imparare da coloro che hanno conservato le loro terre per secoli e che per questa scelta contro il sistema sono stati emarginati. Sono marchiati con l’appellativo di arretrati e poveri che dimorano in quelle terre ricche di risorse che il governo e le imprese estrattive vorrebbero sfruttare.

Navjot Altaf + DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Walking trees, Workshop at Pilla Gudi, Kopaweda, Kondagaon, Bastar, 2011.

Navjot Altaf + DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Sensing thunder and lightning, Workshop at Pilla Gudi, Kopaweda, Kondagaon, Bastar, 2011.

Navjot Altaf + DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Sensing thunder and lightning, Workshop at Pilla Gudi, Kopaweda, Kondagaon, Bastar, 2011.

Eppure, nelle parti centrali del Nord dell’India, ottantadue villaggi si trovano a vivere questa situazione. Io le chiamo “comunità resistenti”: sono coloro che sono svegli, che comprendono i sistemi di dominazione, colonizzazione, espropriazione capitalista, idea di sviluppo e di interesse per profitti a breve termine per pochi e ad ogni costo. Tutto ciò è causa di una lenta violenza, che non è nemmeno considerata violenza, in quanto mascherata con il pretesto di sviluppo per il benessere della società.

Il movimento Koyla Satyagrah, per esempio, crede nella politica di resistenza non violenta anche se deve fronteggiare l’universo aziendale che ha adottato un approccio totalmente opposto. È decisamente complesso.

Mi viene in mente un fisico e “profondo” ecologista, Fritjof Capra, che ho letto anni fa e che ha parlato della necessità di un radicale cambiamento economico e culturale e di una via d’uscita dallo sviluppo iper-materialistico. Teorizzava il tentativo di massimizzazione della sostenibilità attraverso l’ecodesign e sosteneva una consapevolezza femminista, basata sulla “conoscenza esperienziale delle donne – che per tutta la vita è collegata, alla loro attenzione a coltivare relazioni differenti rispetto alla cultura patriarcale di accumulo di beni materiali, che porta il mondo alla cultura dell’insostenibilità”.

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

Quindi ciò che le comunità indigene riconoscono e valorizzano maggiormente sono i processi ciclici naturali e ciò che sostiene la “rete della vita”. Attualmente, nell’interagire con loro, ho capito perché sentono fortemente che la crescente perdita di connessione sia la crisi ecologica primaria, e perché sia spesso presente in molte narrazioni basate sulle loro credenze e pratiche culturali.

Capiamo che sono stati i custodi della biodiversità per molti degli ecosistemi, in quanto hanno giocato un ruolo importante nella conservazione e gestione sostenibile delle risorse locali per centinaia e migliaia di anni e hanno sviluppato sistemi complessi per vivere insieme ad altre specie. Esistono associazioni emotive e psicologiche. Posso mettere in relazione i loro modi di vivere con l’intero concetto di ecologia profonda che ho imparato attraverso la teoria. Ho anche realizzato che quando c’è equilibrio in natura, pensieri positivi e un senso generale di benessere incoraggiano modi di sostenere la natura. Ma se questo potenziale equilibrio è innescato da pensieri o percezioni avverse, le persone sono investite dal panico.

Vandana Shiva e la sua filosofia femminista, l’ecologia e la democrazia sulla Terra, parla del “principio femminile che si basa sull’inclusività e il suo recupero negli uomini, nelle donne e nella natura, è il recupero delle forme creative di essere e di percepire […] Dobbiamo riconoscere che siamo parte della più ampia rete di vita che provvede alla nostra sopravvivenza, quindi è imperativo proteggere quella fragile rete di vita, non come dominatori – gli uomini sulle donne e gli umani sulla natura – ma come partner di ogni altra forma di vita sul pianeta”.

Meeting with the community members at DIAA Centre, Kondagaon, Bastar, 2007.

KHOJ è un progetto di residenza artistica per curatori e artisti che da oltre vent’anni rappresenta un nucleo di resistenza culturale all’interno del quartiere Khirki Village di Nuova Delhi. Oltre a supportare il giornale Kirkhee Voices, il cui interesse è quello di dare spazio alle “persone ai margini”, KHOJ promuove progetti di arte pubblica ai quali hai preso parte assieme ad artisti e intellettuali come Geeta Kapur, Sheba Chhachhi, Vivan Sundaram, Ravi Agarwal, Atul Bhalla. Penso a 48°C Public. Art. Ecology, un programma sull’ecologia che proponeva agli artisti di aprire possibilità rispetto all’urgenza ecologica che stava attraversando la città, evidentemente privata delle sue risorse naturali. Hai partecipato a due edizioni di questo festival, tra il 2008 e il 2010, per le quali hai sviluppato il progetto Barakhamba in due fasi. Puoi parlarcene?

NA: Barakhamba è stato un progetto site-specific in Barakhamba Road a Nuova Delhi con cui ho iniziato a considerare lo spazio urbano come luogo d’intervento artistico. Si caratterizzava per essere uno spazio dalle relazioni complesse e la mia attenzione è stata subito catturata da chi vi trascorresse il suo tempo: negozianti, tassisti, autisti di risciò e di auto, pendolari della metropolitana e degli autobus pubblici, pedoni nelle strade principali, nelle corsie secondarie, nei parcheggi di Barakhamba Road, architetti e urbanisti che lavorano nei grattacieli di Barakhamba Road. Ho incontrato ambientalisti, ricercatori, scienziati specializzati in biodiversità, economisti della JNU University, attivisti, giornalisti, artisti, funzionari della Delhi Metro Rail Corporation (DMRC), della New Delhi Municipal Corporation (NDMC) e della polizia stradale. Chiunque mi potesse dare un punto di vista sul territorio. Intervenire in un luogo pubblico richiede un approccio sensibile. Il rapporto tra l’artista e un pubblico eterogeneo, non abituato alle operazioni artistiche, è sempre complesso. Ma questo mi ha permesso di confrontarmi con le maggiori preoccupazioni socio-politiche di queste persone. È stato molto rilevante in una città come Nuova Delhi, con le sue continue perdite da un punto di vista ecologico da un lato e le continue tensioni derivate dal terrorismo dall’altro. Pochi giorni prima dell’inizio di questo progetto erano state fatte saltare in aria delle bombe in Barakhmba Road proprio dove avrei dovuto installare il mio lavoro. Ho intitolato il video Barakhamba 2008.

Navjot Altaf, Delhi Loves Me? KHOJ International Artists Residency. Collaborative project with communities, New Delhi, India, 2005.

Era principalmente un modo per documentare le conversazioni con le persone del posto a proposito delle loro particolari visioni, delle loro idee e delle loro paure. Io come artista ho assunto la posizione di interlocutrice. Mi sono soffermata assieme a loro sulle criticità di questo sviluppo urbano miope ancora in atto a Delhi e le sue inevitabili ripercussioni sulla salute delle persone e sull’ambiente. In questo dialogo ho incluso anche alcuni del pubblico che sono venuti sul luogo a vedere la proiezione. Avevo posizionato una telecamera che mi riprendeva mentre parlavo con le persone. In tempo reale le nostre conversazioni venivano proiettate su un terzo schermo, il che riduceva in certo senso la distanza tra chi guardava e chi veniva guardato. Ho inviato le mie considerazioni a KHOJ alla fine del progetto. 48°C Public. Art. Ecology non è stato un progetto artistico facile, proprio perché era in uno spazio pubblico: quando parlavo con i funzionari era evidente il loro tentativo di difendere le proprie posizioni. Sapevo che la “Sezione 144” del codice di procedura penale che impediva riunioni di più di cinque persone nelle zone centrali di Delhi era stata imposta in molti luoghi pubblici della città, compresi il Parlamento e Jantar Mantar. L’intera zona di Connaught Place, di cui fa parte Barakhamba Road, rientrava nell’area soggetta a restrizione. Un modo per soffocare ogni tipo di protesta democratica a Nuova Delhi. Non mi è stato permesso di installare i video in alto ai muri dei servizi igienici pubblici a pochi metri di distanza dal sito delle esplosioni avvenute un mese prima. Ho dovuto negoziare molto per avere il permesso di installare il lavoro in un vicolo lì vicino. Credo sia fondamentale coinvolgere le autorità per sensibilizzarli e cambiare la loro percezione delle pratiche culturali. Tuttavia tutto ciò non dovrebbe portare a una burocratizzazione che causerebbe solo rigidità nei processi. Più le attività artistiche risultano inclusive e più le persone potrebbero iniziare a interrogarsi e a partecipare. In India solo una piccola percentuale di critici contemporanei si era interessata alla storia e alla critica di una tale pratica, così come pochissimi artisti.

Sono molto interessata a progetti futuri che vogliono tentare un “reale cambiamento” negli spazi pubblici. Come scrive Lucy Lippard: “quando le strategie artistiche diventano un tutt’uno con i punti di vista dei partecipanti e dei collaboratori l’effetto del processo è massimo”.

Navjot Altaf, Barakhamba, work process at Barakhamba Road, KHOJ Project 480c Public Art Ecology Festival, New Delhi, 2008.

Barakhamba 2008 mi ha portato ad approfondire la ricerca sulla graduale perdita di verde a Delhi in seguito a vari progetti di intervento urbano. Ho svolto indagini sulla condizione degli alberi nella città e sugli effetti delle incessanti costruzioni, dell’ampliamento delle strade e dei marciapiedi. Pensa che la Delhi Metro Rail Corporation aveva sostituito tra Connaught Place e Tolstoy Marg, al di sopra della stazione della metropolitana, gli alberi Baheda con piante Pilkhin; hanno completamente trascurato lo spazio minimo di quasi 2 m² richiesto per legge attorno agli alberi e il poco spazio che avevano lasciato era diventato dopo poco tempo una pattumiera a cielo aperto, dannosa per la salute degli alberi e degli altri esseri viventi. Per affrontare questa situazione ho richiesto l’aiuto dell’ambientalista Ajay Mahajan e dello scienziato di biodiversità Fayaiz Khudsar, che mi hanno poi portata a lavorare in collaborazione con il dipartimento di orticoltura della NDMC. Per me ciò che è stato significativo è proprio questo processo di collaborazione insieme al coinvolgimento di agenzie statali. È stata una bella sfida organizzare l’incontro con il capo dell’orticoltura della NDMC, Subhash Chandra e invitarlo a vedere l’effettivo stato degli originari Baheda sulla Stretch 2 (da Tolstoy Marg a Mandi House Roundabout) e la condizione dei nuovi Pilkhin sulla Stretch 1 (da Connaught Place outer circle a Tolstoy Marg). Le nostre discussioni con Subhash Chandra hanno avviato un processo di “decoking”: hanno iniziato i lavori di rimozione del catrame e del cemento per la creazione di uno spazio adeguato alla coltivazione. Sono molto impressionata quando vedo gli sforzi di persone che protestano per tutelare gli spazi verdi.

Con Barakhamba 2010 ho proiettato un video a canale singolo in cui i presenti potevano vedere i lavori in corso delle zone verdi di Barakhamba Road e sentire la voce di Subhash Chandra che si impegnava a portare avanti il progetto. Intanto una telecamera installata al numero 20 della via filmava gli spettatori e i partecipanti mentre esprimevano il loro punto di vista sull’ecologia e sul ruolo dell’arte negli spazi pubblici. Questo è un esempio di come l’intervento di un artista e progetti di collaborazione avviino azioni di cambiamento a favore dell’ambiente.

Navjot Altaf, Delhi Loves Me? KHOJ International Artists Residency. Collaborative project with communities, New Delhi, India, 2005.

A dieci anni da Barakhamba 2008 quali cambiamenti hai potuto osservare a Nuova Delhi? E quali alleanze pensi si possano instaurare contro la “schizofrenia” dei grandi centri urbani?

NA: Se parliamo in termini ecologici, Delhi è diventata una delle città più inquinate dell’India. L’inquinamento in India è stato determinato da scelte politiche che non hanno escluso Delhi. Nonostante sia una capitale, le leggi sul controllo dell’inquinamento non sono applicate efficacemente per il timore di alimentare il “vote block”. Non si tratta di collegi elettorali considerati irrilevanti da diversi partiti politici. L’eccessivo numero di veicoli, le migrazioni su larga scala, il restauro di una cultura patriarcale machista e maschilista e la mancata applicazione effettiva delle leggi ambientali esistenti ha anche creato un clima di impunità costitutivo del nostro sistema politico. Lo vedo chiaramente anche nelle aree di estrazione mineraria in cui ho lavorato. Ci sono dei vantaggi nei centri urbani: una migliore istruzione, l’assistenza sanitaria, opportunità di lavoro che la maggior parte dei nostri villaggi non hanno ancora raggiunto… Questo porta le persone a trasferirsi nelle città anche quando non hanno garantita una condizione stabile e sicura. Si ritrovano a vivere in aree congestionate e attraversano ogni tipo di difficoltà fisiche, emotive e psicologiche, ma nonostante questo continuano a rappresentare la forza lavoro necessaria per gestire quotidianamente le infrastrutture della città. In riferimento a questo scenario attuale ritengo che le  alleanze contro la schizofrenia urbana (non prendendo in considerazione solo la popolazione privilegiata della città, ma anche quella precaria) dovrebbero essere strette tra gli urbanisti, gli architetti, gli ambientalisti, gli avvocati, i cittadini sensibili e creativi e il governo statale per lavorare nella direzione di un rispetto delle leggi ambientali esistenti in modo più efficace; per creare una cultura della sostenibilità e spazi pubblici, che siano puliti e sicuri per persone di tutte le età; luoghi dove le persone possono incontrare altre persone e sentirsi rilassate. Credo che gli spazi verdi possano veramente migliorare la qualità di vita delle persone.

Mi piacerebbe farvi conoscere anche altri due progetti Empty Containers e Body City Flows. [ii]

Navjot Altaf, Empty Containers, 2011 Project Yamuna Elbe, Contemporary Flows, fluid times Site, Boat Lieger Caesar at Magallan-Terrassen Humburg, Germany.

La vista del fiume Elba. Dei container a bordo delle navi in arrivo e in partenza dal porto di Amburgo. Accatastati lungo il fiume e in altre parti della città. I camion che li portano da una destinazione all’altra. Tutto ciò ha catturato la mia attenzione. Camminavo e guidavo. Visivamente ho avuto modo di esplorare la città portuale e la sua complessa rete.   

Amburgo, 2011  

Le parole “contenitore” [container] e “fiume” [river] hanno connotazioni metaforiche e “le metafore sono dispositivi che ci permettono di comprendere un dominio di esperienze nei termini dell’altro” (Lakoff e Johnson 1980). Per questo progetto ho riempito un carrello industriale con 4000 libri. È stato un lavoro sui “contenitori” di materiale, di conoscenza e di interconnessione. Prendiamo una metafora come “the ship ploughs the sea”. L’aratro è solitamente un attrezzo usato per sollevare e riassestare il suolo. Il caso del dragaggio del fiume Elba potrebbe essere percepito in questa maniera o forse in un modo simile perché lo scavo di più di un metro del letto del fiume darebbe alle navi la piena navigabilità, indipendentemente dalle fluttuazioni della marea. Ciò solleva interrogativi riguardo al dragaggio per scopi ambientali e a quello per incrementare ulteriormente lo sviluppo economico. Ricercando ho appreso come le navi mercantili avessero iniziato a percorrere l’Elba a partire dal 1842. Così dal 1850 il letto del fiume è stato abbassato di sette volte per soddisfare il passaggio delle grandi navi per il commercio. Attualmente l’Elba è profondo 15,30 metri. Le metafore sul fiume mi permettono anche di pensare ai contenitori vuoti come portatori di segni in termini filosofici, poetici e scientifici. A volte risultano familiari ma comunque ogni giorno intriganti ed emozionanti; forse anche laconici e sconcertanti. La decisione di scavare ancora una volta l’Elba rappresenta il momento di riflessione importante riguardo alle nostre aspirazioni e al loro potenziale creativo, alla nostra capacità di coltivare e distruggere. Ripensando alla mia esperienza visiva della città portuale e delle reti che da essa partono, alla vita del fiume e a come può essere sostenuta, mi è venuta in mente una poesia di T.S. Elliot.

The endless cycle of idea and action
Endless invention, endless experiment

Brings knowledge of motion, but not of stillness
Knowledge of speech, but not of silence. 

Body City Flows che sarà presente nella personale Samakalik: Earth Democracy and Women Liberation al PAV, si tratta di un video presentato la prima volta a Geographies of Consumption’/ The City as Consumption Site: Bombay/ Mumbai, progetto di arte pubblica a cura di Mohile Parekh Center, 2015. Con questo lavoro ho denunciato l’abuso e l’appropriazione delle risorse naturali dal fiume di Mumbay e dei suoi quattro bacini fluviali. Trovo delle corrispondenze tra la relazione di un fiume con i suoi affluenti e il sistema sanguigno del corpo umano con le sue vene e le sue arterie. Ho montato insieme animazioni del flusso sanguigno umano che ho richiesto a diversi ospedali e l’intervista che ho fatto al dottor Modak, fondatore della Ekonnect Knowledge Foundation, come rimando alla situazione attuale dell’acqua di Mumbai. Le vene del corpo, le radici di un albero e il delta di un fiume trasmettono visivamente il senso dell’atemporalità di forme. I fiumi sono come il sangue nelle vene o le radici sotto gli alberi, perché permettono la vita e forniscono sostentamento. È a causa di questo legame organico con la terra e l’acqua che le civiltà hanno prosperato al di fuori dei sistemi fluviali. In senso metaforico i fiumi sono messi a confronto con l’anima, il che implica la ricerca senza fine di radici o percorsi di conoscenza e percezione della natura.

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

Tra il 2003 e il 2005 assieme a Rajkumar Korram, Shantibai e Gessuram Mandavi hai fondato a Bastar (India) l’organizzazione non governativa DIAA – Dialogue Interactive Artists Association – autofinanziata grazie all’importo ricevuto dalla vendita del vostro primo progetto scultoreo Modes of Parallel Practice: Ways of world Making realizzato a Shilpi Gram in occasione del premio ricevuto dalla India Foundation for the Arts a Bangalore tra il 1997 e 1998. Questo progetto è stato poi invitato alla prima Fukuoka Asian Art Triennial (Giappone) ed è stato acquisito dal Fukuoka Asian Art Museum per la collezione permanente nel 1999. Quali progetti state attualmente portando avanti con DIAA?

NA: Il nostro obiettivo con DIAA è quello di creare e garantire uno spazio culturale che permetta la concretizzazione delle riflessioni critiche che affrontiamo. Consideriamo DIAA un progetto di pratica sociale perché ciò che io e gli artisti indigeni facciamo è analizzare il sistema attraverso i nostri interventi, per incoraggiare, generare dialogo, tra noi e le comunità dei quartieri. Costruire relazione con la comunità locale ha richiesto un periodo di tempo considerevole. Il contesto in cui lavoriamo, la ricerca e le esperienze devono essere comprese profondamente perché, come ho detto prima, ogni luogo ha il suo universo unico di condizioni. Penso ai nostri progetti Nalpar e Pilla Gudi: si sono evoluti in diversi luoghi attraverso forme artistiche di partecipazione. Altre attività in cui siamo ci siamo impegnati è il Dialogue Centre che include laboratori con i giovani delle scuole locali a Pilla Gudies e l’organizzazione dei seminari che chiamiamo Samvad che richiamano persone provenienti da diverse discipline, da diversi luoghi dell’India o altrove e da diverse aree di Kondagaon. Dal 2007 questi seminari affrontano tematiche come Perceptions of Collaboration, What is Contemporary in Contemporary Art, Value [of] Nature e समकालीन /Contemporaneous. Vogliamo promuovere una pratica artistica attraverso la sperimentazione, crediamo fortemente nelle politiche di inclusione.

DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Chawal ki Kahani, Students in the process of installing, Shilpi Gram, Kondagaon, Bastar, 1997/1998.

La nostra pratica non si limita quindi al solo fare arte, ma anche al confronto con la popolazione locale che, attraverso la sua resistenza politica nelle zone rurali di Chhattisgarh, si trova a dover affrontare quotidianamente pressioni socio-politiche ed economiche imposte dalle forze capitaliste dominanti. Abbiamo osservato che cosa succede quando non avvengono cambiamenti per lunghi periodi di tempo e cosa succede invece quando le persone vogliono parlare della propria lotta; come gli artisti locali di diverse discipline hanno risposto a determinate situazioni e si sono impegnati nella resistenza politica contro “forme di autoritarismo oppressivo nel Paese oggi giorno”. Usano l’arte per resistere alla libertà di espressione e per vivere secondo i loro principi. I seminari presso il Dialogue Centre invitano la popolazione locale come agricoltori, avvocati, attivisti alla lotta assieme ad artisti teatrali, attivisti culturali e teorici, storici dell’arte, scrittori, giornalisti, funzionari comunali, insegnanti… che usano diverse forme espressive come mezzo per incoraggiare le forme di dialogo. Abbiamo sperimentato come la creazione per una reale comunicazione tra persone di diversa estrazione sociale (politica, economica e culturale) richieda un “processo di apprendimento e dis-apprendimento attraverso la pratica, per essere in grado di attivare e garantire uno spazio culturale che permetta la riflessione critica e la sua applicazione”.

DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Chawal ki Kahani, Students who visited Shilpi Gram to see the installation, Kondagaon, Bastar, 1997/1998.

Hai recentemente dichiarato al convegno Mumbay Local (2018) che “la posizione politica assunta da un artista determina profondamente la sua estetica”. Come questa affermazione entra in relazione con una politica di inclusione diretta?

NA: Mentre si guarda il lavoro di un artista, non è necessario che le persone facciano associazioni o vi rispondano. Ciò che conta è l’identificazione dello spettatore con le intenzioni dell’artista e il contesto in cui lavora, le scelte politico-estetiche o le decisioni prese dall’autore, che ne determinano la sua sensibilità estetica (che richiede analisi critiche). Quando si è veramente coinvolti e politicamente impegnati si crede che la politica della parità dei diritti abbia anche un valore estetico. Penso che ciò vada anche inteso come la rinuncia di una posizione giudicante. Per spiegarlo chiaramente vorrei condividere questa citazione dal saggio Equal Aesthetic Rights di Boris Groys che sottolinea:

“La politica di emancipazione contemporanea è una politica di inclusione diretta contro l’esclusione delle minoranze politiche ed economiche. Ma la lotta per l’inclusione è possibile solo se le forme in cui si manifestano i desideri non vengono respinte e soppresse fin dall’inizio da qualsiasi tipo di censura estetica operante in nome dei valori estetici superiori delle minoranze escluse”.

Navjot Altaf + DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Navjot with children at Pilla Gudi, Kopaweda, Kondagaon, Bastar, 2008.

Come artista sono sempre stata interessata a comprendere le dinamiche e le complessità delle diverse culture. Intervenire in uno spazio o in una cultura differente dalla propria richiede sensibilità e una visione senza pregiudizi. Quello che ho imparato dal confronto con persone provenienti da campi e background diversi, in aree urbane o rurali, è che non va mai sottovalutata la sensibilità estetica di una cultura o di un individuo, le sue esperienze vissute o i sistemi di conoscenza sviluppati in un contesto specifico. Credo che non ci sia un unico approccio per affrontare la vita o l’arte.

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation (Democrazia della Terra e Femminismo) è la tua prima esposizione personale italiana, a cura di Marco Scotini al PAV – Parco Arte Vivente di Torino. Come indica il titolo che hai scelto, samakaalik in hindi rappresenta l’intersecarsi simultaneo, in questo caso delle lotte per la tutela ambientale e l’ecologia con il movimento femminista, nelle sue specificità del contesto post-coloniale indiano, in particolare da quella prospettiva politica che l’economista Bina Agarwal ha definito «feminist environmentalism», ossia una forma intersezionale di ecofemminismo. Come è nato questo progetto?

NA: Questo aprile ho ricevuto una mail da Marco Scotini. Avevo già collaborato con lui in precedenza quando mi ha invitata a partecipare alla 2nd Yinchuan Biennale (2018). L’ho incontrato la prima volta a Yinchuan, dove ha curato la splendida Biennale Starting from the Desert. Ecologies on the Edge. Ho apprezzato molto il suo lavoro. Mi sono sentita onorata quando mi ha proposto di voler curare una mia personale al PAV di Torino, guardando al corpus di opere come “punto di partenza per sviluppare una riflessione teorica sull’ecofemminismo”. Sono entusiasta di collaborare con lui.

DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Pilla Gudi at Kopaweda,  Kondagaon, Bastar, 2005.

DIAA Dialogue Interactive Artists Association, Pilla Gudi at Shilpi Gram campus, Bhelwapadarpara neighbourhood, Kondagaon, Bastar, 2000.

Come saranno raccontate in Samakaalik le tre diverse concatenazioni del tuo percorso storico e artistico: la fase marxista, come abbiamo discusso all’inizio sulla tua militanza con PROYOM, quella femminista nella lotta delle donne ma anche nel superamento dei marcatori di genere e identità – non a caso, Geeta Kapur, la più autorevole storica dell’arte, critica e curatrice indiana sostiene come il tuo lavoro “conduca una costante decostruzione su quelle convenzioni identitarie (l’essere donna, l’essere lavoratore, l’essere contadino) fondate su un linguaggio culturalmente determinato, su un sistema fondato su divisioni sociali strutturalmente complici al patriarcato e al capitalismo” – e infine l’approccio orizzontale e collaborativo con artisti indigeni e membri della comunità di Bastar, con cui ripensate politicamente il significato stesso di arte pubblica?

NA: Marco sceglierà sicuramente opere di epoche diverse, dagli anni Settanta ad oggi. Sarà lui in grado di evidenziare al meglio le diverse fasi del mio percorso artistico.

Ma se posso anticipare il percorso della mostra, in quella che definisco fase marxista rientra un poster del 1976 fatto durante i tempi di PROYOM e Wheelers Book stall Revisited, un’installazione del 2018, che consiste in sessantatré poster a doppia faccia prodotti a partire da testi che sono stati ricreati in collaborazione con altri due membri di PROYOM di Bombay e Delhi, molto attivi degli anni Settanta, per la mia retrospettiva alla National Gallery of Modern Art Mumbai nel gennaio 2019.

Navjot Altaf, Poster done during emergency period, 1976.

Altri progetti che considero parte di una fase femminista sono How Perfect Perfection Can Be (2016), acquerelli di mappe di piani su territori di miniere di carbone, Trail of Impunity (2014) fatto ad Ahmedabad dopo dieci anni in cui avevo fatto ricerche per Lacuna in Testimony, dopo i disordini scoppiati nel Gujarat. Il lavoro è una critica alla violenza. Attraverso la conversazione che ho avuto con un attivista e un sopravvissuto al genocidio affronto le questioni sulle altre “forme di vita” (che iniziano dove finisce la dignità) e sulla “presenza di umanità nell’essere umano”. Lost Text (2017) sono diversi estratti dai miei diari personali di Bastar, annotati nel corso degli anni. Quando li ho trascritti digitalmente, si sono danneggiati e il testo si è convertito in un arbitrario mix di numeri, alfabeti, simboli, segni di punteggiatura che lo hanno reso criptico. Anche se la struttura del testo era stata danneggiata, perdendo la logica e la sequenza, è interessante notare che questi schemi di parole frammentate e disorganizzate erano stati ulteriormente “sminuzzati” dalla memoria selettiva del computer e dai segni di punteggiatura, che hanno prodotto narrazioni lontane dal significato originario e che risultavano essere più come degli indizi per scavare in significati nascosti e trovare nuovi significati. La parola evidenziata su ogni fotogramma è la parola che ho notato per prima.

Ad esempio, la parola “altogether” è stata frammentata in “Alto<get>her”. La cosa interessante è che in India abbiamo un’auto Suzuki chiamata “Alto” (Alto è una delle auto più piccole ed è stata pubblicizzata dalla Suzuki proprio nel periodo in cui stavo analizzando i testi). Un’altra parola è “Swaminathen” (nome di un artista indiano) che si è frammentato in “Swam:=</~in /`##>Athens”.

Attraverso questo testo frammentato “gioco” con il “gioco” della tecnologia e della memoria per creare nuove proposizioni.

Navjot Altaf, Soul Breath Wind (2014-18). Courtesy l’artista.

Navjot Altaf, Soul Breath Wind (2014-18). Courtesy l’artista.

Soul Breath Wind (2014-2018) è costituito da stampe fotografiche e due proiezioni video ed è parte della mia ricerca a Chhattisgarh, nell’India centrale. Il lavoro tratta della devastazione ambientale, sociale, culturale, economica e psicologica, che io chiamo violenza lenta, causata dall’industria pesante e dalle miniere di carbone. Un disastro causato dall’uomo con cui le comunità locali sono state impegnate per diversi anni nel resistere all’estrazione mineraria a favore dell’energia solare che stanno sperimentando in un contesto più ristretto.

Insect Logos – A to Z (1972) sono disegni a inchiostro. Si tratta di un progetto che ho fatto come studentessa nel corso di arte applicate. Ho studiato sia arti applicate che belle arti. Dato che avevo solo fotografie molto piccole di questo viaggio, le ho riprodotte sotto forma di disegno per la mia retrospettiva dello scorso gennaio.

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

Nalpar (2000-2005) è un progetto fotografico sulle pompe d’acqua negli spazi pubblici. È stato sviluppato in collaborazione con artisti indigeni, membri della comunità interessata e i funzionari comunali di Kondagaon, Chhattisgarh. Nalpar è un luogo pubblico in cui persone di tutte le età vanno a prendere l’acqua almeno una volta al giorno.

I progetti per i luoghi di pompaggio dell’acqua sono stati elaborati da me e da altri quattro artisti indigeni sulla base della nostra comprensione del significato dei segni, dei simboli, degli oggetti usati e incorporati dalle comunità durante i riti e altri momenti di socialità. Questa analisi ha ampliato la nostra comprensione sull’esistenza di questi simboli e su come si siano evoluti all’interno dei processi di produzione Oggi giorno siamo in grado di relazionarci con nuovi segni, che si sono evoluti a causa del cambiamento dell’ambiente politico, culturale ed economico.

Navjot Altaf, Soul Breath Wind (2014-18). Courtesy l’artista.

Navjot Altaf, Soul Breath Wind (2014-18). Courtesy l’artista.

note:

[i] Kamla Bhasin e Nighat Said Khan, Some Questions on Feminism and its Relevance in South Asia, Kali for Women, New Delhi, 1986.

[ii] Note sul progetto Empty Containers, Yamuna–Elbe: Contemporary Flows, Fluid Times project: Questa collaborazione tra Navjot Altaf (Mumbai), Nina Kalenbach (Amburgo), Till Krause (assistente alla produzione di libri, Amburgo), George Jose (proof reading, Mumbai), e Imke Faehnders, (traduzione dall’inglese al tedesco) parte della Yamuna-Elbe: Contemporary Flows, progetto Fluid Times, invita lo spettatore a riflettere sulla propria percezione del fiume Elba, dei fiumi, dell’acqua e del dibattito sul tema dello sviluppo continuo e del suo impatto ambientale, mettendolo in connessione con le potenzialità delle modifiche e cancellazioni dei testi nei libri e al loro contenuto che potrebbero essere condivise con altri partecipanti in diversi spazi.

[traduzione Chiara Lupi]

Navjot Altaf, Nalpar. Progetto collaborativo con artisti Adivasi e membri della comunità. Struttura: Kopaweda. Kondagaon, Bastar (2004 – 2005). Courtesy l’artista e DIAA.

 

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